Sabato Marchionne da Monti

La Repubblica: “Marchionne va da Monti”, “Sabato l’incontro. Elkann attacca: Della Valle irresponsabile”.

Corriere della Sera: “Caso Fiat, interviene Monti”, “Elkann: sostegno a Marchionne, Della Valle irresponsabile”.

La Stampa: “Fiat, i vertici vedono Monti”, “Sabato incontro a Palazzo Chigi. Elkann: ‘Faremo scelte oculate e responsabili'”.

Il Sole 24 Ore: “Monti chiama Marchionne. Sabato incontro con la Fiat”, “Elkann: la famiglia sostiene il manager, scelte oculate sugli investimenti”.

Il Foglio: “Corriere e Stampa, due grandi ossessioni del capitalismo italiano. Pressione multilaterale su famiglia Agnelli e Marchionne, bastone e carota. Della Valle in scalata ripida. Repubblica osserva guardinga”.

L’Unità: “Primarie, non facciamoci del male”.

Il Giornale: “Togliere l’Imu si può. Ecco chi l’ha fatto”, “Il sogno di Berlusconi di eliminare la tassa sulla prima casa non è irrealizzabile. Da Assago a due comuni sardi, qualcuno ci ha già pensato. E le famiglie ringraziano”.

Il Fatto e Libero puntano sulla decisione della giunta per il regolamento della Camera dei Deputati relativa ai bilanci dei gruppi parlamentari.
Il Fatto: “Rubano soldi pubblici a man bassa, ma i partiti bocciano i controlli”.
Liber: “La casta vuole mangiare in pace”, “La giunta della Camera boccia l’ipotesi di una verifica esterna sull’uso dei fondi pubblici”.

Su tutte le prime pagine la “gaffe” del candidato repubblicano Mitt Romney in un video registrato a maggio clandestinamente: insultava il 47 per cento degli americani che vota Obama e sfotteva gli ispanici, come sintetizza La Stampa.

Fiat

Sul Corriere della Sera Massimo Mucchetti firma l’editoriale dedicato alle dichiarazioni rilasciate ieri a La Repubblica da parte di Marchionne, in una intervista. Polemicamente Mucchetti fa notare che il titolo dato all’intervista era “la Fiat resterà in Italia”. “Lo strillo promette – scrive Mucchetti – ma possiamo dirci tranquillizzati? La risposta è no. L’esternazione di Marchionne era stata preparata il giorno prima da un lungo elogio dell’economista Alessandro Penati, che si era chiesto perché negli Usa Marchionne venga osannato e in Italia venga criticato aspramente. Il fatto è che gli osanna americani dipendono “dal fatto che a Detroit si lavora a pieno regime, mentre a Mirafiori si riesce a farlo solo tre giorni al mese; che negli Usa l’industria automobilistica è stata salvata dai miliardi della Casa Bianca”. Marchionne, ricorda Mucchetti, ha spiegato che la Fiat non ha progettato altri modelli per l’Europa perché avrebbe perso miliardi, data la crisi epocale di domanda di automobili; e che il buon momento della Chrysler serve a salvare la Fiat in Italia: “Ci andrei piano con i miti globali”, scrive l’editorialista. Globali sono la Toyota, la Volkswagen, la Ford, la Gm, la Bmw e la Renault Nissan. Vista in prospettiva la Fiat non appare più globale di come è stata altre volte in passato” (un tempo la Fiat possedeva la Seat in Spagna, poi ceduta a Volkswagen, la Simca in Francia, poi finita alla Chrysler). Vero è che non aveva gli Usa, “ma di questo passo si sta giocando l’Europa” che non è solo “un mercato ancora grande” ma soprattutto “è il cuore e la testa dell’automobile”. Secondo Mucchetti, l’Ad di Fiat ha evitato di parlare di alcuni nodi reali su cui è chiamato a fare i conti, il primo dei quali è la sovraccapacità produttiva in Europa, che esisteva già prima della recessione: in sede Acea, l’associazione europea di produttori di auto, Marchionne ha sostenuto l’idea di coordinare le chiusure delle fabbriche di troppo e di assegnare alla società incentivi pubblici alla bisogna, come era avvenuto per l’acciaio. Ma per i tedeschi “solo le case non abbastanza brave hanno fabbriche in eccesso. Dunque chiudano loro, e senza aiuti di stato”. Secondo Mucchetti la Fiat va peggio della concorrenza. L’ad Fiat aveva detto nella intervista: “Mi impegno ma non posso farlo da solo. Ci vuole l’impegno dell’Italia”. “La storia dei suoi investimenti, tutti sussidiati dai Paesi in cui li ha fatti (Usa, Brasile, Serbia) fa sospettare che stia per bussare a quattrini con il governo”. Mucchetti chiede poi chiarezza sulla disponibilità che ci sarebbe da parte della VolksWagen ad acquistare il marchio dell’Alfa, insieme ad uno stabilimento italiano che altrimenti verrebbe chiuso. Anche su questo ci sarebbe stato silenzio da parte di Marchionne.
Anche Vittorio Feltri su Il Giornale parte dal “destino crudele e beffardo” che fa sì che Marchionne sia lodato negli Usa e considerato in Italia ua specie di imbroglione. Per spiegarlo risale alla morte di Gianni Agnelli, nel 2003: si lasciava dietro “una azienda tecnicamente fallita”. Gianluigi Gabetti “ebbe l’idea giusta: assumere Marchionne dandogli carta bianca”. Il risultato ci fu: nel 2004 la Fiat era quotata sei miliardi di euro, oggi, malgrado la crisi, è quotata 16. Marchionne puntò lo sguardo sugli States, dove le fabbriche di vetture erano allo stremo, e con il capitale Fiat entrò nella Chrysler. Qualcuno gli diede del matto, invece aveva capito tutto: o le aziende, in piena globalizzazioni hanno dimensioni internazionali e si buttano nel mercato mondiale, o rischiano una brutta sorte. Ora Chrysler è una potenza e tiene in vita il “ramo secco italiano della Fiat”. Ma il mercato europeo è fiacco e quello italiano “moribondo”. Ovvio che Marchionne non faccia investimenti. La verità è che Marchionne subisce un linciaggio, da destra e da sinistra, “addirittura da alcuni imprenditori con il dente avvelenato e memori degli aiuti che gli Agnelli ebbero dallo Stato anni orsono”. Quando c’era l’Avvocato, bastava bussare alle porte del Palazzo perché si spalancassero. Lui se ne andava via con il portafoglio gonfio: “chi era il cretino? Agnelli che incassava o il politico che sganciava?”.

