Voto alle donne: perché ricordare
la figura di Anna Kuliscioff?

La lotta per il riconoscimento dei diritti civili e politici delle donne ha una lunga storia che affonda le sue radici nelle promesse incompiute della Rivoluzione francese, che si forma ma anche si svincola dalle rivendicazioni del movimento operaio, per affermare un precipuo punto di vista e bisogni negati da secoli. Il processo di ”inclusione” delle donne nel mondo della politica non può tuttavia dirsi a tutt’oggi ancora concluso.
La posizione della socialista Anna Kuliscioff a favore dei diritti delle donne e le lotte da lei compiute a partire dall’ultimo decennio dell’Ottocento sono al riguardo emblematici. Battagliera contro reazionari e conservatori, la “dottora dei poveri” non fu meno polemica contro lo sciovinismo dei compagni di partito o meno critica nei confronti di posizioni borghesi espresse da donne attiviste e intellettuali che, se da una parte erano contrarie al voto alle donne in nome di una pretesa “natura femminile”, dall’altra parte prevedevano invece un separatismo, privo di cooperazione.
Ricordare le posizioni di Anna Kuliscioff a settant’anni dal voto alle donne in Italia, significa non solo non dimenticare le battaglie di chi ci ha preceduto, bensì anche ammettere le diversità che da sempre hanno costellato l’orizzonte dei movimenti femministi e le teorie di genere da almeno tre secoli, a proposito del significato da attribuire all’uguaglianza e della differenza in nome della giustizia sociale e del rispetto fra esseri umani.

Le cause sociali del monopolio dell’uomo

«Come mai – mi dissi – isolare la questione della donna da tanti altri problemi sociali, che hanno tutti origine dall’ingiustizia, che hanno tutti per base il privilegio d’un sesso o di una classe?» Si tratta della domanda che la “Dottor Anna Kuliscioff, Medico” pose come incipit alla famosa conferenza, tenuta presso il Circolo Filologico Milanese il 27 Aprile 1890, dal titolo Il Monopolio dell’Uomo (1).

Tale domanda è di fatto paradigmatica dell’intera vita politica, dell’impegno intellettuale e dell’esperienza esistenziale di Anna Kuliscioff, che mai disgiunse l’analisi dei diversi fattori – economici, sociali e culturali – che continuano a determinare l’atavica convinzione di una presunta inferiorità della donna, dalla questione politica del riconoscimento della cittadinanza femminile. Molti studiosi positivisti del tempo – come il neurologo Paul Julius Möbius – tendevano a spiegare “scientificamente” l’inferiorità mentale e fisiologica della donna, confondendo attitudini culturalmente determinate dalla mancata educazione con presunte evidenze di “naturali” deficienze psichiche e fisiologiche, tali da comportare uno stato permanente di inettitudine. Tuttavia, molte di queste convinzioni e predizioni misogine erano contraddette in tempo reale, se non addirittura superate ormai da anni dalla realtà fattuale. Ne sono testimonianze le parole tronfie di Möbius, scritte a proposito di donne laureate in medicina, che a suo parere avrebbero avuto scarso futuro, così come argomenta nel saggio L’inferiorità mentale della donna, pubblicato nel 1900.

Più volte i medici si sono preoccupati della pretesa delle donne di essere ammesse allo studio della medicina. Forse non valeva la pena preoccuparsene. Se da un lato non si può negare che (…) le donne che esercitano la medicina, se debitamente guidate e invigilate, possono rendersi utili (…), dall’altro canto quanto più si va innanzi, tanto più l’idea del dottorato femminile va perdendo d’attualità. (…) Dunque, dal momento che tanto la medicina, quanto le stesse donne, hanno ben poco da guadagnare dallo studio medico femminile, la cosa è di poca importanza. (2)

Si sa invece che al giorno d’oggi le facoltà di medicina sono in gran parte frequentate da donne, con successo di voti e di carriera. Ma se riportate al giro di boa fra Ottocento e Novecento, mai affermazioni tanto arroganti e perentorie come quella sostenute da Möbius sembrano esprimere le ambivalenze, ovvero le difficoltà e i successi, che Anna – la “signora dottora dei poveri” – incontrò durante la sua carriera medica, oltre che politica. Da una parte, Anna dovette affrontare innumerevoli complicazioni burocratiche e un forte ostracismo accademico nel completare gli studi e potersi specializzare in ginecologia, tant’è che dovette spostarsi in diverse università (Torino, Berna, Napoli e Padova). Dall’altra parte, proprio grazie alla sua sensibilità, perseveranza e a un diverso sguardo di genere, Anna riuscì a scoprire le cause batteriche che determinavano le febbri puerperali, prevenendo la morte di migliaia di donne.

