Da Reset-Dialogues on Civilization
Diverse ondate di proteste agitano l’India ormai da mesi, e un noto quotidiano nazionale in lingua inglese si è spinto a parlare di “guerre di casta”. Sono movimenti che hanno coinvolto centinaia di migliaia, anzi milioni di persone; hanno portato alla ribalta gruppi sociali per varie ragioni marginalizzati. E dicono qualcosa sulle trasformazioni sociali nell’India “emergente” e globalizzata.
Ultima in ordine di tempo è la protesta che è arrivata a mobilitare milioni di persone nel Maharashtra, lo stato dell’India centrale che ha per capitale Mumbai. È cominciata in sordina in agosto con un corteo di alcune centinaia di migliaia di persone a Aurangabad, cittadina che nel contesto indiano possiamo definire provincia profonda (anche se ha 800 mila abitanti). I manifestanti denunciavano un caso di stupro avvenuto poco tempo prima, e la notizia non è andata oltre la stampa locale. Poi però la protesta è cresciuta, i cortei si sono ripetuti in molte altre città. L’hanno chiamata Maratha Kranti Muk Morcha, “protesta silenziosa della rivoluzione maratha”. La coreografia è sempre la stessa: i manifestanti sfilano in assoluto silenzio, di solito con cappelli o bandiere arancioni, spesso con magliette nere. Donne e ragazze guidano i cortei; durante la marcia ragazze vestite di nero consegnano a dirigenti politici e amministratori locali una lista di richieste, che poi una di loro legge ad alta voce. Infine tutti cantano l’inno nazionale e il corteo si scioglie.
I protagonisti di questo movimento sono maratha, gruppo sociale composto da caste di agricoltori e proprietari terrieri (nella tradizionale gerarchia sociale hindu si tratta di caste medie) che si rifanno a una comune identità etnico-linguistica (il nome maratha indicava in origine il grande regno emerso nel diciassettesimo secolo nel Deccan ed esteso a buona parte dell’India settentrionale, unificato da un condottiero militare, Shivaji, oggi rivendicato come eroe nazionale e simbolo identitario dalla popolazione di lingua marathi). Una definizione fluida dunque: connota un gruppo etnico-linguistico, ma nel discorso comune oggi indica più spesso un gruppo di caste all’interno di quel gruppo. Secondo notizie riprese dalla stampa, i maratha oggi sono circa 37 milioni di persone, oltre un terzo della popolazione del Maharashtra (che però conta 140 milioni di abitanti: anche i numeri sono fluidi).
Quello che conta è che i maratha sono infuriati, e continuano a riempire le strade. La rivolta è auto-organizzata, o perlomeno non ha una leadership riconoscibile. Si è estesa attraverso innumerevoli pagine Facebook e infiniti gruppi WhatsApp. In mancanza di tv e giornali, sui social media sono passate foto scattate dai telefonini, appelli, slogan, e un “codice di condotta” (silenzio, niente slogan, proteggere le donne, “osservare le regole per mostrare la cultura marathi”, raccogliere le cartacce dopo il corteo). Ogni volta i partecipanti sono centinaia di migliaia. Solo in ottobre inoltrato, dopo decine di manifestazioni che sommate hanno coinvolto tra dieci e dodici milioni di persone (stima conservativa della polizia), quelle folle silenziose hanno guadagnato qualche visibilità sui media nazionali.
