Mb S pro Russia verso la successione:
non c’è scampo per i dissidenti

Il futuro della dinastia dei Saud si gioca su due binari paralleli, lungo i quali le scelte del principe della corona Mohammed Bin Salman sfrecciano veloci e spregiudicate. C’è quello della politica estera, che include accordi con tutte le maggiori potenze mondiali, sebbene fra di loro avversarie. E quello interno, fatto di epurazioni ai vertici dello Stato.

Sul piano estero, a poco o niente è servito il viaggio del presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden a Riyadh, questa estate, concepito per concordare comuni strategie petrolifere. Senza voltare le spalle del tutto a Washington, Mohammed Bin Salman ha dimostrato la propria autonomia decisionale rafforzando al contrario l’asse con Mosca, nella cornice di Opec+.

La versione potenziata dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio ha disposto il taglio della produzione di oro nero, anche se inviso agli alleati statunitensi. E per giunta un taglio doppio rispetto a quanto previsto: 2 milioni di barili al giorno, cioè il 2 per cento della produzione in meno. Una scelta condivisa dai due fondatori dell’assemblea allargata, Arabia Saudita e Russia, e sostenuta dall’insieme dei partner: Opec+ comprende i 14 membri “anziani” – Algeria, Angola, Arabia Saudita, Ecuador, Emirati Arabi Uniti, Gabon, Guinea Equatoriale, Iran, Iraq, Kuwait, Libia, Nigeria, Qatar, Venezuela – e i produttori non-Opec, aggregati a partire dal 2014 proprio allo scopo di decidere assieme il contenimento della produzione mondiale. Cioè Azerbaijan, Bahrein, Brunei, Kazakhstan, Malaysia, Messico, Oman, Russia, Sudan e Sud Sudan. Su questo allungo indipendentista di Riyadh e il conseguente rialzo del prezzo del greggio Brent, destinato a vanificare qualsiasi tentativo di mettere un tetto al prezzo del petrolio in chiave anti-russa, Biden rischia di giocarsi le urne di midterm.

Ora sauditi e russi non fanno mistero di essere intenzionati a far durare nel tempo, almeno fino al 2028, l’esperimento di Opec+, dal loro punto di vista ben riuscito ovviamente. Ma la sicurezza con cui la corona saudita sta gestendo le proprie relazioni con Washington e Mosca, come se non temesse di perdere a nessuno dei due tavoli, lascia stupefatto più di un osservatore. Freddezza da giocatore di poker oppure lucidità di chi sa di avere il coltello dalla parte del manico? La Russia di Vladimir Putin è quella che collabora da decenni con l’Iran, di fatto il ‘migliore nemico’ di Riyadh. Mosca e Teheran si scambiano tecnologie e competenze militari, comprese quelle in ambito nucleare: nel conflitto in Ucraina, l’esercito russo sta impiegando anche armi di fabbricazione iraniana. Riyadh lo sa perfettamente. D’altronde proprio grazie all’expertise russa in ambito energetico sta programmando il proprio futuro nucleare, al pari di un altro alleato “di ferro” degli Stati Uniti nella regione: l’Egitto.

Vladimir Putin e Mohammed Bin Salman a Mosca, 30 maggio 2017 (Wikimedia Commons/Kremlin.ru)

Anche Il Cairo, pur non voltando le spalle alla Casa Bianca, ha accorciato le distanze con Mosca. La cooperazione con la Federazione Russa non è mai stata in discussione, neanche dopo l’invasione in Ucraina. Anzi. In seno alla Lega degli Stati arabi, proprio l’Egitto si è fatto protagonista della nascita – poi avvenuta a marzo, poco dopo lo scoppio della guerra – di un gruppo di raccordo, una sorta di task force diplomatica, per mediare fra Mosca e Kiev. Ne fanno parte, oltre al Paese promotore, anche Giordania, Algeria, Iraq, Sudan ed Emirati Arabi Uniti. L’Arabia Saudita ha preferito giocare una partita in solitaria: fra poco ne riparleremo. In aprile, dunque, il sotto comitato della Lega araba si è recato prima al Cremlino e poi a Varsavia (dove ha incontrato il presidente ucraino Vladimir Zelensky) per avviare un processo negoziale. Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha fatto tappa successivamente in Egitto a fine luglio, durante il suo tour africano, finalizzato a rafforzare i legami con alcuni pesi massimi del continente, fra cui anche Etiopia e Uganda.

