La carica dei 101 net-intellettuali da conoscere

L’estate è “tempo di dieta” anche per Wired magazine che, lontano dall’intento di suggerire i metodi per perdere peso, propone piuttosto la lista dei “101 giornalisti, scrittori e pensatori di Internet” per fare un po’ di ordine sui blog, i siti e i personaggi da seguire per conoscere davvero il Web. Una carica dei 101 “che capiscono ciò che sta accadendo” – divisa per settori come cultura, politica, design, economia o scienze – che promette di una dieta informativa con zero calorie in eccesso, ma forse un po’ maschilista. A pensarla così è l’Huffington Post che colma la carenza di quote rosa nella lista di Wired, suggerendo una selezione di 28 fini cervelli del nostro tempo, tutta al femminile. Molto più essenziale – e bilanciata dal punto di vista del genere – è invece la dieta proposta da The New Republic che riduce all’osso la gamma di pensatori della rete, citando appena tre, fondamentali, nomi – Robert Atkinson, Fred Block e Mariana Mazzucato.

Giornalismo-Terrorismo

Questa estate le pagine di esteri si sono state occupate massicciamente dall’NSA gate e delle vicende dei personaggi che hanno determinato o gravitato attorno allo scandalo. A questi si è recentemente aggiunto David Miranda, compagno del giornalista del Guardian Glenn Greenwald – autore dello scoop – al quale sono stati sequestrati alcuni dispositivi elettronici nel corso di un fermo di nove ore all’aeroporto di Londra, giustificato dalla legge anti-terrorismo.

Contrari all’ipotizzare un fermo assolutamente casuale, diversi giornalisti hanno denunciato l’accaduto mostrando la propria preoccupazione di fronte a quello che è percepito da molti come un affronto alla libertà di informare.

Tra i commenti più rimbalzati sul web, c’è senza dubbio quello del giornalista inglese Bill Thompson che sul suo blog ha puntato il dito contro lo “stato paranoico” che ha tentato di arrestare Miranda, facendolo passare come terrorista solo perché sospettato di avere con sé le copie digitali di alcuni documenti segreti. “È l’ultimo mattone nel muro dello stato di polizia”, sentenzia già dal titolo del suo post che sottolinea veementemente: “Sfortunatamente, mentre noi giornalisti siamo stati onesti in linea di massima, adesso è chiaro che il governo non lo è stato altrettanto”.

Non molto più leggero è stato il commento di Nick Cohen che, sul suo blog ospitato da The Spectator, ha commentato il fermo di Miranda come un atto “che rivela quanto la Gran Bretagna sia cambiata in peggio”, prima di ricordare che il Terrorism Act del 2000 – quello usato contro Miranda – riconosce il terrorismo come “seria violenza contro una persona” o “serio danno contro la proprietà” e come terroristi coloro che “mettono in pericolo la vita di una persona” o “mettono a serio rischio la salute e la sicurezza pubblica”. “Vorrei domandare al Met (Metropolitan Police Service, ndr): di quale di queste offese Miranda era sospettato?”, ha chiesto Cohen.

E a parlare di stato di polizia è stato anche Andrew Sullivan che, su The Dish, ha paragonato la Gran Bretagna alla Russia, prima di rivolgersi apertamente al premier David Cameron: “Grazie per aver fatto chiarezza sulla questione della sorveglianza. Adesso (lei) ha dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio che queste misure anti-terrorismo possono trasformarsi in abusi belli e buoni. A meno che non emergano altri fatti, non c’è davvero alcuna differenza tra lei e Vladimir Putin. Lei ha usato i poteri della polizia concessi per la lotta al terrorismo e li ha schierati per bersagliare e intimidire i giornalisti ritenuti nemici dello stato”. E a citare Putin è stato anche Simon Jenkins che, sul sito del quotidiano di Greenwald The Guardian, ha parlato di una “isteria della guerra al terrorismo” che “corrompe ogni area del governo democratico”.

Ecco perché abbiamo bisogno di entità non statali come Wikileaks o Anonymous, ha concluso Matthew Ingram su GigaOm: “Dal momento che il governo americano ed altri non solo fanno pressione sulle gole profonde, ma continuano a girare la vite attorno ai giornalisti che li aiutano, diventa sempre più importante avere una sorta di entità come WikiLeaks che possa agire come canale centrale per queste fughe di notizie, un posto che sia teoricamente fuori dal controllo americano (ammesso che sia possibile una cosa del genere)”.