Le molteplici contrarietà e ostilità che Anna incontrò lungo il suo cammino furono dovute anche alla complessità e prismaticità della sua personalità che assommava diverse culture, conoscenze, visioni politiche, esperienze di vita. Era straniera, nata in Crimea col nome di Rozenštejn da una famiglia di origine ebraica, sposata Makarevič, si era poi data nuova vita col nome di Kuliscioff; era attivista nichilista, anarchica e poi socialista, in esilio e più volte rinchiusa in carcere; era madre singola, dottoressa in medicina, scienziata, giornalista, apprezzata per la sua raffinatezza e per il suo amore per le arti, promotrice di uno dei salotti culturali più influenti nella Milano della Belle Époque, nel suo appartamento sovrastante la Galleria Vittorio Emanuele. Appare dunque arduo potere ridurre Anna ad unum, tant’è che molti “apprezzamenti” del tempo nascondevano un certo imbarazzo, se non un’incredulità maschile: era stata definita “il miglior cervello politico del socialismo italiano”, ma anche la “medica chirurga russa, deliziosa bionda ‘che parlava come un uomo’”. Essere belle, intelligenti, autonome sembravano doti non assommabili in una donna.

La doppia origine dell’ingiustizia

Proprio a partire dalle sue esperienze di vita personale, scientifica e politica, Anna poteva avere uno sguardo più complesso sulle ragioni che causano il dominio maschile. La domanda, squisitamente filosofica, che pone all’inizio del suo discorso su Il Monopolio dell’Uomo è, infatti, quale sia “l’origine dall’ingiustizia”. Ma a differenza di teorici come Rousseau e Marx che rintracciavano le radici dell’ineguaglianza sociale nella proprietà privata o nello sfruttamento economico, Anna individuava piuttosto una duplice e correlata manifestazione del dominio maschile nel “privilegio d’un sesso o di una classe”. Il monopolio del maschio si concretizza dunque nell’assoggettamento della donna e nello sfruttamento economico.

Anna mira altresì ad indagare la genealogia di una millenaria esclusione della donna dal dominio politico, concependola come una questione squisitamente sociale, che come tale andava affrontata e risolta attraverso un diverso approccio alla politica istituzionale e all’azione militante. Anna è favore di una politica della presenza delle donne e del loro riconoscimento formale e sostanziale nei diversi ambiti pubblici, sia istituzionali che lavorativi. Sostiene altresì un’idea di giustizia sociale che non sia puramente redistributiva in termini stipendiali, ma che vada piuttosto a sviluppare le capacità di ogni singolo individuo, grazie ad un’educazione diffusa e ad azioni collettive che potessero portare ad un reale cambiamento sociale delle condizioni di sfruttamento in cui si trovavano allora a vivere lavoratori e lavoratrici. Le donne dovevano essere però subito riconosciute come cittadine a pieno titolo.

Al fine di elucidare meglio le posizioni di Anna in merito all’idea di cittadinanza femminile e al diritto di voto, cercherò di riassumere le principali tesi da lei sostenute negli scritti politici (3) a sostegno del suffragio universale, così come espresse soprattutto fra il 1890 e il 1914, quando la questione femminile diventa uno dei principali e più controversi temi del dibattito politico. Con la conferenza del 1890, Anna comincia infatti a riflettere, con dati alla mano, sulle ideologie maschili imperanti e sulla persistente condizione di sudditanza delle donne, recependo e sviluppando secondo un’ottica propria il dibattito internazionale, liberale e marxista, del tempo. I suoi interventi sul tema continueranno incessantemente fino al 1914, all’indomani della bocciatura in Parlamento dell’estensione Grande Guerra, che muterà per sempre l’orizzonte geo-politico mondiale e i precedenti assetti socio-economici, così come le tradizionali relazioni di genere e il significato del lavoro femminile.

