Piazze piene, lotte di potere, nostalgie conservatrici. I tormenti della Tunisia

Dieci anni dopo la fulminea destituzione del presidente Zine el-Abidine Ben Ali, tutti i nodi stanno venendo al pettine in Tunisia, stremata da una crisi economica di cui non si riesce a intravedere la fine. La cronaca politica è lo specchio di una situazione ormai incancrenita, in cui la conflittualità pervade il presente.

Il primo scontro, diretto e sotto la luce del sole, è quello fra l’Islam politico, incarnato da Rached Ghannouchi, numero uno di Ennahda, e un conservatorismo laico, accentratore, muscolare, nostalgico dell’ancien régime. Quello propugnato da Abir Moussi, presidentessa del partito al-Dusturi al-Horri (dalle parole arabe dustur, Costituzione, e hurria, libertà), ovvero il Dusturiano libero, nel solco della tradizione del padre della patria Habib Bourguiba. E pure più a destra.

È questa una lotta fra visioni del mondo, ma non solo. Anche tra personalità divenute simbolo.

A quasi 80 anni, Rached Ghannouchi, speaker del Parlamento, rappresenta ancora, a più di un trentennio dalla fondazione di Hizb Ennahda (il partito della Rinascita), l’unica vera figura apicale del fronte islamista. Ghannouchi, insomma, è la voce che in Tunisia raccoglie le istanze sia degli islamisti moderati – sedicenti ‘islamisti democratici’ per affinità linguistica con la ‘democrazia cristiana’ in Europa – sia delle frange più estreme.

E questo grazie al suo passato di studioso di teologia all’Università az-Zeytuna di Tunisi, di simpatizzante della Fratellanza musulmana durante gli anni di specializzazione al Cairo e di adepto di formazioni pronte a prendere le armi, in Siria.

Durante l’esilio a Londra – 20 anni, dal 1991 al 2011, trascorsi non smettendo mai di occuparsi di politica e società tunisina – Ghannouchi ha rinnegato l’uso della violenza e il terrorismo come strumento di liberazione dei popoli oppressi. Anche sulla questione palestinese, ha via via adottato toni sempre più morbidi, anche se il riconoscimento dello Stato di Israele non è mai entrato nell’agenda di Ennahda.

I suoi detrattori, tuttavia, continuano a ritenere che, in realtà, un sincero cambiamento ideologico in lui non sia mai avvenuto e per questo puntano il dito contro un atteggiamento ambiguo nei confronti della coalizione al-Karama, islamista radicale, e, al di fuori del Parlamento, nei confronti del fitto sottobosco jihadista tunisino.

Depongono a suo favore, però, la capacità di accettare un compromesso storico con il fronte modernista nel 2013 e l’alleanza politica e personale intessuta con il (defunto) presidente Béji Caïd Essebsi nei lunghi anni post-rivoluzionari.

Sulla compromissione di Ennahda e della sua leadership con il jihad e in particolare con il reclutamento di combattenti per i teatri di guerra di Siria e Iraq, al servizio del Califfato, la magistratura tunisina sta indagando da tempo. Anche le responsabilità dei vertici di Ennahda negli omicidi politici di Chokri Belaïd e Mohamed Brahmi (2013), esponenti della sinistra tunisina, sono al vaglio dei giudici.

Sul piano regionale, le relazioni di Ghannouchi e della sua dirigenza con Turchia e Qatar, Paesi a maggioranza sunnita sostenitori politici ed economici della Fratellanza musulmana, si intrecciano alla luce del sole. Il Qatar, in particolare, è attualmente il primo Paese investitore in Tunisia: subito dopo la rivoluzione, Doha ha disposto la creazione di un fondo, ad oggi del valore complessivo di un miliardo di dollari, per sostenere la ripresa economica e sociale della piccola Repubblica. Lo sforzo qatarino è di frequente ricordato da Ghannouchi, spesso ospite del sultanato in quanto presidente dell’Assemblea del popolo (il Parlamento, monocamerale, tunisino).

Sul lato opposto del ring vi è una figura di esperienza inferiore, ma non per questo meno simbolica. L’avvocatessa 45enne Abir Moussi è da sempre una militante ‘Ben-ali-sta’. Appena terminati gli studi in legge, sul finire degli anni ‘90, aderì infatti alla corrente degli avvocati tunisini che faceva capo al Rassemblement constitutionnel démocratique, il partito unico di regime. Per lei si trattò di un trampolino per accedere alla dirigenza del Rcd, con incarichi sempre più prestigiosi in commissioni e agenzie interne. Poco prima dell’implosione del regime, Moussi presiedeva la Commissione sulla Donna.

Nel 2011, in piena rivolta di piazza, l’avvocatessa non esitò ad opporsi apertamente alla destituzione del presidente, considerandola “un complotto di europei e sionisti”. Proposito che, peraltro, sostiene tutt’oggi.