 

Il mondo è in debito di risorse

“Al diavolo il deficit economico, c’è quello ambientale da sanare!”. Suona più o meno così, l’appello fatto dal Guardian, nel giorno dell’ Earth Overshoot Day. Lo scorso 20 agosto, il mondo ha esaurito, con più di quattro mesi di anticipo, le risorse naturali disponibili per il 2013. “Oggi il mondo va in debito”, scrive Andrew Simms riferendosi chiaramente al debito ambientale e sottolineando la contraddittorietà della politica (inglese, nel pezzo di Simms), alle prese – da una parte – con l’austerity e la necessità per lo Stato di spendere meno di quello che ha, e – dall’altra parte – il bisogno, indotto da un ordine globale, di vivere consumando al di sopra delle proprie possibilità.

E che il drastico diminuire delle risorse naturali è tutt’altro che una fissa ecologista è confermato dai grafici pubblicati da The Atlantic, in un articolo intitolato “Come la carenza di risorse ha acceso la crisi egiziana”. Numeri e tabelle alla mano, il direttore esecutivo dell’inglese Institute for Policy research and Development Nafeez Mosaddeq Ahmed, spiega come “la violenza ampiamente definita come un conflitto tra islamismo e secolarismo” abbia in realtà “radici molto più profonde”. Come successo per lo Yemen e per la Siria, spiega Nafeez Mosaddeq Ahmed, adesso anche l’Egitto si ritrova ad affrontare un’instabilità dettata dall’ “incapacità di contenere i devastanti impatti sociali dell’energia interconnessa e delle crisi di acqua e cibo degli ultimi decenni”. Per questo, Nafeez Mosaddeq Ahmed parla di un vero e proprio meltdown, un collasso inevitabile che rappresenta il culmine di trend nei consumi energetici, che – se non cambieranno la propria tendenza – rischiano di allargare la crisi egiziana agli altri Paesi della regione. E non solo.

 

Il decennio del disordine

“Riformare lo stato (sociale) così come riformare il mercato non è un lusso, è una necessità”. È questo il pensiero di David Miliband che, in partenza per gli Usa (dove guiderà l’ong International Rescue Commitee per la quale abbandonò la politica lo scorso marzo, ndr), saluta la Gran Bretagna – e i Labour – lasciando in eredità un testo pubblicato su The New Statesman e intitolato “Il decennio del disordine”. Il pezzo – un po’ un’autocritica e un po’ un manuale di sopravvivenza (o meglio, rinascita) per il centrosinistra in generale – prende atto dell’inadeguatezza del welfare state, diventato quasi anacronistico in seguito a quattro cambiamenti globali, indicati dall’ex enfant prodige dei labouristi inglesi. Lo spostamento del potere economico da Ovest a Est (e, in certi casi da Nord a Sud), la diminuzione delle risorse disponibili, la confusione tra pubblico e privato e l’interdipendenza economica – ma non solo – tra locale e globale hanno creato prospettive e dettato obiettivi diversi tra la politica e l’economia, dando vita al disordine di cui parla il titolo. A intermittenza, i palazzi decidono di parlare una lingua differente da quella del mercato: non capendo quando si tratta di adottare le opzioni politicamente di poco successo suggerite dall’economia, ma facendosi bene intendere quando la necessità di un sostegno finanziario si fa sentire. Per questo, sostiene Miliband, la politica – specie tra i giovani – è sempre più un sinonimo di marcio e di corrotto. Bisogna quindi riflettere su come rispondere alle richieste di maggiore protezione che arrivano dalla gente – che non sa come difendersi da rischi che vanno oltre il proprio controllo e che sono di natura sia globale che privata; su come e cosa rispondere alle aspettative e alle richieste della popolazione – sia dal punto di vista economico che sociale, che da quello del welfare; e su come recuperare il senso di appartenenza alla politica. Con queste indicazioni David Miliband saluta i Labour – un lascito pesante come un mattone, il primo fondamentale per la rinascita ormai non più opzionale del centrosinistra.

 

I sindaci filosofi e i proletari della cattedra

Ma l’estate è anche tempo di scelte – almeno per chi, finite le scuole superiori, si trova a fare i conti con il proprio futuro. The New Republic difende a spada tratta le materie umanistiche presentando le argomentazioni economiche per la loro sopravvivenza, dopo aver riconosciuto la crisi in questo settore accademico – ed essersi chiesto se la causa vada rintracciata nell’emancipazione femminile. E su questo tema, il Washington Post ha recentemente ospitato un botta e risposta tra Christian Madsbjerg e Mikkel B. Rasmussen, e Edward Conard. “Abbiamo bisogno di più sindaci laureati in materie umanistiche”, hanno sostenuto i primi. “No, devono essere economisti”, li ha contraddetti il secondo. Molto più pragmatico – e drammatico – è invece il punto di vista di Dissent che pure spende un articolo sul tema, ripercorrendo l’emergere di un “proletariato accademico” e di una classe di studenti indebitati, destinati a un domani tutt’altro che roseo.

 

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