Rivoluzionare la società, a partire da sé

A partire dalle sue esperienze come medico, studiosa e militante nel partito socialista, Anna sviluppa una precipua concezione del processo rivoluzionario in termini socio-culturali. Per un reale sovvertimento rivoluzionario della società, Anna ritiene che non sia soltanto necessaria una trasformazione delle condizioni materiali date sotto le leggi del capitalismo. Ritiene piuttosto che sia fondamentale una più profonda trasformazione della cultura vigente. I pregiudizi sessisti continuano, infatti, a persistere nelle teste sia di uomini che di donne, siano essi di origine borghese o proletaria. L’inferiorità psichica e fisiologica della donna è qualcosa che non esiste nella realtà biologica o materiale; essa è solo determinata da convinzioni e leggi patriarcali che continuano a ritenere la donna come “minorenne” tanto in famiglia (sotto la tutela del padre o del marito, nonostante sia lei ad allevare i figli), quanto nei luoghi di lavoro (nonostante sia responsabilmente impiegata come lavoratrice e professionista nell’industria, nelle arti, nell’istruzione e nelle professioni).

La politica e la legge continuano a perpetuare una tradizione che non esiste più nella realtà dei fatti, ma che pur tuttavia è mantenuta nelle sue modalità escludenti e discriminatori. Vi è dunque il paradosso secondo cui tanto più le donne acquistano nel lavoro e nella società visibilità, capacità e responsabilità, tanto meno hanno accesso alla sfera rappresentativa e decisionale della sfera economica e politica. È addirittura vietato per legge. Le donne ne sono consapevoli, ma la politica non lo vuol sapere. La consapevolezza del proprio valore non nasce soltanto dal rispecchiarsi nel frutto alienato del proprio lavoro che è pari a quello compiuto dall’uomo; nasce altresì dal confronto in dibattiti pubblici, dal comprendere come la propria condizione personale, lavorativa e sociale sia generalizzabile ad altre/i, ma soprattutto dal prendere coscienza del triplice livello di sfruttamento e segregazione, a cui sono soggette le donne: in famiglia, nel lavoro, in politica.

Come Anna scrive ne Il Monopolio dell’Uomo: «la donna, per leggi di economia politica (…), collaborando direttamente nella produzione delle ricchezze sociali, ha potuto diventar consapevole della sua equivalenza all’uomo» (4). L’acquisizione dei diritti politici e civili per le donne diventa pertanto il campo di battaglia per Anna, proprio per il riconoscimento del dato di fatto. Nonostante la donna sia produttrice, «creatrice delle ricchezze sociali» e abbia «gli stessi interessi economici degli uomini», tuttavia tali evidenti fattori sono negati nei processi politici, quando invece la legge dovrebbe «sancire il diritto acquisito.» (5) Il lavoro riconosciuto e retribuito “con equità per le donne“, contro ogni parassitismo e servitù volontaria, è dunque la conditio sine qua non per il cambiamento sociale, «sorgente vera del perfezionamento della specie umana.» (6) Essere rivoluzionare significa partire da una diversa consapevolezza di sé nei diversi ambiti pubblici e privati, secondo un processo di condivisione politica.

Con ciò, Anna mette alla prova quotidiana la pratica di quegli ideali di giustizia che professava a livello politico, sociale e professionale. La sua vita diventa un laboratorio creativo, atto a dimostrare la possibilità di costruire rapporti interpersonali equi e relazioni amorose capaci di convivere con la militanza e l’autonomia personale. Il legame con Turati diventa il barometro di questo esperimento esistenziale e politico – si vedano gli scambi epistolari (7) -, dove affetti e attivismo si intrecciano senza soluzione nella continua fiducia reciproca, ma anche nella soluzione di contrasti che nascono da diversi punti di vista. La libertà individuale è sempre corroborata dalla cooperazione collettiva verso un fine comune, nel rispetto reciproco.

La lotta per la cittadinanza femminile

Il dibattito sul suffragio universale rimanda a una questione rimasta aperta nel processo di unificazione nazionale. Lo Statuto monarchico riconosceva infatti laicamente da una parte la libertà di culto per tutte le religioni e minoranze, distinte dalla politica, mentre dall’altra sosteneva un diritto di cittadinanza alquanto restrittivo, aspetto per altro comune a molti Paesi europei del tempo: il suffragio era riconosciuto solo a una parte dei suoi abitanti. Gli altri erano esseri rimossi dallo spazio pubblico e dimenticati dalle decisioni politiche perché ritenuti come incapaci di intendere e volere. Esistevano persone – come gli uomini poveri/ analfabeti, così come le donne in generale – che erano considerati come esseri “parziali”, in quanto esclusi dai diritti di cittadinanza e di rappresentanza, nonostante il lavoro, il contributo al bene comune e l’apporto che davano al benessere collettivo.

