Migrazioni e climate change:
Verso lo status di rifugiato ambientale?

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Alluvioni, inondazioni, uragani: eventi improvvisi che costringono a fuggire. Desertificazioni, innalzamento del livello del mare, periodi estremi di siccità: fenomeni di lungo periodo che possono costringere intere popolazioni a spostarsi, all’interno dei confini di uno Stato o alimentando flussi migratori internazionali. Il cambiamento climatico ha un impatto sulle migrazioni, più diretto se le cause sono improvvise ed estreme, di lungo periodo per altri tipi di fenomeni che comunque stanno ridisegnando la geografia dei flussi migratori. Si sa già che gli abitanti delle piccole isole del Pacifico, di Kiribati e Tuvalu, saranno costretti a migrare per l’innalzamento del livello dell’oceano. I cambiamenti del clima hanno un impatto sulle migrazioni. La comunità internazionale arriverà a riconoscere i rifugiati ambientali? La domanda è ancora aperta, perché richiede un dibattito internazionale notevole e affronta non poche difficoltà, in un momento in cui, almeno in Europa, si rivendica la differenza fra rifugiati di guerra e migranti economici. Ma qualche dato c’è: secondo l’Internal Displacement Monitoring Agency dal 2008 al 2014 oltre 157 milioni di persone sono state costrette a spostarsi per eventi meteorologici estremi, oltre 19 milioni solo nel 2014. Davanti a questo fenomeno, e in vista della conferenza internazionale di Parigi sul clima, le associazioni si interrogano. WWF, Focsiv e Cespi hanno diffuso un report che si chiama proprio “Migrazioni e cambiamento climatico”, curato da Maria Grazia Midulla per il WWF e da Andrea Stocchiero per Cespi e Focsiv. Il documento mette sul piatto le conseguenze ambientali del cambiamento climatico, gli effetti sullo spostamento delle popolazioni, il dibattito sull’esigenza di riconoscere uno status speciale ai rifugiati ambientali.

Maria Grazia Midulla, responsabile energia e clima del WWF Italia, spiega che le migrazioni possono derivare da eventi meteo estremi o da fenomeni climatici di lungo periodo e che c’è un legame fra questioni ambientali e spostamento delle popolazioni. “Abbiamo denunciato che questo fenomeno si sta accentuando perché l’intensità e la frequenza degli eventi estremi si sta accentuando. Spesso vediamo situazioni di emergenza solo legate a terremoti o eventi catastrofici, ma in realtà ci sono tanti piccoli eventi che stanno determinando lo spostamento delle persone”. Fattori climatici di lungo periodo colpiscono le aree intorno all’Equatore e non solo: i Paesi Bassi, ad esempio, sono sotto il livello del mare e rappresentano un’area ad alto rischio. “Quando i governi affrontano il problema del cambiamento climatico nel Consiglio di sicurezza Onu quella delle migrazioni è una delle grandi questioni che si pongono”, aggiunge Midulla. “Credo che la questione delle migrazioni e degli effetti del cambiamento climatico sia ben presente, basta pensare alle piccole isole del Pacifico che premono perché si acceleri la riduzione delle emissioni, cercando di stare dentro un aumento medio della temperatura di un grado e mezzo e non di due gradi”. Riconoscere o meno uno status particolare ai rifugiati ambientali? Spiega la responsabile WWF: “L’abbiamo lasciato aperto. Da una parte siamo coscienti che più si qualificano i migranti più si creano esclusioni – un paese può dire che vuole solo rifugiati per ragioni politiche. D’altro canto è anche vero che quando si decide di ricollocare una comunità all’interno di uno stesso paese o meno, perché magari è destinata a essere sommersa dal mare, è chiaro che il fattore di necessità va riconosciuto. E infatti qualcuno parla di rifugiati climatici. Questa è una discussione che va fatta, su cui noi abbiamo rimandato la palla a ulteriori approfondimenti anche fra le stesse ONG”.

Del resto le categorie sono sfuggenti. “La definizione di migranti ambientali è molto lasca”, spiega Andrea Stocchiero ricercatore del Cespi (Centro Studi di Politica Internazionale). “Sono tutte quelle persone che sono costrette per eventi meteorologici estremi a fuggire dalle loro case e a spostarsi. C’è poi un’altra tipologia che fa riferimento a tutte quelle persone che, a causa dell’intreccio fra effetti del cambiamento climatico, degrado socio-ambientale del proprio territorio, politiche che creano condizioni per un peggioramento, sono costrette un po’ alla volta a spostarsi. All’interno di questi spostamenti, interni a paesi e verso paesi limitrofi, alcuni generano flussi intercontinentali. Ci si sposta dall’Africa verso l’Europa, gli Stati Uniti e il Canada. Questo fenomeno si intreccia con mancanza di lavoro, precarietà, insicurezza delle famiglie, che stanno facendo crescere questi spostamenti”. La comunità internazionale sta discutendo sul riconoscimento dei rifugiati ambientali ma gli esiti non sono affatto scontati. “In alcuni casi c’è un’evidenza molto chiara: penso all’innalzamento del livello dei mari e degli oceani, per cui ci sono isole e atolli nel Pacifico che scompariranno. Il riconoscimento dello status di rifugiati ambientali viene chiesto da paesi come Kiribati, le isole Mauritius, Tuvalu”, spiega Stocchiero. “Poi, nel medio-lungo periodo, il cambiamento climatico, pur senza un effetto diretto, va ad amplificare situazioni di degrado che porteranno a degli spostamenti. Per questo la definizione di migrante ambientale è lasca, perché interagisce con variabili che fanno capo a problemi di carattere economico, sociale, a politiche che non si adattano ai cambiamenti. Adesso c’è il dibattito su rifugiati e migranti per motivi economici in Europa: è un dibattito politicizzato, si dice sì ai rifugiati mentre gli altri non possono avere accesso al nostro sistema di accoglienza. Anche questa categorizzazione è fallace: nel caso siriano, il conflitto ha radici certamente politiche ma anche socioeconomiche e ambientali”. In Nuova Zelanda, spiega il ricercatore, migranti che venivano dalle isole del Pacifico hanno chiesto il riconoscimento dello status di rifugiati ambientali, ma la richiesta è stata rigettata.

Si tratta di un dibattito che, calato nel contesto europeo, non può che richiamare le distinzioni sulle quali l’Europa sta costruendo la sua politica delle migrazioni. Sostiene Andrea Stocchiero: “L’Agenda europea sulle migrazioni si dice affronti in maniera strutturale il problema ma in realtà non è così, perché questa grossa demarcazione fra rifugiati per motivi politici e di conflitto e migranti economici non corrisponde alla realtà. Al di là della difficoltà di distinguere fra rifugiati per motivi di conflitto e rifugiati per altri motivi umanitari – perché la convenzione di Ginevra non stabilisce le nazionalità ma il diritto a essere considerato rifugiati se si è perseguiti nel paese di origine – negli hotspot o si fa una vera valutazione oppure, ed è quello che sta succedendo, si fa l’identificazione. Dopodiché se non sei eritreo o siriano ti danno il foglio di via e devi tornare nel paese di origine. E le persone si lasciano a se stesse in clandestinità – denuncia Stocchiero – perché sono pochi i paesi che hanno firmato accordi di riammissione con l’Italia o con l’Unione europea. Il rimpatrio diventa impraticabile e così si stanno creando sacche di nuova clandestinità, di persone abbandonate a se stesse, in alcuni casi vittima di organizzazioni criminali, con i cittadini italiani che aumenteranno ancor più la loro percezione negativa delle migrazioni”.

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Photocredit: Wikipedia

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