Storia e (poca) gloria del giornalismo in Italia

«Gli anni di Silvio Berlusconi hanno prodotto un rapido contingentamento dei giornalisti, i quali si sono spesso adeguati, vuoi per scelta ideologica, vuoi per convenienza economica. Così facendo, essi hanno però finito per identificarsi con una determinata area politica e perdere quindi la credibilità per porsi al di sopra delle parti».

È l’assunto di Eserciti di carta, libro che traccia un bilancio abbastanza severo su «come si fa informazione in Italia». Scritto da Ferdinando Giugliano e John Lloyd, firme del Financial Times (il secondo lo leggiamo di frequente anche su la Repubblica), gli autori scavano per rispondere al seguente quesito: «Cos’è successo al giornalismo in seguito alla discesa in campo» della persona che riassume in sé l’essenza del più ampio numero di conflitti di interesse? Cioè l’uomo (politico e di governo) che veste i panni di imprenditore della Tv, della pubblicità, uomo d’affari, banchiere, azionista in Borsa e di partecipazioni in società e finanziarie – nazionali e internazionali – di vario ordine e grado, proprietario d’una squadra di calcio, con tutte le implicazioni che questo sport ha nel delirio nazionale, tra tifo italico e ripercussioni sul sistema mediatico, eccetera, eccetera.

Giugliano e Lloyd ricostruiscono un quadro che parte dagli anni Ottanta e arriva a oggi per constatare che il sistema dell’informazione nazionale non sta per niente bene. Anzi, è piuttosto malato e malandato. Anche se, a onor del vero, bisogna riconoscere che la “discesa in campo” di Silvio Berlusconi ha probabilmente solo acuito e reso più evidenti alcune endemiche cattive abitudini, propensioni, vizi e derive della professione giornalistica, contiguità al potere ivi compresa, “costituzionalizzandole”, certificandole, rendendole strutturali.

Berlusconi ha trasformato tutto il sistema che ruota intorno al meccanismo dell’opinione pubblica (informazione, idee, opinioni, consenso) in una grande tifoseria nazional-popolare divisa, appunto, tra “rossi” e “neri”, così come le righe che striano le maglie del suo Ac Milan: «O con me o contro di me» il suo motto. Un referendum continuo su di sé, la sua persona, la sua politica, le sue scelte politiche e personali, la sua stessa vita e il modo di condurla. Esasperando e stressando la dialettica e il confronto, le regole, estremizzando tutto in ogni circostanza.

A cominciare dalla questione degli “arbitri”, che – annotano gli autori raccogliendo l’analisi del professor David Hine, politologo a Oxford – «sono stati sistematicamente messi in discussione», un processo questo che «ha contribuito a screditarli» agli occhi della stessa pubblica opinione. E i giornalisti, osserva Hine, «sono stati i primi arbitri ad essere attaccati». E, paradossalmente si potrebbe dire, proprio dall’imprenditore dei media per antonomasia. Cioè dall’inventore della televisione privata e, successivamente, anche dei tre distinti Tg.

Ci si potrebbe chiedere: perché li ha attaccati? Forse perché li conosceva bene? Quali fossero, ad esempio, le loro inclinazioni e debolezze? Sta di fatto che i giornalisti non hanno avuto difficoltà o hanno avuto buon gioco a dividersi in accesi pro e acerrimi contro. In tifosi di un campo o dell’altro. E forse il processo di più accentuata politicizzazione nasce – in particolare a destra – proprio «dalla presenza simultanea di una politica troppo forte e di un giornalismo troppo debole». Tant’è.

Indro Montanelli, principe di un giornalismo e d’una politica di certo conservatori, penna-emblema d’una borghesia meneghina laboriosa e fedele ai propri princìpi liberali quanto alle regole e alle tradizioni, si trova improvvisamente estromesso o surclassato dalla disinvoltura e spregiudicatezza intellettuale dei tanti Feltri, Fede, Ferrara, che tra il ’93 e il ’94 cominciano a suonare la grancassa del nuovo Signore di Arcore in ascesa verso il comando della nazione. E Montanelli, per paradosso, si trova scavalcato. E dopo esser stato accanitamente combattuto da sinistra per il proprio conservatorismo, si trova di colpo intruppato – fatto abile e arruolato – dal e nel campo avverso. Tantoché, una volta estromesso dal Il Giornale che ha fondato, finisce per assurgere a paladino dell’antiberlusconismo con la sua stessa Voce solitaria, quasi subito stritolata e soffocata da un mercato sempre più difficile e per nulla generoso nel seguirla, sostenerla e, comunque, già ormai compromesso negli assetti. Ma questa è storia passata. Storia delle origini.

Su quel che accadrà negli anni successivi, l’odierno presente, Giugliano e Lloyd mettono l’accento sul fatto che l’informazione italiana e il giornalismo che la narra sia perciò poco obiettiva e dunque neutrale. E tra carta stampata, televisione e internet in qualche misura anche troppo urlata, sensazionale, tendenziosa, “gossipara” e, pertanto, tutto sommato anche imbarazzante nelle sue duplici espressioni, sia di destra sia di sinistra. Troppo “popolare”, si dice in gergo. Ma qui la critica fatta dai due giornalisti inglesi in qualche misura potrebbe persino venire spedita direttamente al mittente, perché l’Inghilterra – patria di quotidiani come il Sun o il Daily Mirror – ha ancora molto da insegnare nel genere all’Italia, anche se proprio nel caso specifico un certo segno è stato largamente oltrepassato e la contaminazione è avvenuta su più piani e livelli, come ben rivela la biografia di Alfonso Signorini, il direttore del settimanale di gossip Chi, che nel volume trova ampio spazio.