Anna si prodiga fin dall’inizio delle sue attività in Italia per il riconoscimento degli esclusi dal regno della politica istituzionale, partitica e sociale, attraverso un persistente lavoro di intervento sociale, di pubblicistica, ma anche di convincimento dei suoi tentennanti compagni di partito. Ma mentre gli uomini otterranno nel 1912 il suffragio universale, le donne italiane dovranno attendere ancora molti decenni.

La posizione di Anna a favore del suffragio universale per le donne si muove su più fronti. Da una parte, Anna rimanda a un più ampio dibattito continentale che la poneva in costante dialogo con i massimi rappresentanti del socialismo internazionale – quali Friedrich Engels, August Bebel (noto fra l’altro per il saggio su La donna e il Socialismo (8) del 1879, testo molto influente al tempo) e Clara Zetkin –, ma che anche la distingueva dal dibattito femminista sul suffragismo allora in corso di tradizione anglosassone. Dall’altra parte, Anna si rivolge al contesto italiano in un incessante impegno svolto secondo due principali traiettorie: una rivolta all’esterno contro tradizioni reazionarie, ma anche contro  posizioni rappresentate da femministe liberali ed emancipazioniste, a partire da Anna Maria Mozzoni; l’altra diretta verso l’interno, ovvero contro certo sciovinismo riluttante, presente anche nel Partito Socialista.

Anna muove dunque una critica sociale inflessibile e intersezionale, modulata su più livelli che vanno dal pubblico al privato e viceversa. Vi è la critica di classe (proletariato vs. borghesia), la critica inter-femminile (proletarie vs. borghese), la critica di genere (donne vs. uomini), la critica politica (donne socialiste vs. uomini socialisti), la critica familiare (Anna vs. Filippo Turati), proprio a proposito del voto alle donne. Ciò che Anna si aspetta è «un po’ meno d’intolleranza dagli uomini e un po’ più di solidarietà fra le donne.» (9) Le donne dovranno imparare a bastare a se stesse. «La donna economicamente dipendente, avrà pur sempre un padrone.» (10)

La lotta per la cittadinanza alle donne, ovvero per il riconoscimento dei diritti civili e politici, riassume per Anna diversi convincimenti e azioni politiche, che si dispiegano entro una più vasta concezione dell’orizzonte della lotta economica di classe. Questa non viene tuttavia riduttivamente intesa come un mero conflitto contro i rapporti capitalistici di produzione, come spesso viene riduttivamente intesa da certi interpreti marxisti, bensì come una trasformazione generalizzata della società, a partire dalle determinazioni sociali e culturali. Ciò che rende unica Anna nel panorama nazionale è pertanto la poliedricità dei fronti sovrapposti attraverso cui si dispiega la sua battaglia politica, che è insieme morale, scientifica, sociale, economica e culturale, dove il caso italiano diventa parte di un più ampio orizzonte politico internazionale e parte delle strategie messe in atto dal movimento socialista, a fronte dello sviluppo del capitalismo industriale e dell’imperialismo bellico a livello mondiale.

Come scrive Anna, «La nostra battaglia è doppia: contro il capitalismo accanto agli uomini da una parte e dall’altra abbiamo una lotta immediata a sostenere che è differente da quella degli uomini.» (11) Anna mette qui bene in rilievo la specificità della dimensione di genere nelle rivendicazioni economiche e politiche, come nel caso della richiesta per protezione della donna in fabbrica, soprattutto quando gravida o puerpera. «Ma l’emancipazione della donna non potrà essere che opera della stessa donna» (12), rincalza Anna. Rispetto all’arena politica, Anna esorta pertanto le donne nelle loro diverse funzioni a prendere «la posizione che vi spetta» (13) «O schiave, siate cittadine! O femmine, sappiate esser donne!» (14). La libertà va conquistata e sostanziata. La proclamazione della libertà fatta dalla rivoluzione francese rimane in sé vuota e astratta, se le operaie continuano a essere oppresse non soltanto in rapporti economici fondati sullo sfruttamento capitalista, bensì anche sottomesse a un padrone nella vita familiare. La conquista della libertà deve essere concreta e sostanziale, a tutti i livelli di vita.