Assente dalla scena politica nei tre anni successivi perché ostracizzata, a suo dire in modo “incomprensibile”, per la nostalgia nei confronti della dittatura e l’avversione al progetto democratico pluralista, nel 2016 la ‘pasionaria’ della destra tunisina è tornata alla ribalta prendendo le redini del Partito Dusturiano Libero. Il movimento raccoglie esplicitamente l’eredità del Rassemblement con il progetto di ripristinare una forma di presidenzialismo forte, temperato dal Parlamento ma neanche troppo.

L’Associazione delle famiglie delle vittime e dei feriti della Rivoluzione del 2011 ha recentemente denunciato Moussi alla magistratura per revisionismo e negazione delle atrocità commesse dal regime di Ben Ali, a seguito delle sue dichiarazioni in merito pronunciate in qualità di rappresentante del partito dusturiano. Ma la leader non arretra di un passo, ribadendo che ai tempi di Ben Ali «la Tunisia stava meglio».

Questo il profilo sintetico dei primi due protagonisti di un braccio di ferro sfibrante, in corso in Parlamento e sui media mentre piazze e strade si riempiono di scontento, disperazione, rabbia. L’anno 2020, infatti, con il suo carico di pandemia, si è abbattuto sul piccolo Paese arabo spazzando via ogni speranza di ripresa economica. E pensare che un anno fa, un periodo di relativa stabilità e sicurezza aveva fatto pensare al meglio per turismo e investimenti esteri.

Anche l’agognata solidità politica è rimasta un’utopia: dal voto dell’autunno 2019, il Presidente Kaïs Saïed ha già conferito l’incarico di formare un Governo a tre diversi premier, tutti privi di una maggioranza forte in Parlamento.

In proposito, un altro duello feroce è in corso oggi in Tunisia: quello fra il Presidente della Repubblica e il primo ministro Hichem Mechichi, in carica dal settembre 2020. Lo scontro istituzionale non ha precedenti, per durezza, nella Tunisia post-rivoluzionaria. A fine gennaio, il premier ha incassato il sì del Parlamento alla sua nuova squadra di Governo, osteggiata invece dal Presidente (e pure da Abir Moussi, attenzione). Saïed formula accuse precise: il premier non ha rispettato le procedure stabilite dalla Costituzione, in primis. Poi, ci sono i rilievi di sostanza: Mechichi ha introdotto nel Gabinetto governativo alcuni ministri – sono undici le new entries – di dubbia levatura morale. Accuse pesantissime, aggravate dal fatto che Mechichi era stato scelto dal Presidente proprio sulla base del suo impegno a favore della legalità e della trasparenza.

Ancor peggio, il Primo ministro è riuscito a validare il rimpasto governativo grazie al sostegno degli islamisti moderati di Ennahda e di quelli più conservatori di al-Karama, oltre al contributo dei populisti di Qalb Tounès e a quello (modesto) dei liberali di Tahya Tounès.

Una manovra in puro stile trasformista, agli occhi della presidenza, visto che il premier era stato ‘selezionato’ apposta per mettere all’angolo le ambizioni islamiste.

Di fatto, ciò che il Presidente della Repubblica contesta è che Bardo (sede del Parlamento) e Kasbah (del Governo) stiano camminando sulle proprie gambe, saltando passaggi costituzionali obbligati e ignorando le sue indicazioni politiche. Oggi la Presidenza della Repubblica tunisina è ridotta a un ruolo onorario, svuotata di autorevolezza e capacità di orientare le strategie politiche.

Nel frattempo, alla mobilitazione popolare contro la crisi economica, in corso dal giorno del decennale della destituzione di Ben Ali (11 gennaio 2011), le autorità stanno rispondendo con il pugno di ferro. Migliaia di persone sono state arrestate, mentre il governo accresce di giorno in giorno il dispiegamento dell’Esercito in diverse province, Tunisi compresa. Una parte dell’opinione pubblica è allarmata dal ritorno di uno Stato di polizia, possibilità meno remota di un anno fa, mentre un’altra parte auspica ordine e stabilità.

E la comunità internazionale? Forse, ha già fatto una scelta di campo, almeno per quanto riguarda il cosiddetto Occidente.

È sufficiente effettuare una ricerca sui principali media euro-americani per imbattersi in articoli, interviste, immagini di Abir Moussi, protagonista di una oculata operazione di marketing di sé e del proprio partito all’estero.
I dusturiani hanno compreso il peso delle parole e, di conseguenza, smussato gli angoli di un linguaggio politico finora ‘impresentabile’, per la sua asprezza, a Bruxelles (e anche a Washington, ora che alla Casa Bianca c’è un’Amministrazione più sensibile alla forma): forte di sondaggi che la danno in crescita nel gradimento popolare, Moussi propone ora di formare un Governo di “larghe intese”, “aperto a tutti” i partiti laici, finalizzato a rilanciare l’economia e a “liberarsi dell’Islam politico”.
Un programma che con tutta probabilità ha già dei sostenitori nelle cancellerie europee e oltreoceano, ma che potrebbe svuotare le casse tunisine dei dollari del Golfo.

 

Foto: Fethi Belaid / AFP

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