Sull’origine della protesta circolano diverse versioni. Per lo più rimandano a un caso di stupro avvenuto in luglio in un villaggio, Kopadi, circa 300 chilometri a sud-est della capitale Mumbai, dove una ragazza di 15 anni è stata violentata e brutalmente uccisa da tre ubriachi (in seguito arrestati). Un fatto orribile, che basterebbe in sé a suscitare indignazione. In particolare però la ragazza era maratha e i tre presunti responsabili sono dalit, il termine moderno che indica i fuoricasta, cioè lo scalino più basso e disprezzato della gerarchia sociale hindù, quelli una volta definiti “intoccabili”. In altre parole: uomini dalit, quindi intrinsecamente “impuri”, hanno violato una ragazza di una casta che non dovrebbero nemmeno guardare. I parenti e tutta la comunità maratha accusano la polizia di non aver perseguito i colpevoli con la dovuta tempestività per non mettersi contro i dalit. I manifestanti ripetono che la loro sicurezza e integrità viene sacrificata. Che se una ragazza dalit fosse stata violentata da uomini di casta alta, politici e giornalisti sarebbero accorsi a simpatizzare, per mostrarsi paladini degli “ultimi”. Dicono che la stampa dipinge sempre i dalit come vittime, mentre per i poveri maratha non c’è giustizia. Accuse paradossali, come vedremo, e però molto popolari.
Di fronte all’inerzia della polizia, alcuni attivisti maratha avrebbero pensato all’originale protesta silenziosa. Altre versioni dicono che i preparativi per una campagna di protesta erano cominciati mesi prima, e l’orribile caso di violenza avrebbe fornito l’occasione. (In ogni caso, la sorte di quella ragazza ha suscitato non una protesta contro la misoginia e la violenza di genere tanto radicate anche nella società indiana, ma una rivolta identitaria: non toccate le “nostre” donne). Quello stupro è diventato il simbolo dell’offesa al “popolo maratha”.
La frustrazione dei “figli della terra”
Le folle silenziose chiedono che gli stupratori di Kopadi siano condannati a morte, e che sia emendata o perfino abolita la legge che punisce le “atrocità” verso i fuoricasta e i nativi, cioè i gruppi più svantaggiati della società (Scheduled Castes and scheduled Tribes Prevention of Atrocities Act, del 1989): serve solo a proteggere i dalit, dicono i manifestanti.
Ai primi posti nella lista di rivendicazioni letta in ogni manifestazione figurano però altre questioni. Primo, la richiesta che lo stato riservi ai maratha posti garantiti nell’istruzione superiore e negli impieghi pubblici. Poi, ostelli e facilitazioni per gli studenti maratha che sostengono gli esami d’ingresso alle università. Che siano garantiti prezzi equi per i prodotti agricoli, e che sia dato un posto di lavoro statale ad almeno un familiare degli agricoltori maratha che si suicidano perché rovinati. I maratha vogliono inoltre che sia eretta una nuova statua a Shivaji nella baia di Mumbai.
Intervistati, i manifestanti parlano invariabilmente di spese scolastiche insostenibili, di giovani diplomati che non trovano un lavoro adeguato dopo che le famiglie si sono rovinate per farli studiare. Un giovane uomo lamenta che nessuno vorrà sposarlo, perché non trova un lavoro e la terra di suo padre non basta più per vivere. Un agricoltore dice che è rovinato dal crollo dei prezzi delle derrate agricole, ma lo stato non fa nulla. Una giovane donna è infuriata perché ha superato l’esame di ammissione a un Politecnico, ma per l’iscrizione deve pagare centomila rupie al semestre [1.350 euro] e i suoi hanno dovuto vendere la terra, mentre gli studenti delle “classi svantaggiate” ne pagano la metà e i dalit solo 7.000 rupie.
Sono questi i problemi che da mesi portano centinaia di migliaia di persone nelle strade di tutto lo stato: dalle città del Marathwada, una delle regioni agricole più devastate dalla siccità che colpisce l’India ormai da tre anni consecutivi, fino alla sofisticata città di Pune, la “capitale della cultura e del sapere” in Maharashtra.
Inutile dire che sul movimento maratha circolano le ipotesi più maliziose. Ci sarebbe dietro questo o quel partito. Sarebbe una creazione di Sharad Pawar, uno dei politici più potenti del Maharashtra, già esponente del Congress (ai tempi di Indira) e poi fondatore di una sorta di scissione regionale (lui stesso è un maratha). Certo è che tutti i partiti sulla scena statale sembrano spiazzati, e tutti stanno disperatamente cercando di ingraziarsi il movimento.
