Mali, prove di riconciliazione nazionale

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Gli ingredienti alla base della miscela esplosiva che oltre un anno fa ha innescato la crisi in Mali si mescolano e si combinano tra loro da decenni. Retaggi coloniali, una politica segnata da instabilità, colpi di stato e corruzione, conflitti interetnici, rivendicazioni territoriali, tensioni religiose, un’iniqua distribuzione della ricchezza, interessi internazionali, un ricco patrimonio culturale ed enormi giacimenti nel sottosuolo sono gli elementi che hanno segnato la storia del Mali sin dalla sua indipendenza dalla Francia nel 1960.

La guerra civile scoppiata a marzo del 2012 tra governo, ribelli tuareg e gruppi islamisti non è che un capitolo di una lunga storia di disequilibri e contrasti. E le elezioni fissate, dopo complesse trattative, per il 28 luglio molto probabilmente non ne segneranno la conclusione. Accolto con un sospiro di sollievo dalla comunità internazionale, l’accordo di pace tra il governo di Bamako e i ribelli tuareg, che spianerà la strada alle elezioni, firmato il 18 giugno a Ouagadougou, capitale del vicino Burkina Faso, non è che un primo, stentato passo verso la soluzione di un problema che affonda le sue radici in decenni di risentimento e di emarginazione della popolazione tuareg. E se non sarà seguito da altre iniziative di dialogo e riconciliazione rischia di far ulteriormente scivolare il paese nel baratro, compromettendo la stabilità dell’intera regione.

Azawad è il nome dato dai ribelli tuareg ai territori sahariani del nord del paese, per la cui indipendenza combattono da anni, rivendicandoli come la culla della propria identità. Ad aprile del 2012 il Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad (Mnla) ne ha dichiarato unilateralmente l’indipendenza, approfittando del vuoto di potere seguito al colpo di Stato nella capitale. In un contesto aggravato dall’intervento dei militanti islamici legati ad al Qaeda e dall’offensiva lanciata a gennaio dalla Francia per fermare la loro avanzata verso sud, circa 240mila maliani sono stati costretti ad abbandonare il nord del paese e, secondo le stime delle Nazioni Unite, oltre 4,3 milioni di persone hanno bisogno di aiuto umanitario.

L’accordo di Ouagadougou, in base al quale le truppe governative potranno fare ritorno nella città settentrionale di Kidal, roccaforte dei ribelli, in vista delle elezioni, congela dunque una situazione tutt’altro che risolta. Sebbene favorevoli a un processo di pacificazione, infatti, i tuareg non hanno ancora deposto le armi e il loro controllo sulle città e i villaggi del nord resta saldo, così come la loro determinazione a ottenere l’autonomia. Il ritiro dei militanti islamici nelle zone desertiche e montagnose del nord non è assoluto né irreversibile, come dimostrano gli attacchi periodici che scavalcano i confini del paese. Ed è assai improbabile che un passaggio di consegne ai vertici del governo di Bamako porti finalmente all’introduzione di un’agenda politica che ponga al centro la risoluzione dei problemi del paese, in un panorama dominato dagli stessi attori e dove la Commissione per il dialogo e la riconciliazione stenta a conquistare slancio e legittimità.

Nonostante l’impegno promesso dal governo ad interim guidato dal presidente Dioncounda Traoré per preparare il paese alle elezioni del 28 luglio, diversi analisti restano scettici sulla possibilità di ristabilire l’ordine costituzionale in così breve tempo. Il primo problema è quello della sicurezza. Il ritiro di circa duemila soldati francesi prima del voto aumenterà il rischio di violenze elettorali, in un territorio vasto e vulnerabile in cui le truppe della missione Onu, il cui arrivo è previsto per il primo luglio, difficilmente riusciranno a stabilirsi e organizzarsi per tempo. In secondo luogo ci sono diverse sfide logistiche da superare. In un paese in cui la qualità di strade e infrastrutture è già pessima, la stagione delle piogge renderà ancora più difficili gli spostamenti e la coincidenza con il Ramadan frenerà ulteriormente l’affluenza ai seggi, che in Mali non ha mai superato il 40 percento. Un altro interrogativo riguarda la partecipazione delle centinaia di migliaia di sfollati che si sono rifugiati in altre zone del paese o negli Stati confinanti. Eppure per garantire la legittimità del governo che uscirà dalle urne è fondamentale che nessun gruppo sia tagliato fuori dal processo elettorale.

Il destino del Mali avrà ripercussioni su tutti i paesi della regione, già destabilizzati dal collasso del regime di Muammar Gheddafi in Libia a ottobre del 2011. Organismi regionali come la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) finora si sono mostrati incapaci di fermare l’avanzata dei militanti islamici nel Sahel e in Nord Africa. Le ripercussioni della crisi maliana sono percepibili in Algeria, nido di al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi), e in Nigeria, Niger, Ciad e Mauritania, dove sono riparati i membri dei gruppi estremisti in fuga dall’offensiva francese. L’indipendenza dell’Azawad, inoltre, ha suscitato l’interesse delle minoranze berbere residenti in Mauritania, Libia ed Egitto, che lottano per preservare la loro cultura e la loro lingua, minacciate dalle politiche di assimilazione favorite dai rispettivi governi.

Il delicato equilibrio di poteri su cui poggia la stabilità della regione dipende dagli intrecci che legano tra loro la sorte dei diversi paesi, come dimostra il fatto che la ribellione dello scorso gennaio in Mali sia seguita al rientro di circa 1.500 tuareg che erano stati reclutati nelle truppe di Gheddafi. La soluzione della crisi maliana costituisce quindi un primo passo per istituire un nuovo quadro di cooperazione regionale, in grado di rispondere alle sfide legate alla sicurezza e alle spinte autonomiste interne. Per questo occorre che la tornata elettorale sia seguita da un vero processo di riconciliazione nazionale, che stabilisca un dialogo tra il governo centrale e le varie comunità e preveda un certo grado di autonomia per alcune zone. Prima ancora però è necessario che le nuove autorità si impegnino a verificare le violazioni dei diritti umani avvenute nei mesi di guerra civile, a punire i responsabili e a iniziare così a risolvere alcuni dei problemi che per troppo tempo hanno segnato la storia del Mali.

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Nella foto: Moschea a Djenne, Mali

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