La pazzia e la guerra. Da Puškin a Dostoevskij, tutti i demoni della Russia

Immagini, flash, nella mente del vecchio cronista. Cose viste e sentite in queste ore, cose lette in questi anni, o molti anni fa. “Fermati pazzo”, grida Čičikov, il trafficante di anime morte, al guidatore della sua slitta che sta per sfracellarsi contro un’altra tròika che sta arrivando dalla direzione opposta. Chi si fermerà per primo?

L’immagine della tròika lanciata a folle velocità verso la catastrofe, verso l’abisso, ricorre di continuo nella grande letteratura russa, dall’ottocento fino ai giorni nostri. Spesso è il demonio a guidarla, o sono indemoniati i cavalli. Ben che vada è un incosciente chi la guida, se non un vero cretino. La tròika è un mezzo molto veloce. Il guidatore, che in genere sta in piedi, deve essere capace di equilibrare i tre cavalli, ciascuno dei quali tende ad andare per conto suo. Quello al centro va al trotto, gli altri due al galoppo. Corre la tròika nel celebre finale delle Anime morte di Gogol, anzi vola sull’infinita pianura ucraina. “Come fa a non piacere a ogni russo la velocità? Come fa a non piacere alla sua anima, che aspira alla vertigine, all’abbandono, a dire ogni tanto: ‘All’inferno tutti quanti’? […] Corre la tròika, corre, corre! E non corri forse anche tu Russia, come una tròika?  […] Russia, dove corri? Rispondi. Ma la Russia non risponde. Con suono incantato tintinnano le sonagliere, fischia l’aria lacerata, si fa vento, tutto sulla terra viene lasciato indietro, si fanno in disparte, guardandola male, per lasciarla passare, gli altri popoli e gli altri imperi”. Lirico. Ma il lettore che è arrivato a questo punto del romanzo di Gogol, peraltro incompiuto, sa bene che quella tròika non è per niente gloriosa, trasporta un imbroglione, uno che i suoi compatrioti, se lo acchiappano, lo linciano.

Meno di mezzo secolo dopo, l’immagine della tròika diventa, in Dostoveskij, quasi una parodia della retorica giudiziaria. Siamo nell’aula di tribunale in cui viene giudicato il presunto parricida Mitja, il maggiore dei fratelli Karamazov, uomo brutale, ex militare. A tirare in ballo la tròika impazzita è il pubblico ministero che deve convincere i giurati della colpevolezza dell’imputato. Ma si lascia prendere la mano e strafà. “Ricordatevi che siete i difensori della nostra giustizia, del nostro diritto, della nostra santa Russia […]. Non arrecate dolore alla Russia, non deludete la sua attesa: la nostra tròika, carica di destino, galoppa forse verso la sua rovina. Già da gran tempo, da ogni parte della Russia, si tendono braccia imploranti affinché si arresti questa sfrenata e folle corsa. E se gli altri popoli si fanno ancora in disparte, davanti alla pazzesca corsa della nostra tròika, forse questo non avviene affatto, come avrebbe voluto il poeta, per il rispetto che essa suscita, ma semplicemente, tenetelo presente, per l’orrore che desta! […] Abbiamo già sentito dall’Europa tali gridi di allarme. Cominciano già a risuonare intorno a noi. Non tentate, dunque, quei popoli, non aumentate il loro odio sempre crescente, con una sentenza che assolva un figlio assassino del loro padre!…”. Nessuno applaude. Il processo finisce con la condanna dell’imputato. Ma il lettore non saprà mai se è stato davvero lui.

La neve si addice ai diavoli di Russia. Turbinano volentieri nelle tempeste di neve. Come i carri armati di Putin. Li abbiamo visti volteggiare, danzare quasi con eleganza nella neve, Le stesse immagini, in tv, per giorni e giorni. Sarebbero stati in difficoltà col disgelo, quando la steppa si trasforma in un mare di fango. L’“operazione militare speciale” andava lanciata subito. Non si poteva “aspettare ancora qualche giorno”, come – con notevole coraggio personale – questo bisogna riconoscerglielo – aveva proposto Lavrov.