Ma non sono le immediate implicazioni politiche di questo movimento che ci interessano. Il punto è che in quelle manifestazioni silenziose è confluito il risentimento di ampi gruppi sociali emarginati; la profonda delusione di un gruppo sociale che si sente escluso dai benefici della crescita economica degli ultimi vent’anni, dall’India emergente e globalizzata.
Le caste rurali sono in rivolta
La protesta dei maratha richiama per molti aspetti la rivolta dei patel, un anno fa nello stato del Gujarat, stato dell’India occidentale. O le proteste dei Jat in Haryana, stato a nord di New Delhi, nei primi mesi del 2016 (là i rivoltosi hanno fatto notizia bloccando per alcuni giorni il principale acquedotto che rifornisce la capitale indiana). Anche patel e jat, come i maratha, sono caste di origine rurale; vivono per lo più sulla terra o hanno appena cominciato la transizione urbana; sono i gruppi sociali più ampi nei rispettivi stati. E si sentono lasciati indietro, discriminati.
Come i patel, anche i maratha se la prendono con la politica delle azioni positive, che è uno dei pilastri dell’architettura politica e sociale in India almeno dall’indipendenza: inscritta nella Costituzione, fu pensata per correggere la discriminazione e l’apartheid sociale legata all’appartenenza a determinati gruppi.
Le prime “azioni positive” sono state rivolte alle Scheduled Castes e Scheduled Tribes, cioè i dalit e i “tribali” (le popolazioni native del subcontinente indiano, o Adivasi). Secondo l’ultimo censimento (2011), i dalit sono una popolazione di oltre 200 milioni, e gli adivasi circa 90 milioni: il 17 e il 9 per cento della popolazione rispettivamente, un quarto della popolazione indiana. Negli anni ’90 il sistema di quote negli impieghi pubblici e nell’accesso all’istruzione superiore è stato esteso ad altri gruppi svantaggiati, le “Other Backward Classes” (Obc: caste basse particolarmente marginali e altre minoranze). Oggi quasi metà dei posti nella pubblica amministrazione e delle borse di studio nei college sono assegnati ai titolari di una quota.
Questo però fa crescere il risentimento di gruppi che non rientrano nel sistema delle quote, eppure competono a fatica. Nel tempo, nuovi gruppi hanno rivendicato di essere inclusi tra le “backward classes”. L’argomento è sempre lo stesso: noi patel, jat, maratha fatichiamo a mandare i figli all’università o trovare un lavoro, mentre i dalit e le Obc si prendono tutti i benefici delle azioni positive. I patel hanno ottenuto di essere inclusi nel sistema di quote. I maratha ora lo rivendicano.
Così anche l’idea di azioni positive ha cambiato segno: da strumento per eliminare una discriminazione sociale e promuovere una cittadinanza inclusiva, è divenuto una forma di “welfare” che lo stato accorda a questo o quel gruppo, soprattutto se abbastanza forte da mobilitare folle e voti. Proprio come i maratha.
Il conflitto di classe diventa guerra di caste
“Non c’è spazio per i giovani maratha”, ripetono in decine di cortei silenziosi. A ben guardare, i maratha sono un gruppo sociale composito, o la somma di gruppi (ma dovremmo dire classi) molto diversi. C’è una élite maratha ben inserita in tutti i partiti, dal Congress (centrosinistra) all’estrema destra nazionalista, e ben rappresentata nelle posizioni di potere: ministri, presidenti di commissioni e di imprese statali, direttori di banche cooperative e di varie istituzioni statali e locali. Da quando esiste come stato (1960), il Maharashtra ha avuto quasi sempre capi del governo (chief minister) maratha.
Appena sotto questa élite politica c’è una classe di ricchi agricoltori, per lo più proprietari terrieri che hanno investito nell’agroindustria, abbastanza benestanti da avere un’autorità riconosciuta, finanziare candidati e avere una certa influenza politica.
