Hic et nunc: la Cina è lontana, la Cina è vicina (e l’Occidente ne sa poco)

La Cina è vicina? Il punto interrogativo si può forse togliere: la Cina è vicina, è dentro l’Occidente, ma è percepita spesso come un corpo estraneo, con un misto di inquietudine, paura e fascinazione esotica. Tutto questo in un contesto in cui i rapporti di forza mondiali, economici e politici si stanno sempre più spostando non solo verso la Cina ma anche verso l’Asia, l’India, i paesi emergenti. Quello che è in atto, dal punto di vista politico ed economico, è un «passaggio del testimone», un «tendenziale spostamento del centro del mondo dall’Ovest all’Est», verso i paesi noti come BRIC – Brasile, Russia, India e Cina – insieme ad altri paesi emergenti, destinati a rendere il mondo più articolato, non più organizzato sul modello dei processi di modernizzazione occidentali considerati come universali. E in questo spostamento la Cina sta giocando e sempre più giocherà un ruolo da protagonista. La Cina è dentro di noi perché si comprano e si consumano prodotti made in China, perché si mangia cinese, perché la produzione è fatta sempre più spesso da lavoratori cinesi e non si parla solo di lavoro illegale: la Cina è anche investimenti tecnologici e finanziari, sviluppo e ricerca, frontiera dell’innovazione. Allo stesso tempo, in Occidente, e forse ancor più in Italia, è poco conosciuta e guardata con diffidenza. L’agevole saggio di Vincenzo Comito, “La Cina è vicina?” (Ediesse 2014) avvicina dunque il lettore al colosso asiatico ripercorrendo l’ascesa economica, politica e finanziaria della Cina, con i numeri impetuosi della sua crescita e senza nascondere le contraddizioni di uno sviluppo fatto anche di disuguaglianze, di sfruttamento dei lavoratori, di un welfare in miglioramento ma ancora insufficiente, di emergenze ambientali.

«Dopo che per più di trent’anni il tasso di sviluppo medio del Pil si era collocato intorno al 10%, con una punta del 14%, il 2012 segna una crescita del ‘solo’ 7,8% e nel 2014 si dovrebbe registrare un incremento di circa il 7,7%». Questo è solo uno dei numeri citati nel saggio per dimostrare cosa si intenda per crescita cinese. Interessante però è il punto di partenza dell’autore, una rivendicazione orgogliosa di simpatia per la Cina. Sostiene Comito: «Di fronte ad una sterminata letteratura sul caso cinese, per gran parte ostile, l’autore di questo testo non nasconde la sua simpatia per il risveglio del gigante asiatico e per la sua crescente affermazione nel mondo. Una dissenting opinion che non intende nascondere le profonde contraddizioni che tale sviluppo reca con sé».
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Fra le ragioni di questa simpatia, una riguarda il fatto che «la Cina è riuscita, nell’arco di pochi decenni, a togliere dalla povertà estrema circa 600 milioni di suoi abitanti, anche se certamente esistono ancora nel Paese delle sacche importanti di miseria». L’altra ragione riguarda invece il cambiamento degli equilibri geopolitici nel mondo, che vedono arrivare un nuovo, importante protagonista, destinato a cambiare (in modi ancora non chiaramente identificati, perché nuovo e in trasformazione è il modello economico e politico proposto) l’assetto di potere: il ruolo guida del mondo non l’hanno più, soltanto, gli Stati Uniti. Scrive Comito: «Su un piano diverso va osservato che di fronte ad un mondo sino a ieri dominato dagli Stati Uniti, l’affermazione della Cina ci porta progressivamente ad avere due padroni del mondo. Il che è meglio che averne uno solo: il mondo, pur con le sue contraddizioni, ci appare più libero».

E l’Europa? L’autore sottolinea la scarsa incisività del Vecchio Continente, che senza una unione politica non potrà farsi ascoltare – l’interlocutore della Cina è infatti la Germania, non Bruxelles – mentre dell’Italia evidenzia la scarsa capacità di saper cogliere le opportunità offerte dallo sviluppo della Cina, ad esempio sul versante dell’attività dei porti (gran parte degli scambi commerciali si svolge via mare) e dello stesso turismo, tanto è vero che i turisti cinesi in Europa sono aumentati ma sono “intercettati” soprattutto da Francia e Gran Bretagna, piuttosto che dal Bel Paese. Inoltre, sottolinea l’autore, la crescita cinese non è frutto solo del basso costo del lavoro: «Lo sviluppo non è stato generato soltanto, come si tende a credere in Occidente, dai bassi salari. Esso è stato alimentato dalle grandi economie di scala, da un buon livello delle infrastrutture, da un alto tasso di risparmio e da un’abbondante disponibilità di risorse finanziarie, da un elevato livello di istruzione e da una progressiva apertura dell’economia».

