Scompare Atkinson, grande
analista della disuguaglianza

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Non poteva aprirsi in un modo peggiore per la ricerca economica, questo 2017. Il primo gennaio, infatti è scomparso Tony Atkinson, già professore di economia politica alle università di Oxford e Cambridge e presidente dell’International Economic Association, oltre che molte volte candidato al Premio Nobel per l’economia per i suoi studi sulla disuguaglianza economica e reddituale.

Atkinson, uno dei più cari amici di altri due economisti del welfare e dello sviluppo come James Meade ed Amartya Sen, era nato in Galles nel 1944 e si era laureato in matematica a Cambridge nel 1966. La sua passione per la disuguaglianza nella detenzione delle risorse economiche, nata subito dopo l’adolescenza grazie all’impegno profuso nel mondo del volontariato, gli è valsa anche la nomina a “Sir dell’Impero Britannico” da parte di Sua Maestà Elisabetta II oltre che la chiamata a far parte della prestigiosa British Academy.

Negli anni Settanta dominati dal neoliberismo e dalle ricette economiche incentrate intorno all’efficienza care alla scuola economica di Chicago di Milton Friedman e George Stigler, nulla era più peregrino nella teoria economica rispetto allo studio e alla misurazione della disuguaglianza. È stato proprio Atkinson, ben prima della rielaborazione
della teoria del Capitale da parte di Thomas Piketty che pure lo onora tra i suoi maestri, a mantenere viva la fiamma degli studi sulla disuguaglianza nell’arco temporale che va dalla fine degli anni Settanta ad oggi, molti anni prima, quindi, che il tema tornasse di attualità dopo la crisi del 2008 su cui in vero Atkinson è tornato a più riprese a concentrarsi.

Sono tre gli aspetti della ricerca di Atkinson a spiccare maggiormente: stiamo parlando dello studio della povertà, della critica all’ortodossia del libero mercato e dello studio della disuguaglianza di cui si è anticipato. Con riguardo allo studio della povertà, per il laburista d’antan Atkinson, così come per il suo amico e collega Amartya Sen, l’intento è tutto pratico: sostenere la necessità di miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini all’interno degli Stati, una necessità di cui ha il dovere di farsi carico la politica e quindi un campo di azione affermativa da demandarsi ai governi e da sottrarsi alle logiche del laissez-faire di matrice smithiana. Quando si parla di intento propriamente “pratico” di questo interesse per la povertà, si vuole intendere “pratico” in senso stretto: già Professore all’Università di Essex, per esempio, Atkinson era solito scendere per le stradine del mercato a spiegare ai dettaglianti i loro diritti in materia previdenziale e tributaria. In questo contesto prese vita un classico per gli economisti del welfare dalla straordinaria chiarezza, utilità e radicalità, ovverosia Poverty in Britain and the Reform of Social Security in cui l’economista gallese si spendeva per l’instaurazione di un’età di giustizia sociale e ridistribuzione economica dopo il boom del Dopoguerra che pure s’era rivelato profondamente disomogeneo. Il secondo filone della teoresi di Atkinson manifestava senz’altro un tenore più teorico ed ha preso vita nel corso dei venticinque anni di redazione del «Journal of Public Economics», anni condivisi insieme ad un altro Nobel, ovverosia Joseph Stiglitz. Proprio il lavoro congiunto di Atkinson e Stiglitz, infatti, si pone alle fondamenta dell’odierna critica alle storture cicliche dell’economia di libero mercato. Il libro Lectures in Public Economics curato proprio congiuntamente da Stiglitz e da Atkinson è il caposaldo che rielabora il pensiero di Arthur Pigou secondo cui nell’economia contemporanea l’equità deve tornare ad avere almeno lo stesso peso dell’interesse che gli economisti manifestano per l’efficienza nell’allocazione delle risorse.

Ma Atkinson sarà senz’altro ricordato soprattutto per il contributo fornito nel campo dello studio delle disuguaglianze economiche e sociali. Thomas Piketty stesso ricorda come proprio il suo mentore Tony Atkinson gli abbia rammentato infinite volte come “la scienza economica sia prima di tutto scienza sociale e poi morale”, come il Professore parigino ha dichiarato nei giorni scorsi al Financial Times per ricordare il maestro scomparso. Proprio la ricerca di Atkinson ha permesso al Governo inglese di prendere coscienza delle assurde disparità dell’economia di mercato in termini di beni e ricchezza posseduta dai cittadini.
Profondamente critico nei confronti del famoso coefficiente teorizzato da Corrado Gini sulla disuguaglianza, a suo dire incapace di spiegare il perché della profonda dicotomia tra chi si situa in testa alla piramide reddituale e chi ne sta alla base, Atkinson si dedicò a mettere a punto un indice che oggi porta il suo nome ma che consente ai ricercatori di differenziare tra quelle società che hanno pari livelli di disuguaglianza ma diversi livelli di povertà reale e percepita. Nel recente 2011 Atkinson era tornato sui propri studi sulla disuguaglianza con un saggio sul «Journal of Economic Inequality» dal titolo On Lateral Thinking, in cui, invitato dai suoi colleghi economisti Ravi Kanbur e Frank Cowell, professori alla Cornell University, a riflettere sulla disuguaglianza a quarant’anni dai suoi primi studi in materia, Atkinson aveva proposto almeno sicure clausole di salvaguardia sociale per prevenire il radicamento della disuguaglianza economica come per esempio la necessità di cure mediche gratuite per tutti gli esseri umani senza distinzione di sesso o appartenenza. Ancor più recentemente Atkinson ha lasciato un grande testamento per il lavoro futuro degli economisti e degli scienziati sociali: sua è infatti la firma alla cura del grande rapporto sulla povertà globale commissionatogli dalla World Bank dal titolo Global Poverty Monitoring, uscito lo scorso settembre e già riconosciuto come pietra miliare dalle grandi istituzioni economiche internazionali soprattutto nel momento in cui Atkinson si è dedicato al desiderio di far prendere coscienza alla comunità internazionale circa la multidimensionalità della povertà e della disuguaglianza e del rilievo giocato non solo dalle disuguaglianze fondate intorno al reddito ma anche dalle disuguaglianze fondate intorno all’impossibilità di condurre una vita dignitosa e di valore, aspetti, questi ultimi, che solo ad un occhio superficiale possono tuttora apparire avulsi dallo spazio dell’economia politica.

Tra gli ultimi contributi di Atkinson che possiamo leggere in italiano, proprio in risposta al Capitale del XXI secolo di Piketty, figura il libro Disuguaglianza. Che cosa si può fare (Raffaello Cortina, Milano 2015) che rielabora dieci proposte radicali per il superamento della disuguaglianza economica già scritte per un numero monografico del «British Journal of Sociology» nel 2014 e che passano attraverso una critica ai processi telematici come esclusiva concezione del lavoro futuro a fronte del progressivo abbandono del lavoro manuale, e ancora dall’incentivo al progressivismo della tassazione (suggerimento di una patrimoniale con un’aliquota del 65% sull’1% dei cittadini più ricchi della popolazione), sino al progetto di un servizio gratuito pubblico di consulenza dedicato ai piccoli risparmiatori al fine di non incappare in quei clamorosi disastri bancari di cui noi tutti siamo stati recenti testimoni e (spesso involontari) debitori.

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