“Ognuno di voi lo sa, e voglio sottolinearlo…Non ho discusso niente con voi in precedenza. Non ho chiesto la vostra opinione prima d’ora… Volevo sentire la vostra opinione spontanea, senza alcuna preparazione..”. Così aveva esordito Vladimir Putin in quella spettrale riunione del Consiglio per la sicurezza nazionale nella sala delle colonne del Cremlino. Lui, da solo, come in cattedra, ad un estremo dell’immensa sala rotonda, gli altri seduti, all’estremo opposto, come scolaretti. Lui, il Capo, il Vožhd, il Maestro, a interrogarli, piuttosto che a sentire il loro parere. Cercate sul web la scena: dice tutto su chi comanda le danze in Russia. Soffermatevi sulla faccia di Sergej Naryshkin, il direttore dei Servizi per l’estero. Impallidisce come avesse visto un spettro, balbetta, quando il maestro lo interrompe e lo sgrida: “Non è di questo che stiamo parlando in questo momento”. Era stato troppo entusiasta nel dirsi d’accordo che le due repubbliche separatiste dall’Ucraina entrassero a “far parte della Russia”. Errore: la battuta prevista dal copione in quel momento era dirsi d’accordo solo sul “riconoscimento”, non sull’annessione. Naryshkin si riprende, dice che date le circostanze sarebbe d’accordo al riconoscimento… Putin lo interrompe di nuovo, con un sorriso sadico: “Saresti o sei d’accordo?”. Sudori freddi di Naryshkin: “Sono d’accordo…”.

La scena l’hanno mandata in onda per intero. Il messaggio è chiaro: lo Zar decide tutto da solo. Non è consentito neppure balbettare opposizione. Può permettersi di trattare come pezze da piedi la sua stessa élite (Naryshkin, come quasi tutta la “nuova nobiltà” russa dei siloviki, viene dai servizi, era suo compagno di banco alla scuola superiore del KGB, a Mosca). Li tiene insieme col disprezzo e la paura. Meno ancora si cura della sua opinione pubblica. Ancora a dicembre uno studio rilevava solo l’8 per cento dei russi favorevoli a un conflitto con l’Ucraina, appena il 9 per cento favorevoli anche solo ad armare i separatisti filorussi. Putin se n’è fregato. Hai voglia puntare su qualcuno dei suoi o su qualcosa che gli faccia cambiare idea, hai voglia avere la più sofisticata intelligence possibile, le immagini fornite dai satelliti, i migliori analisti, magari anche le indiscrezioni di qualcuno nel suo entourage. Per sapere quello che Putin farà, quali saranno le sue prossime mosse, bisognerebbe essere dentro il suo cervello.

Siamo al buio. I demoni russi prediligono la notte, l’oscurità. Tanto con le moderne tecnologie ci vedono lo stesso, sono in grado di colpire con “precisione chirurgica”. Vero, ci sono vittime “collaterali”, che è un altro modo per dire innocenti. Ma succede nelle migliori famiglie. E possono comunque dire che sono stati gli altri. “Fuggono le nubi, turbinano le nubi;/Invisibile la luna/rischiara la neve volante; È fosco il cielo, la notte è fosca. Corro, corro in aperta campagna; Il sonaglio, din-don-din…/ Fa paura, per forza fa paura/ […] Tutte le strade sono colme; /Anche a morire, non si vede traccia;/ Ci siamo persi. Che fare!/ Un demonio, si vede, ci tira nel campo/ E ci volta in qua e in là […] Infiniti, difformi,/ Nel fosco lume della luna/ Demoni vari si sono messi a mulinare /[…] È fosco il cielo, la notte è fosca. / Fuggono i demoni, sciame su sciame/ Nella sconfinata altezza, / Coll’ululo e lo strido lamentoso […]” Così Aleksandr Puškin, nella poesia “I demoni”, del 1830, nella traduzione di Tommaso Landolfi.

L’immagine della bufera di neve ricorre continuamente nella narrativa russa. Dalle leggende ucraine di Nicolaj Gogol, alias Mycola Hohol, a La tormenta di Vladinir Sorokin. “Quante anime morte nella mia Madre Russia. Così racconto la provincia di un Paese rivolto al passato più che al futuro”, spiegava in un’intervista a Wlodek Goldkorn quando, nel 2016 il romanzo uscì in traduzione italiana. Protagonista è un medico che deve raggiungere un paesello colpito da una epidemia che minaccia l’intero genere umano. A proposito, che ne è del Covid? A Kiev certo hanno altro cui pensare. In Russia, dove sono riusciti a vaccinare solo una piccola parte della popolazione, e per giunta con un vaccino che non sembra proteggere granché, è ancora un grosso problema. Sembra confermarlo lo smisurato tavolo bianco, opera di mobilieri brianzoli, alla cui estremità Putin aveva relegato Macron, e il grottesco distanziamento nella Sala della colonne. Ma al bielorusso Lukashenko, chiamato ad assistere alle esercitazioni con le armi nucleari da fine del mondo, è stato consentito di sedersi assai più vicino.