Ad ogni modo non si possono certo mettere sullo stesso piano le “dieci domande” rivolte da Giuseppe D’Avanzo, attraverso la Repubblica, sul caso Casoria-Noemi, le feste, lo stile di vita di Silvio Berlusconi, con la tendenza al gossip, politico e non, dell’informazione italiana come sembrerebbero fare gli autori. Sono due livelli decisamente diversi e due piani assolutamente separati. Quelle “dieci domande” sono state al tempo stesso un dovere civico e professionale e, insieme, anche il canovaccio di una doverosa inchiesta giornalista vera e propria. Una dimostrazione di carattere e di indipendenza personale e professionale come ce ne sono state e ce ne sono poche.

Quanto ai vizi della professione in generale, invece, restano tutti. E basta andare al giugno del 1959 e rileggersi qualche passo dei Millecinquecento lettori, il breve ma efficace pamphlet scritto da Enzo Forcella per rendersene conto: «Un giornalista politico, nel nostro paese, può contare su circa millecinquecento lettori: i ministri e i sottosegretari (tutti), i parlamentari (parte), i dirigenti di partito, sindacalisti, alti prelati e qualche industriale che vuole mostrarsi informato. Il resto non conta, anche se il giornale vende trecentomila copie. Prima di tutto non è accertato che i lettori comuni leggano le prime pagine dei giornali, e in ogni caso la loro influenza è minima. Tutto il sistema è organizzato sul rapporto tra il giornalista politico e quel gruppo di lettori privilegiati. (…) Il rapporto dei millecinquecento lettori con il giornalista politico è molto stretto, in un certo senso si può dire che giunge fino alla identificazione: ogni mattina essi fanno colazione con lui (se hanno l’abitudine di leggere i giornali mentre prendono il caffè latte), spesso lo invitano a pranzo e gli fanno pervenire attraverso colleghi o amici comuni i sensi della loro considerazione. A Natale, e quando è molto importante anche a Pasqua, il giornalista politico riceve dai suoi estimatori molte cassette di liquori. È invitato a tutti i ricevimenti. Ha onorificenze. Se deve chiedere qualche cosa alla burocrazia la ottiene assai più facilmente del cittadino qualunque».

Era così anche prima dell’avvento di Silvio Berlusconi. E magari oggi è forse anche peggio. Lui l’ha solo reso più esplicito, evidente. L’ha “sdoganato”, perciò inquinato. Come ha inquinato gran parte della vita pubblica, corrompendola nel profondo e nei principi fondamentali. In fondo «il Tg1 è sempre stato di parte, ma c’è sempre stata attenzione a cercare di essere rappresentativi di tutte le aree culturali del Paese» riconoscono gli Autori. Pur sempre filogovernativo, da un certo momento in poi sotto la direzione di Augusto Minzolini, oggi senatore Pdl, diventa solo «schierato a fianco della maggioranza e del governo». Con prese di posizione esplicite, editoriali ad hoc.

All’ombra di Berlusconi è cresciuto potere, sottopotere e rivalsa. Si sono consumate vendette ed è stata fatta qualche pulizia, con e senza espliciti “editti bulgari”. E così oggi, in forza della crisi economica, della pessima congiuntura finanziaria, con le vendite dei giornali che crollano, la raccolta pubblicitaria che latita, nel momento in cui c’è la predominanza della politica, e di una certa politica, «il mercato non c’è più». In particolare nell’informazione e nel giornalismo. Ed è esattamente quel che è accaduto e sta accadendo all’Italia. Al suo mercato editoriale e al suo mercato informativo. Sprofondato, con la crisi, nel vortice del conflitto d’interessi. Prigioniero nelle spire della politica.

Titolo: Eserciti di carta

Autore: Ferdinando Giugliano, John Lloyd

Editore: Feltrinelli

Pagine: 283

Prezzo: 18 €

Anno di pubblicazione: 2013



  1. Sinceramente di questo libro non se ne sentiva il bisogno.

    A parte l’ingerenza della politica e blah blah tutte banalita’ che sapevamo gia’ da decenni, e che sono comuni a tutti i paesi, sviluppati e non. (la stampa inglese non e’ da meno)
    La censura e autocensura che in Italia non esiste, esiste solo nella mente di Grillo.

    Quello che sta distruggendo la stampa italiana, e’ un modello di business sbagliato, cannato completamente, l’indegno sfruttamento dei giovani giornalisti e dei collaboratori, un sistema che non si regge sulle proprie gambe, non ha contenuti da offrire, e’ obsoleto e in buona sostanza, offre un prodotto che nessuno vuole. Questo al di la’ della politica. E’ proprio non si riesce a fare informazione di qualita’.

    Questo lo citano nel libro? o si limitano a fare le intervistine a Travaglio e Riotta su quanto e’ brutta brutta la situazione?
    (Riotta poi..)

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