E la collaborazione con Pechino? Ancora una volta, Riyadh segna la linea per i Paesi dell’area Mena (Nord Africa e Medio Oriente). Stringere legami economici e politici più stabili con la Cina è inevitabile, per non rimanere stritolati fra le due super potenze mondiali, le cui strategie geopolitiche vanno in direzioni opposte eppure conflittuali.

Da un lato, la nuova strategia regionale americana prevede la riduzione delle basi navali in Medio Oriente, a favore di modalità meno ingombranti di presenza sul territorio, con funzioni di sostegno alle forze di sicurezza delle monarchie del Golfo. Dall’altro, invece, per Pechino la fase storica è opposta: per tutelare i propri interessi, il dragone sta sviluppando il potenziale navale, allargandone la sfera geografica di influenza.

È interesse delle monarchie del Golfo, dunque, intessere relazioni fruttuose con entrambi i poli di un globo scosso da continui terremoti. Si ricordi, in merito, che sauditi e qatarini hanno recentemente partecipato al summit della Shanghai cooperation organisation (SCO) tenutasi a Samarcanda, in qualità di “uditori”. I Paesi membri dell’organizzazione euroasiatica, guidata dalla Cina, rappresentano il 40 per cento della popolazione mondiale e il 30 per cento del Pil del pianeta.

Ma la partita interna che si sta giocando in Arabia Saudita è altrettanto interessante. Da poco più di un mese, MbS (così la stampa internazionale è solita chiamare Mohammed Bin Salman) è stato nominato primo ministro. Fino a quel momento, la carica era detenuta dal padre, il re Salman, ormai 86enne. Il sovrano sta preparando la successione in tutti i dettagli: anche il fratello di MbS, Khalid Bin Salman, è stato ‘promosso’ da vice ministro a ministro della Difesa. Un altro fratello, Abdullaziz, conserva il ruolo di ministro dell’Energia. Insomma, il potere economico e politico si cristallizza nelle mani di pochi esponenti reali. C’è chi ritiene che MbS in particolare sia stato nominato prima del tempo primo ministro perché la giustizia internazionale – e soprattutto quella statunitense – non possa niente contro di lui nel caso dell’omicidio di Jamal Kashoggi, di cui è ritenuto mandante.

Di certo, questo è un segnale forte e chiaro per i dissidenti del regime saudita: non solo Riyadh persegue ovunque, senza pietà, i propri nemici, ma al momento nessun paladino occidentale dei diritti umani può (o vuole) qualcosa contro il Regno. Siccome, però, alla comunità internazionale è necessario fornire una parvenza di moderazione, il neo primo ministro saudita sta cercando di infilare l’abito da intermediario diplomatico di pace. Ed ecco che la trattativa per la liberazione di prigionieri di guerra nel conflitto russo-ucraino si è rivelata cruciale per l’immagine di Riyadh: a fine settembre, la diplomazia saudita ha guidato un negoziato vincente, sbocciato nel rilascio da parte di Mosca di dieci combattenti, fra cui cittadini marocchini, americani e britannici.

A questo punto, delineato sommariamente lo scacchiere su cui si muove agilmente la nuova generazione dei reali sauditi, può Washington girare le spalle a Riyadh, lasciandola procedere in direzione opposta, sempre più a Oriente? A che punto sono le relazioni fra statunitensi e sauditi si potrà comprendere meglio al prossimo Summit annuale dedicato a commercio e finanza (il nono Saudi Trade Finance Summit), organizzato dall’Arabia Saudita per spingere l’acceleratore sui propri settori economici non petroliferi. Quest’anno, l’appuntamento è in calendario per il 14 e 15 novembre. La presenza – oppure l’assenza – dei maggiori stakeholders statunitensi farà da cartina di tornasole dell’intesa fra Casa Bianca e casato Saud.

 

Foto: Mohammed Bin Salman al G20 a Osaka, 28 giugno 2019 (foto di Brendan Smialowski / AFP).

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