Tito Boeri su La Repubblica: “Sbaglia Marchionne: mercato italiano non è morto. Neanche quello dell’auto”. E’ necessario “aumentare la competitività delle nostre esportazioni” contando sulle nostre forze. Serve una svalutazione  fiscale, “che abbassi il cuneo fiscale finanziando, almeno in parte questo intervento con un aumento dell’Iva. La seconda strada è quella degli aumenti della produttività. La terza è quella che passa attraverso la moderazione salariale, attraverso una revisione delle regole della contrattazione. Sin qui i contratti nazionali prevedevano l’incremento automatico in base alle previsioni (prima dell’Isae e ora dell’Istat) sull’andamento dell’indice dei prezzi al consumo armonizzato a livello europeo  (Ipca), depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici: in Germania i contratti di categoria non prevedono alcun aggiustamento automatico all’inflazione, “però nei contratti collettivi ai vari livelli gli incrementi salariali richiesti dal sindacato hanno sempre una componente legata all’inflazione e i salari storicamente hanno tenuto il passo con la dinamica dei prezzi al consumo”. “C’è però una differenza importante tra Italia e Germania: da noi ci sono molte più piccole imprese che da loro, e per queste imprese i contratti nazionali sono l’unica fonte di variazione dei salari. Nel momento in cui si abolisse l’aggiustamento in base all’Ipca, bisognerebbe allora introdurre delle clausole che leghino automaticamente i salari all’aumento della produttività”.

Il Sole 24 Ore conferma le anticipazioni secondo cui il patron di Tod’s Diego della Valle è salito nel capitale di Rcs, gruppo che edita il Corriere della Sera, dal 5,499 per cento al 8,695 per cento. La reazione del presidente Fiat John Elkann, che nei giorni scorsi era stato attaccato dallo stesso Della Valle: “Il fatto che Della Valle continui a investire in Rcs è un segno che crede nel lavoro che abbiamo fatto nella governance e sul management.

Il Foglio ricorda che nel fine settimana è convocato il patto di sindacato Rcs e che negli anni la famiglia Agnelli ha visto sbiadire la propria centralità. Se Della Valle punta davvero ad un ruolo preminente nel Corriere, è naturale che sulla sua strada si metta Elkann. Parallelamente Il Foglio cerca di leggere la linea “eterodossa” rappresentata da Alessandro Penati su La Repubblica: una eterodossia che riporterebbe ad una posizione attendista dell’editore Carlo De Benedetti, “in stand by come acquirente potenziale del grande giornale di Torino”.

