Cronache irriverenti da un’Algeria infelice

È innanzitutto l’Algeria, la “sua” Algeria al centro di Mes indépendances (Actes Sud, 480 pp., 2017) del giornalista e romanziere di lingua francese Kamel Daoud, Premio Goncourt per il primo romanzo nel 2015 per Mersault, contre-enquête, sorta di “contraltare” al capolavoro Lo straniero di Albert Camus.

Osservatore d’eccezione della vita e della società algerine, autore per una ventina d’anni delle cronache più lette del Paese per il “Quotidien d’Oran”, fondato nel 1994 nel pieno della guerra civile, Daoud ha inteso ora “chiudere l’era del giornalista con dei testi scelti che corrispondono alle mie grandi tematiche”. E la selezione di circa duecento articoli – su più di duemila apparsi fra il 2010 e il 2016 – si incentra su temi “forti”, vere e proprie “ossessioni” dell’autore, quali l’islamismo, l’Algeria e i suoi traumi, il suo regime ‘fossilizzato’, la sua identità e la sua lingua, i rapporti con la Francia, le rivoluzioni arabe.

All’episodio di Colonia della notte di Capodanno 2015 – 2016, quando decine di donne denunciarono molestie e aggressioni sessuali da parte di giovani ubriachi e dall’aspetto di origine araba o nordafricana dedica il 2 marzo del 2016 Mes petites guerres de libération [Le mie piccole guerre di liberazione], l’ultimo degli articoli della raccolta, “sui nostri legami morbosi con il desiderio, il corpo e la donna”. Già a fine gennaio aveva scritto che “il tabù del sesso e del rapporto con le donne nel mondo musulmano sono all’origine delle aggressioni a sfondo sessuale”; pochi giorni dopo dalle colonne di “Le Monde” alcuni intellettuali l’avevano accusato di “riciclare i vecchi luoghi comuni” nonché di “alimentare le fobie islamofobe di gran parte degli europei”.

Ha realizzato allora di avere “soltanto scatenato un qualcosa di latente. Il delirio si manifestava in maniera così sproporzionata da diventare in sé più interessante delle osservazioni” e ha deciso di conseguenza di “portare avanti, anch’io, la guerra della liberazione. E celebrare le mie indipendenze”. E il volume ha per titolo, per l’appunto, Le mie indipendenze, in particolare dai poteri, siano essi politici o religiosi: “Posso finalmente scrivere a mio piacimento, nessuno mi controlla, la lingua francese è la mia intimità e il mio ambito di dissidenza”.

Dalle primavere arabe agli attentati di Parigi del 2015, da Bamako e Tunisi, dalle elezioni presidenziali algerine alla crisi per i migranti: la voce di Daoud appare sempre originale, impegnata, libera e stimolante, sia che derida l’islam politico, sia che sostenga la speranza suscitata dalle rivoluzioni o che difenda la causa delle donne. Concepisce la cronaca come un esercizio di stile e uno stimolo alla riflessione, sempre interrogandosi, giorno dopo giorno, sull’uomo, la religione e le libertà.

Sull’Algeria il suo sguardo e la sua penna si fanno più taglienti: nel dicembre 2010 riprende un’informazione svelata da Wikileaks secondo la quale l’ex ambasciatore americano avrebbe descritto l’Algeria come un “Paese infelice”, non “un Paese povero, non un Paese in guerra, ma infelice, ovvero triste, che soffre di se stesso”. “Da quanto ricordi un cronista, “si tratta della biografia più breve e più straziante di una nazione” scrive Daoud. Perché “L’Algeria è ammalata di ‘unanimismo’: ha un partito unico, un Dio unico, il pensiero unico. Ciò ucciderà la nazione. Dobbiamo tornare alle nostre differenze che costituiscono la nostra ricchezza. Il Paese è vasto e plurale, musulmano, cristiano ed ebreo. Siamo una repubblica ricca di storia”.

Nel 2011, in seguito alla caduta di Ben Ali in Tunisia e due mesi dopo di Hosni Mubarak in Egitto, confessa: “questi Paesi forse vivono la paura, il disordine e le anarchie. Eppure sognano. E in ciò consiste differenza con noi: in Algeria la paura ci ha sottomessi al quotidiano”. E sottolinea che “i djihadisti sono figli delle dittature, non delle rivoluzioni”. Sì, perché, conferma “gli islamici e i djihadisti non nascono dalle rivoluzioni”, ma quando “si ostacola per decenni la crescita di un popolo, privandolo della libertà e quindi della cultura”.

Insiste nel rievocare la “fossilizzazione del regime algerino”, mentre il mondo cambia a tutta velocità; ciò perché l’Algeria è diversa, “un Paese traumatizzato dalla colonizzazione e dalla violenza degli anni ’90; il popolo, stanco, preferisce l’immobilismo al cambiamento”. Ma – prosegue – “non incolpiamo soltanto il regime, poiché il regime siamo noi, con il nostro consenso. Abbiamo paura del futuro, del presente, di noi stessi, degli altri”.

Per Daoud “alimentare il rancore sulla colonizzazione francese ostacola l’elaborazione di una relazione costruttiva basata sul futuro”, fatto questo che gli è valso il rancore e le minacce da parte di non pochi compatrioti: “dobbiamo smettere di rivangare questa storia. Ritengo che la Francia abbia il diritto di agire adesso in maniera positiva”. E ribadisce che “siamo stanchi di questa storia”. Nell’articolo Possiamo ancora pretendere che la Francia ci chieda scusa?” denuncia l’ipocrisia dell’Algeria: “Quando i nostri concittadini si trasferiscono in Francia, usufruiscono dei servizi sanitari, vi possiedono dei beni, perché esigere che il Paese si scusi?”

Non manca neanche di mettere in evidenza le manifestazioni autoritarie del regime, spesso violente e assurde, quale la vicenda del giovane rapper, emigrato clandestinamente in Europa in quanto autore di una canzone sull’inamovibile presidente Bouteflika e il terrorismo.  È stato condannato a dieci anni di reclusione in contumacia; il procuratore aveva però richiesto la pena di morte…”contro una canzone”, ironizza Daoud. Sì, perché il potere deve combattere anche contro i nemici interni, non politicizzati, anonimi, per distruggerli, farli a pezzi.

Titolo: Mes indépendances

Autore: Kamel Daoud

Editore: Actes Sud

Pagine: 480

Prezzo: 23,90 euro €

Anno di pubblicazione: 2017



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