Naturalmente, tutto questo avviene all’interno di processi pieni di contraddizioni. C’è uno “sviluppo diseguale” che discrimina fra popolazione urbana e rurale, fra zone costiere sviluppate e aree interne del paese; c’è un welfare che migliora, ma è ancora inadeguato; c’è lo sfruttamento dei mingong, i lavoratori irregolari impiegati con turni di lavoro massacranti, senza diritti nelle fabbriche, spesso suicidi per le durissime condizioni di lavoro; ci sono i più di ventimila minatori morti nelle miniere (denunciano le organizzazioni non governative) nei primi anni del terzo millennio; ci sono le emergenze ambientali, che assumono i risvolti di catastrofi ecologiche con l’inquinamento dell’aria, dell’acqua, della terra. Qualcosa però sta cambiando: l’era del lavoro a buon mercato, argomenta l’autore, sta volgendo al termine, si stanno attuando migliori politiche sociali, si annunciano interventi di lotta ai cambiamenti climatici, mentre aumenta il tasso di scolarizzazione della forza lavoro, tanto che nel 2020 le stime dicono che la Cina (col 29% del totale) e l’India (col 12%) raccoglieranno più del 40% del totale dei laureati Ocse.

Analizzando la Cina nella globalizzazione e nei rapporti di forza economici, emerge come siano aumentati gli investimenti stranieri in Cina e come quest’ultima abbia fatto passi da gigante negli investimenti all’estero, diretti soprattutto verso Asia, Africa e America Latina. «Siamo, in definitiva, di fronte al più grande cambiamento nei rapporti di forza economica da quando, più di un secolo fa, gli Stati Uniti sono emersi come protagonisti sulla scena mondiale – scrive Comito – Stiamo assistendo non solo ad un aumento crescente del peso dell’Asia nel commercio, negli investimenti, nella ricchezza prodotta, ma anche allo spostamento verso Oriente del centro del processo di accumulazione».

In Cina i dissidenti, che sostengono la democrazia liberale e lo stato di diritto costituzionale, sono controllati, messi in prigione, marginalizzati: tutto è controllato dal partito. La Cina, argomenta l’autore, è «un sistema autoritario» che contiene dentro di sé i segnali di una «democratizzazione strisciante» e lo scenario futuro è quello di una «perenne trasformazione». Quale sarà il risultato è difficile dirlo, anche se si può forse parlare (come fa Antonio Cantaro nella presentazione del volume) di «ibridazione culturale e politica».

In ogni caso, è interessante quello che Comito scrive nell’appendice del saggio, che sintetizza la storia della Cina dalle dinastie imperiali alle vie della seta, dai rapporti con l’Occidente coloniale alla “vittoria” dell’Europa. L’atteggiamento dell’Occidente verso la Cina, spiega l’autore, alterna inquietudine, fascino e paura del “pericolo giallo” seguendo due punti di vista: allo sguardo occidentale «i cinesi in sostanza non sarebbero come noi», oppure, al contrario, non potranno che diventare come noi, perché lo sviluppo economico li farà convergere verso un modello che ricomprende mercato, individualismo, democrazia elettiva. Sarà davvero così? Scrive Comito: «Permangono, ovviamente, contraddizioni difficili, per noi, da comprendere. La coesistenza di capitalismo selvaggio e Stato onnipresente, di individualismo sempre più spinto ed obbedienza forte alle regole collettive, di crescita spettacolare del livello di vita e stratificazione sociale molto poco egualitaria, di società sempre più democratica e sistema politico assolutamente monolitico, di apertura al capitale straniero e nazionalismo esasperato. In realtà, quella cinese è stata una civiltà che, senza necessariamente respingere gli apporti esterni, ha ampiamente mostrato una notevole capacità di innovazione interna».

Staremo a guardare, verrebbe da dire a chi si accosta al tema e trova nel saggio una grande qualità: la scorrevolezza della lettura, la capacità di andare dritto al cuore del problema che si sta affrontando senza pregiudizi, anzi smontandoli per restituire l’immagine di una realtà che – come tanti aspetti legati alla globalizzazione e alla trasformazione dell’economia e della politica – difficilmente può rientrare in una classificazione in bianco e nero, specialmente nel caso della Cina, dove le sfumature sono diverse e gli sviluppi possibili numerosi, intrecciati, rimescolati in combinazioni criticabili ma nuove, non universali, in ogni caso destinate a dialogare con “noi”. Alla fine, la Cina è lontana ed è vicina, poco conosciuta ma non incomprensibile – se si cerca di capire e di andare oltre l’allarme neanche troppo velato che attraversa l’Occidente ogni volta che qualcuno pronuncia le parole Made in China.

Titolo: La Cina è vicina?

Autore: Vincenzo Comito

Editore: Ediesse

Pagine: 192

Prezzo: 12 €

Anno di pubblicazione: 2014



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