Soldi e politica

La Repubblica intervista Franco Fiorito, il dimissionario capogruppo Pdl alla Regione Lazio oggetto di un’inchiesta della magistratura romana per peculato. Si difende e dice: “l’inchiesta l’ho fatta partire io”. Lei ha otto case di proprietà: “Quattro le ho ereditate e per il resto ho acceso cinque mutui per 900mial euro”. Lei ha 12 conti correnti all’estero?  “Solo 4”. Perché ha sentito il bisogno di aprirli? “Ho ereditato una casa a Tenerife”. Dove sono gli 800mila euro prelevati sul conto corrente Pdl? “Li ho rimessi sul conto in Regione”. Quanti? “Non so”. Perché li aveva prelevati? “Per autorizzare le spese dei singoli consiglieri. Articolo 8, note spese regionali, ho le carte. Spero che la procura me le chieda”. 800mila euro in ostriche, champagne, Suv, chi se li è divorati? Le ostriche “il consigliere Pdl Miele”, lo champagne “il consigliere Pdl Bernaudo”. Quanto alle accuse dell’attuale capogruppo Pdl Battistoni, Fiorito risponde che “il suo controdossier non esiste”. “Non posso dire di più, c’è un’inchiesta in corso”.
Su La Stampa una intera pagina di approfondimento sugli sprechi e gli scandali delle Regioni, dove il Lazio non risulta essere l’unico “sprecone”. Il quotidiano racconta anche quant è accaduto ieri alla Camera: la giunta del regolamento oggi avrebbe dovuto votare una nuova norma che obbligherebbe dal 2013 i gruppi parlamentari a redigere un bilancio su come vengono spesi i fondi assegnati ogni anno (in totale 35 milioni di euro circa, che comprendono gli stipendi di segretari e dipendenti così come iniziative politiche e convegni). Fino ad oggi questi fondi non erano soggetti a nessun tipo di controllo: a giugno approda in giunta una proposta (elaborata dalla Presidenza della Camera e dai tre questori) che prevede di non assegnare il controllo agli uffici di Montecitorio, ma a società esterne di revisioni. Qui “casca l’asino”, come scrive La Stampa, perché una settimana fa in Giunta viene sollevata la questione dell’autogiurisdizione, nota come “autodichia”, che garantisce agli organi costituzionli (Camera, Senato, Consulta, Governo e Quirinale) totale autonomia e indipendenza. Dopo una discussione senza obiezioni di sorta, la proposta iniziale viene emendata dai suoi relatori (Bressa, Pd e Leone, Pdl): la certificazione non deve essere fatta da società esterne.

Primarie

E’ L’Unità il quotidiano che più insiste sui rischi connessi alla proliferazione di candidati alle primarie. Un articolo spiega che si vanno delinenando le linee che verranno poi sancite dall’Assemblea nazionale Pd del 6 ottobre. Bisognerà firmare una liberatoria per la privacy per poter votare alle primarie; e chi vuol partecipare alla sfida dei gazebo dovrà raccogliere in poche settimane un numero di firme che, “a occhio e croce, non tutti quelli che si sono fatti avanti finora riuscirà ad incassare: la cifra più probabile e 10mila, ottenute in 10 regioni diverse, come fu per le primarie che vinse Prodi nel 2005”. Il sindaco di Firenze Matteo Renzi si è opposto all’ipotesi di un registro cui far iscirvere gli elettori prima che vengano montati i gazebo. Nel Pd non mancano però le preoccupazioni per nuovi annunci di candidature: Bersani, Renzi, Civati, Vendola, Tabacci, Puppato, Spini, forse Gozi. Ieri si è parlato anche di una possibile discesa in campo del sindaco di Salerno Vincenzo De Luca. E alla sede Pd è arrivata anche la notizia di una candidatura di Amerigo Rutigliano.
“Mai troppi i candidati”, scrive su Europa Antonio Funiciello: ricorda che alle primarie repubblicane Usa i candidati in partenza erano 11. Vero è che si tratta, in quel caso, di un Paese di 300 milioni di persone, ma l’obiezione non ha fondamento: più che stupirsi del proliferare della candidature, “dalle parti del Pd dovrebbero preoccuparsi di essersi imbarcati in qualcosa che mostrano di non conoscere e di non avere una strategia per governare. Tutto resta da definire: le regole sono oscure, i tempi incerti, come pure le modalòità di svolgimento. E’ ridicolo alimentare l’insoddisfazine contro il numero crescente di aspiranti leader non autorizzati dal comitato centrale. Il partito perno della coalizione di centrosinistra dovrebbe proporre soluzioni efficaci per sciogliere i nodi irrisolti, a aprtire dal confine coalizionale. Al momento l’arco dei candidati va da Tabacci a Vendola. Lo stesso arco che alle primarie del 2005 andava da Mastella a Bertinotti. Un rilievo geometrico depressivo”.
Scrive Il Fatto che il presidente della Camera, promotore dell’iniziativa, non si è dato per vinto. E ieri, dopo un acceso dibattito d’Aula, si è augurato che la Giunta (che si riunisce oggi) torni al testo originario. Lo stesso quotidiano sottolinea che la questione dell’autogiurisdizione degli organi costituzionali è un problema non facile da superare.

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