Dostoevskij aveva immaginato un collegamento tra epidemia, guerra e follia. Il sogno di Raskolnikov nel capitolo finale di Delitto e castigo (pubblicato nel 1861) fantastica di “una tremenda, inaudita e mai vista pestilenza che dal fondo dell’Asia avanzava vero l’Europa”. Dovuta a “certe nuove trochine, esseri microscopici che si annidavano nel corpo degli uomini”, a “spiriti, dotati di propria intelligenza e di volere”, a demonietti invisibili che si comportano come virus. Non resisto a rileggere il passo, che ogni volta riesce a farmi venire brividi lungo la schiena: “Gli uomini che li avevano accolti dentro di sé diventavano subito indemoniati e pazzi. Mai prima però degli uomini si erano stimati così intelligenti e incrollabili nella verità come si stimavano quegli appestati. Mai avevano stimato più incrollabili le loro sentenze, le loro deduzioni scientifiche, le loro convinzioni e fedi morali. Interi villaggi, intere città e popolazioni s’infettavano e facevano pazzie. Tutti erano affannati e non si capivano l’un l’altro, ognuno pensava che in lui solo fosse racchiusa la verità, e si crucciava guardando gli altri, battendosi il petto, piangeva e si torceva le mani. Non sapevano chi giudicare e come, non potevano accordarsi su ciò che fosse da considerarsi come male o come bene. Non sapevano chi accusare e chi assolvere. Gli uomini si uccidevano a vicenda in una specie di rancore insensato. Si apprestavano ad andare gli uni contro gli altri con intere armate. Ma le armate ormai in marcia, cominciavano d’un tratto a dilaniarsi per conto loro, le file si scompaginavano, i combattenti si scagliavano l’un contro l’altro, s’infilzavano e si sgozzavano, si mordevano e mangiavano a vicenda. Nelle città l’intera giornata si suonava a martello: si chiamavano tutti a raccolta, ma chi e per cosa chiamasse nessuno sapeva e tutti erano in allarme. Avevano abbandonato i più usuali mestieri, perché ognuno proponeva le sue idee, le sue correzioni e non potevano mettersi d’accordo. Qua e là gli uomini si assembravano a mucchi, convenivano insieme su qualche cosa… ma subito dopo imprendevano cose diverse da quelle che loro medesimi si erano dianzi proposte, si mettevano ad accusarsi a vicenda, rissavano e si scannavano… Cominciarono gli incendi, cominciò la fame… il contagio cresceva e avanzava…”

“I demoni danzano, impazzano/ da un estremo all’altro della Russia”, recitano i versi che Maksimilian Vološin, il grande poeta ucraino, scriveva nel 1920. In quei terrificanti turbini ghiacciati, in quei “venti di disordini, massacri e pogrom”, ravvisava la cappa di un passato impresso nel DNA nazionale, “il peso schiacciante delle età di piombo/ della Russia dei Maliuta [Maljuta Skuratov, il capo dei servizi segreti e delle “operazioni speciali” di Ivan il Terribile], degli Ivan e dei Godunov – predatori, oprichniki ,strtel’tsy , [le nuove élite dei servizi e delle forze armate, la nuova nobiltà] scorticatori di carne vivente”. Testimone delle atrocità della guerra civile, aveva denunciato il terrore bianco quanto quello rosso, senza fare sconti a nessuno: “Cos’è cambiato? /I simboli e la leadership? Dovunque, su ogni sentiero infuria la stessa identica bufera infuria dovunque”. La blasfema quanto profetica “equidistanza” in questa sua “concezione” di un persistente filo demoniaco nella storia russa gli era costato mezzo secolo di oblio ed emarginazione totale. Non fosse deceduto, appena cinquantenne, nei primissimi anni ’30, gli sarebbe costata ben altro.

Amano il gelo che viene dalla Siberia i demoni russi. Niente a che fare con gli elfi e gli altri sipritelli leggiadri, che popolano il Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare. Fossero estivi assumerebbero le sembianze di un nugolo di zanzare. Eppure non sono sempre stati così cattivi i diavoli russi. Possono anche essere simpatici, colti, charmant. Così come charmant, un grande incantatore, un mellifluo flautista, era apparso Putin nella memorabile intervista di quattro ore ad Oliver Stone. Era il 2017, giusto ieri. Cinque anni dopo, sembra aver perso ogni aura di simpatia, anche quella delle sua anime gemelle, sembra aver realizzato il miracolo di essersi inimicato tutti, aver compattato contro di sé America, Europa e tutta la Nato, compreso Erdoğan. Nessun leader russo del dopoguerra era riuscito a far riarmare anche la Germania (100 miliardi di euro appena messi in bilancio da un cancelliere socialdemocratico). Anche quelli che sono stati nel suo libro paga sono in imbarazzo. Davvero un genio, come continua a dire Trump.