Poi c’è una classe di piccoli agricoltori tutt’altro che benestanti, e molto più esposti alle incertezze dell’economia rurale: il cattivo monsone, la siccità, o il crollo del prezzo delle derrate agricole. Infine c’è una classe ancora più bassa, contadini senza terra, braccianti.
Questi due ultimi gruppi quelli colpiti dalla crisi che pesa sull’India rurale. La siccità degli ultimi anni è stata per molti il colpo di grazia, ma la crisi agraria viene da più lontano. La crescita dell’economia agricola è rallentata in modo drastico negli ultimi 15 anni (è stimata tra il 3 e 4 per cento, contro il 7 o 8 per cento della crescita generale). D’altra parte, l’agricoltura conta per appena il 17 per cento del Pil, anche se continua a occupare due terzi della forza lavoro. In anni di liberalizzazione dell’economia, anche l’agricoltura si è trasformata. In Maharashtra, uno degli stati più prosperi, intere regioni rurali hanno investito nella coltivazione intensiva del cotone: ma sono rimaste in balia di un mercato che non controllano, delle oscillazioni dei prezzi, del rincaro di fertilizzanti e carburante. Per la gran massa di piccoli agricoltori, senza reti di sicurezza né accesso al credito, è come stare sull’orlo del baratro. Sono loro che si indebitano a ogni stagione della semina, e se il raccolto è cattivo finiscono in mano agli usurai. Molti si suicidano per la disperazione (nel 2016 si è parlato di circa 3.000 suicidi tra gli agricoltori del Maharashtra).
Gli attivisti maratha parlano di effetti perversi del trio “LPG”, liberalizzazioni, privatizzazioni, globalizzazione. Dicono che i “figli della terra” non hanno vie d’uscita dalla povertà: senza accesso all’istruzione non entreranno mai nella “nuova” economia urbana – ad esempio nelle tecnologie dell’informazione, i servizi alle imprese. Un giornalista e commentatore in un quotidiano in lingua marathi osserva che “ironicamente, molti dei college e università private in Maharashtra sono possedute e gestite dalla élite maratha”: ma “un giovane maratha, invece di puntare il dito contro i privilegiati della sua casta, ha cominciato a vedere il nemico nei dalit, i ‘beneficiari’ della politica delle quote”. Il conflitto di classe è trasformato in conflitto di casta.
La lunga marcia dei paria
Questa però è solo una faccia delle “guerra di casta”. Poi c’è l’opposto. Se i maratha hanno trovato un nemico nei dalit, anche questi sono in agitazione.
Il punto è che un po’ ovunque in India i dalit hanno intrapreso una transizione sociale. Molti puntano ad abbandonare i mestieri servili tradizionali dei loro padri, studiano. È un percorso che comincia con la scuola, e di solito con il passaggio dal villaggio alla città. Negli ultimi vent’anni molti sono entrati nelle università, facendo tesoro delle azioni positive. Sono approdati nell’amministrazione statale e sono arrivati fino ai vertici. Sono entrati nelle professioni liberali. O almeno sono diventati impiegati, o sono entrati nella working class urbana. Magari sono stati eletti negli enti locali.
È un’emancipazione difficile, contrastata. Uno studente dalit si sentirà accusare di aver “rubato” il posto grazie alle quote. Ma una nuova generazione di studenti, assertivi e curiosi, non si limita a tenere la testa bassa: sempre più spesso rivendica rispetto. Lo dimostra quando avvenuto nel febbraio 2016 all’università di Hyderabad, nell’India centrale, dove uno studente di PhD e leader di un’associazione studentesca è stato oggetto di punizioni draconiane, umilianti, finché è arrivato a togliersi la vita. Il suo gesto ha suscitato la protesta di un movimento di studenti in tutto il paese.
E poi, non basta qualche dalit nelle alte sfere, qualche magistrato, alto funzionario, professore – come gruppo restano sotto-rappresentati. Anche se un numero crescente di persone riesce nella transizione alla classe media urbana, molti restano ingabbiati nei mestieri tradizionali di casta, e continuano a subire discriminazioni e violenze.
