Che fine ha fatto il riscaldamento globale

L’inverno rigido dell’America riapre il dibattito sul cambiamento climatico. Le temperature ben al di sotto dello zero – e, in certi casi, addirittura pari a quelle registrate su Marte – hanno infatti risvegliato il piglio dei conservatori più scettici del riscaldamento globale e tra questi il politico e magnate Donald Trump che ha scritto su Twitter: “Questa cavolata costosissima del riscaldamento globale deve finire.” “Caro Donald Trump, l’inverno non smentisce il surriscaldamento globale”, gli risponde Mother Jones con un articolo che ricorda in cosa consiste in realtà il fenomeno. Una risposta simile, benché più precisa e corredata da dati e grafici, è pubblicata dal Washington Post. “Sembra paradossale che il surriscaldamento globale possa causare picchi di freddo come questo, ma alcuni ricercatori dimostrano che è così”, commenta il meteorologo della CNN, intervistato per spiegare nei dettagli cosa sia il Polar Vortex. Ma il modo più semplice per sapere cosa ne pensa la comunità scientifica è probabilmente dare un’occhiata al grafico prodotto da James Lawrence Powell che, analizzando un anno di dichiarazioni e pubblicazioni degli scienziati sul tema, ha trovato che solo uno su 9.136 autori accademici ha messo in dubbio il surriscaldamento globale.

Poveri giovani americani
La scorsa estate sui giornali americani sono rimbalzate le denunce dei gemelli Inman, bisnipoti di quella Doris Duke che giornalisticamente fu “la ragazza più ricca del mondo“, e sulle cui tasche è destinata a piombare un’eredità da un miliardo di dollari. A raccogliere il racconto dei gemelli d’oro d’America è stata Sabrina Rubin Erdely che ha riportato l’incubo fatato dei due tredicenni, cresciuti a lussi e abusi, su un lungo articolo pubblicato su Rolling Stones. Un’altra storia rivelatrice di una gioventù americana preoccupante è stata pubblicata dal magazine del New York Times che ha raccontato “l’infanzia rubata” della diciassettenne Nicole, costretta dal padre, poi arrestato per abuso su minore, a prestarsi per scatti e video che sarebbero stati scaricati dai pc di mezzo mondo, finendo per rientrare nel materiale pedopornografico più diffuso della rete. E verso la fine dell’anno, il quotidiano di Eighth Avenue è tornato a parlare dell’infanzia difficile di una certa fetta d’America con un progetto multimediale notevole, nella forma quanto nel contenuto, intitolato Invisible Child. Andrea Elliott ha seguito la piccola Dasani, senzatetto della Grande Mela, nella sua quotidianità tra la scuola, la famiglia e il tempo libero. Oltre che dalle splendide foto di Ruth Fremson, il progetto è affiancato da documenti ufficiali scaricabili e da una lunga lista di link anche esterni alle fonti. E un progetto simile è stato portato avanti anche dalla Reuters che ha indagato sul fenomeno del “re-homing”, ossia lo scambio, illegale e organizzato attraverso Internet e i social network, di bambini adottati – nella maggior parte dei casi da oltreoceano – ma non più graditi dai nuovi genitori.

Il femminismo di Facebook
Un articolo pubblicato su Vice, suggerisce – a metà tra il manuale di istruzioni e il buon proposito – Come migliorare il femminismo nel 2014. Il pezzo esordisce con un parere condivisibile dell’autrice, Sophie Heawood: “I media britannici hanno parlato di femminismo nel 2013 più che in tutti gli anni precedenti messi insieme”. Lontano dal voler offrire un database di tutte le occorrenze mediatiche del termine, la Heawood ripercorre invece l’anno appena passato attraverso le varie correnti e scuole di pensiero femminista che hanno guadagnato la scena nel corso del 2013. Tra queste c’è di sicuro quella promossa dall’ex direttore operativo di Facebook, Sheryl Sandberg, il cui libro Lean In ha innescato un dibattito durato tutto l’anno. E se i numeri della pagina Facebook, che con il libro va praticamente a braccetto, sembrano segnare il successo della formula emancipativa tra le internaute, i commenti usciti negli ultimi mesi sulle riviste online sono stati abbastanza critici. Scrive, ad esempio, Dissent: “Lean In assomiglia più a una startup della Silicon Valley ben finanziata che a un’organizzazione femminista che parte dal basso”. Un parere negativo e comunque molto più soft rispetto alla stroncatura netta della femminista Belle Hook che su The Feminist Wire parla di Lean In come di un “finto femminismo”: “Sandberg usa la retorica femminista come una maschera per coprire il suo impegno nei confronti dell’imperialismo culturale occidentale e della supremazia del patriarcato capitalista bianco.”

Intelligenza artificiale
Troppo entusiasmo e poca sostanza. Con queste considerazioni, Gary Marcus – dal suo blog ospitato dal New Yorker – bacchetta John Markoff, una delle firme del New York Times, per i suoi articoli eccessivamente euforici nei confronti dell’intelligenza artificiale. L’occasione per aprire il dibattito (molto rilanciato sui social network, come dimostrano le quasi 2mila condivisioni del pezzo di Marcus su Facebook) è un articolo su dei nuovi computer in grado di imparare dall’esperienza e intitolato Brainlike Computers, Learning From Experience, ma le critiche dello psicologo della N.Y.U. , pubblicate dal New Yorker, rivangano articoli che risalgono fino al 2012 (oltre a un progetto del NYT, che, sin dal titolo Smarter than you think, trasuda entusiasmo per lo sviluppo tecnologico). “Dimenticatevi l’intelligenza artificiale. Ciò di cui dobbiamo preoccuparci è l’idiozia artificiale”, commenta sul Guardian l’esperto di cultura digitale Tom Chatfield, citando di sfuggita il Marcus del New Yorker e soprattutto il libro Nate Silver The Signal and the Noise per aver dimostrato la fallacia della maggior parte dei sistemi di elaborazione dei dati nel fare predizioni.

Scene da alcune feste epiche
Questo è il titolo di un’interessante reading list recentemente proposta dal sito Longreads che, partendo da due articoli pubblicati nel dicembre 2013 (uno sul sito del NewYorker e l’altro su Vulture), torna indietro nel tempo fino al 1976 per raccontare attraverso gli articoli tratti da riviste come Vanity Fair o GQ, alcune feste indimenticabili. Tra gli articoli, forse senza troppa sorpresa, anche un impressionante pezzo di quasi 60mila battute, scritto da Ariel Levy e pubblicato nel 2011 sul New Yorker, dal titolo Basta Bunga Bunga.

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