 

Guardo in tv le immagini dei profughi che Putin evacua dal Donbass e accoglie in Russia. Anziani, donne, bambini. Poveracci, malmessi. E mi vengono in mente le immagini dei film di propaganda nazisti che denunciavano le persecuzioni, i massacri subiti dai cittadini di etnia tedesca ad opera dei Polacchi. E il lieto fine di quando vengono fraternamente accolti nel Reich. Servirono a giustificare l’invasione della Polonia che diede il via alla Seconda guerra mondiale. A brigante, brigante e mezzo, a genocidio, genocidio e mezzo. In un crescendo di brutalità e bugie. Dopo l’invasione circolarono foto e filmati di atrocità sanguinarie. Non è ancora del tutto chiaro se si trattasse di foto autentiche o taroccate, di documenti di massacri perpetrati dai polacchi a danno dei tedeschi o dai tedeschi a danno dei polacchi. Così come per anni nazisti e sovietici, che si erano divisi la Polonia, si palleggiarono per decenni, anche dopo la fine della guerra, la responsabilità del massacro a Katyn di cinquantamila ufficiali polacchi. La cosa certa è che i nazisti fecero, centuplicate, proprio quelle stesse atrocità che la loro propaganda attribuiva ai loro nemici. È un esercizio diffusissimo attribuire al prossimo quel che uno vorrebbe fare, o si appresta a fare, o magari ha già fatto. “Sei stato tu!”. “No, è stato lui a farmelo fare!”. Dostoevskij docet.

 

Guardo le immagini dell’esodo in direzione opposta, degli Ucraini in fuga dalla guerra. Donne, bambini, più giovani, forse più benestanti dei profughi che vanno verso la Russia. I servizi tv mostrano bambini all’adiaccio in rifugi improvvisati, aeroporti, stazioni. Altri bambini che in tristi stanze d’albergo allineano i pochi giocattoli che hanno potuto mettere in valigia, le automobiline, i soldatini. Mi fanno venire in mente che alla loro età ero profugo anch’io. In valigia i miei non mi avevano lasciato mettere nessun giocattolo, nemmeno i minuscoli soldatini di piombo. Venivamo, via mare, dalla Turchia. In Italia eravamo stati accolti. Stavolta nemmeno la Polonia o l’Ungheria hanno innalzato muri. Sono già centinaia di migliaia. I più fortunati sanno dove andare, hanno già parenti all’estero. Potrebbero diventare, si stima, 5 milioni. O anche più. Una catastrofe. Per la Russia, in spaventoso calo demografico da decenni, prima ancora che per l’Ucraina.

 

Il diavolo non è sempre brutto come lo si dipinge. Nell’immaginario russo non ci sono solo mostri, orchi, vampiri e lupi mannari, o demoni spaventosi. Tutta, ma proprio tutta la letteratura russa trabocca invece di diavoli, diavoletti, demoni, folletti, spiritelli. E alcuni sono intelligenti, colti, simpatici, persino amabili. Ci sono diavoli con corte di subordinati, diavoletti intenti, spesso in modo goffo, a compiacere il capo. Ci sono diavoli travet, burocrati. Come Il demone meschino di Sologub. Animato da un profondo senso di giustizia, con molte facce, è il brillante, accattivante, quanto sinistro Voland del Maestro e Margherita di Bulgakov. “Tutto sarà giusto” è il suo refrain preferito. È un nobile cavaliere venuto sulla terra per punire i malvagi, ristabilire la giustizia. Non per niente c’è chi vi ha visto un riferimento a Stalin. Ci sono poveri diavoli divertenti, diavoletti ingenui, mazziati e gabbati dagli umani, specie da donne che ne sanno una più del diavolo, come quelli musicati, sul racconto di Gogol, da Rimsky-Korsakov, nel Racconto di Natale o da Čajkovskij e nella deliziosa, allegrissima opera Gli stivaletti. Emma Dante e i suoi costumisti per l’Opera di Roma sono riusciti a rendere deliziosi anche gli incubi demoniaci dell’Angelo di fuoco di Brjusov, musicato da Prokofiev.