Salvo ribellarsi: come è successo la scorsa estate in Gujarat dopo l’aggressione subita da quattro lavoratori dalit, aggredito da un gruppo di facinorosi dell’estrema destra hindu. Gli aggressori, autoproclamati cow vigilantes, “vigilantes delle mucche”, li accusavano di aver ucciso la mucca, grave offesa alla religione hindu. Loro in realtà non l’avevano uccisa, erano stati chiamati a rimuovere la carcassa: compito sgradevole e “impuro” che per tradizione spetta a un certo gruppo di “intoccabili”, la sottocasta dei chamar, addetti a rimuovere gli animali morti. Eppure sono stati picchiati a sangue, mentre gli aggressori riprendevano la scena. Sui social media è diventato virale un video che mostra i quattro uomini legati e picchiati sulla piazza del mercato mentre la folla sta a guadare.
Le immagini hanno fatto insorgere i dalit dell’intero Gujarat. Per un mese si sono susseguite manifestazioni di piazza, strade bloccate, autobus incendiati, scontri con la polizia, lacrimogeni. Durante le proteste qualcuno ha depositato una carcassa di mucca davanti agli uffici municipali. Le proteste sono culminate in una grande manifestazione nella capitale dello stato, Ahmedabad. Durante il comizio, il giovane avvocato divenuto leader del neonato movimento ha esortato i dalit a rifiutare l’umiliazione: «Vi dico, smettete di raccogliere le carcasse, smettete di pulire le fognature. Non faremo più questi lavori, per poi rischiare aggressioni. Chiederemo che il governo di assegni terre da coltivare, così anche noi potremo condurre una vita rispettabile» (ne riferiva questo articolo di Scroll.in).
Le “atrocità” verso i dalit non sono una rarità. Il Ministero per la giustizia sociale dell’Unione indiana pubblica un rapporto annuale da cui risulta che nel 2013 sono stati registrati 609 casi di violazioni dei diritti civili di dalit e tribali, che includono saccheggio, incendio, intimidazione, distruzione dei raccolti, distruzione di abitazioni, omicidio, stupro. Tre quarti di questi casi sono avvenuti in solo due stati, Maharashtra e Gujarat. Secondo lo stesso rapporto, sono stati registrati inoltre mille casi di stupro di donne dalit, e 800 di donne adivasi. Di rado i responsabili sono perseguiti, e quell’anno solo tre persone sono state condannate.
Per i dalit dunque la giustizia resta elusiva – contrariamente a quanto pensano i partecipanti alle marce silenziose dei maratha.
In Maharastra oggi i quasi 15 milioni di dalit si sentono “sulla linea del fuoco”, scrive l’inviato di un grande quotidiano nazionale. “Da venticinque anni ormai hanno usato le opportunità di istruzione e lavoro per farsi spazio in un panorama urbano in rapida espansione”, osserva un attivista del movimento per i diritti civili dei dalit. Per questo i maratha si sentono minacciati, aggiunge: vedono coloro che consideravano paria passargli davanti e farsi spazio nella società urbana; si sentono defraudati del loro status di casta superiore.
Oggi “i dalit non hanno più paura”, dice l’attivista. In effetti il 10 ottobre, dopo settimane di marce silenziose dei maratha, anche i dalit del Maharashtra hanno cominciato a riempire le strade, insieme a rappresentanti delle “altre classi svantaggiate”. Anche loro tengono manifestazioni ormai ogni settimana in molte città dello stato. Se la “rivoluzione maratha” è una prova di forza, anche i dalit hanno dimostrato di poter mobilitare grandi folle. Il conflitto sociale rischia di scaldarsi.
Vai a www.resetdoc.org
Grande Marina Forti. L’articolo fa vedere quanto in una società di per sé fortemente disuguale si alimentano i nazionalismi, tribalismi. Basta prendere l’esempio della pubblica istruzione: Lo studio gratuito aiuterebbe sia ai dalit sia ai maratha. Egoismi di gruppo (etnici, religiosi etc.) non avrebbero argomento.