I demoni di Dostoevskij sono eleganti, saggi, colti, sanno di scienza e filosofia. Il diavolo sognato da Ivan Karamazov febbricitante, o quello che, nel racconto dentro il racconto, fa il Grande inquisitore, dicono cose plausibili. Sono ragionevoli. Sollevano domande profonde, a cominciare da quella assolutamente tremenda, senza risposta, sul perché Dio consente che si faccia del male ai bambini. Diavoli umani, troppo umani. Sono il doppio, il riflesso allo specchio della mente umana che lo evoca. Il demonio è la forza che vuole eternamente il bene e fa eternamente il male, dice di sé il Mefistofele del Faust di Goethe.

Malvagi, per Dostoevskij sono invece i Demoni corruttori che alla sua Russia sono stati inculcati dall’Occidente. Vecchia, brutta abitudine quella di demonizzare gli avversari. “Malfattori, corrotti, drogati, nazisti”, dice (e da che pulpito!) Putin della leadership ucraina. Hanno le mani lorde di un “genocidio” nei confronti della popolazione russa, insiste la propaganda. Sono ladri, e avidi. Sono burattini manovrati dall’America, dall’Europa e dalla Nato, che saremmo poi noi. Sono scappati con la cassa. Mancava che facesse notare che Zelenski è ebreo. Hitler invitava il “popolo tedesco” a difendersi dal genocidio ordito ai suoi danni, dai Bolscevichi, dai banchieri inglesi, dai capitalisti americani, dall’Ebraismo internazionale. Sorpresi che siano passati ai fatti? Con nazisti e genocidi non si tratta. Così come non si tratta, non si fanno patti col diavolo. Gli si può solo fare la guerra. Lo stesso discorso ovviamente vale nell’altro senso, per la demonizzazione di Putin.

 

Che parte avrebbero preso Gogol, Puskin, Lermontov, Cechov, Dostoevskij? Temo le parti della Russia, del Diavolo, con la sola eccezione certa di Cechov. È una delle ragioni per cui non mi piacciono i censimenti su chi critica Putin, chi non vuole pronunciarsi e chi invece sta con Putin. Sono portato a stare con quelli che dicono despota al despota. Meritano rispetto anche per i rischi che corrono. Qualcuno ci ha rimesso la pelle. Ma non mi piace che da un musicista come Gergiev si pretenda che si pronunci pro o contro. Avremmo forse dovuto bandire Von Karajan che non si dichiarò mai pentito di aver aderito nel 1933 al Partito nazionalsocialista, o pretendere che Šostakovič si pronunciasse apertamente contro Stalin? Dovrei smettere di leggere e citare Dostoevskij perché era disgustosamente antisemita? Barenboim dovrebbe smettere di dirigere Wagner?

Gogol risponde a un’amica che, disgustata dai “Terrori e Orrori” della sua Russia, vorrebbe andarsene, di non farlo, perché l’Europa è anche peggio. Le consiglia di restare, darsi da fare per riformarla. Come il suo Taras Bulba, Gogol l’ucraino odia quanto Gogol il russo i Polacchi, e i Lituani, e gli Svedesi. Molto più di quanto possano dispiacergli i Russi. Odia, ovviamente, anche Cattolici, Turchi, ed Ebrei. Anche Dostoevskij ce l’aveva con i Polacchi, con i Cattolici, e con gli Ebrei. Lo zar di tutte le Russia, è vero, lo aveva mandato in Siberia e l’avevano persino fucilato per finta. Ma tra due tiranni si finisce con lo scegliere “quelli che parlano la propria lingua”, come scrive Vasilij Grossman, a proposito del perché i Russi (e buona parte degli Ucraini) scelsero di stare con Stalin anziché con i Tedeschi, malgrado tutto quello che avevano subito dal potere bolscevico.

Di tutti i demoni russi, il più cattivo e insidioso, il più bugiardo, è quello della storia. L’Ucraina non esiste, se l’è inventata Lenin per vendersela ai Tedeschi in cambio della pace, dice Putin. Le cose sono un po’ più complicate. Se volete sapere quanto complicate, leggete il bel libro di Giorgio Cella, Storia e geopolitica della crisi ucraina (Carocci 2021). Se invece vi andasse di leggere un solo libro che vi racconti tutto, ma proprio tutto, sulla crisi ucraina suggerirei: Racconti di demoni russi, la splendida antologia curata da Andrea Tarabbia (Il Saggiatore, 2021).

 

Quest’articolo è stato pubblicato originariamente sul Foglio di sabato 5 e domenica 6 marzo.

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