La controversia sull’emancipazionismo

Il concetto di emancipazione, ovvero il sottrarsi ad uno stato di schiavitù, è una delle parole chiave dell’illuminismo occidentale, di gruppi di liberazione, ma anche del movimento femminile/ femminista. Eppure, mai categoria fu tanto oggetto di polemiche e di disaccordi, proprio per la difficoltà di intendersi sul suo significato e le conseguenze che l’emancipazione può avere. La dura controversia fra Anna e Anna Maria Mozzoni ne è la prova.

In diversi interventi, Anna critica infatti il femminismo sostenuto da Mozzoni (che farebbe parte dell’”aristocrazia femminile”), poiché sarebbe viziato da un’idea classista di emancipazione. A parere di Anna, la posizione emancipazionista di Mozzoni sarebbe da una parte principalmente riferita alle donne borghesi che già godono di privilegi, mentre dall’altra sarebbe intesa come una forma di antagonismo competitivo nei confronti degli uomini. Pur criticando i fondamenti patriarcali della società, Anna intende promuovere l’emancipazione femminile, a partire da un processo di consapevolizzazione del lavoro svolto da donne operaie, industriali e artigiane, che in molti casi godono già di quell’indipendenza economica di cui le borghesi abbienti sono spesso sprovviste. Ma non solo. La promozione di battaglie politiche deve sempre prevedere la cooperazione fra donne e uomini, secondo la prospettiva socialista della lotta contro il capitalismo opprimente e in vista della costituzione di una società di eguali, che induca il cambiamento della cultura vigente e una diversa trasmissione dei saperi.

Come Anna scrive nel 1897 in “Il Femminismo”:

L’oppressione dell’uomo e l’oppressione dello sfruttatore sono due oppressioni di natura ben diversa (…). Mentre le donne delle classi medie sono costrette alla concorrenza vitale a conquistare le professioni monopolizzate finora dal sesso maschile, l’operaia ha già conquistato, o piuttosto ha subito, da gran tempo il diritto di essere sfruttata al pari dell’operaio, e per effetto dell’evoluzione dell’industria si trova già di fronte all’uomo in condizioni di indipendenza molto maggiore che non la grande maggioranza delle donne di altre classi sociali. (…) Se la donna borghese sente soprattutto il bisogno di emanciparsi dall’oppressione del maschio e di rendersi economicamente indipendente in concorrenza con esso, la donna proletaria, più che l’oppressione maschile, ha bisogno di scuotere il giogo del capitalismo, e di concorrente dell’uomo diventa una compagna di lotta, sul terreno della lotta di classe. (15)

Dagli scritti di Anna, si può dunque evincere come la sua idea di “rivoluzione” parta dalla convinzione che per cambiare lo status quo, non serva soltanto abbattere i rapporti produttivi vigenti, bensì cambiare le relazioni interpersonali, le basi sociali e i riferimenti culturali su cui si fonda il dominio maschile. La politica agita nella società e nelle istituzioni, così come l’economia predatoria sviluppata dal capitalismo, sono lo specchio riflettente non solo del dominio di classe, bensì del potere patriarcale pervasivo. Riconoscere il voto alle donne significa dare inizio a ben più profondi cambiamenti di mentalità, radicate in immaginari psichici. La politica istituzionale, parlamentare e governativa, deve sapersi far carico del cambiamento in nome dell’equità sociale. Ma questi saranno i compiti che solo uno Stato democratico e inclusivo potrà assumersi. I governi del tempo – fra fine Ottocento e inizio Novecento – si fondavano piuttosto su privilegi di classe e su una cittadinanza non rappresentativa del Paese che stava allora crescendo e affrontando con difficoltà i conflitti seguiti all’unificazione nazionale.

Le buone ragioni per i diritti politici e civili alle donne

Il dibattito sul suffragio universale subisce una svolta, soprattutto a partire dal 1910, quando si profila all’orizzonte la votazione di una legge che avrebbe dovuto estendere il numero degli aventi diritto. Anna segue con puntualità tutti i dibattiti parlamentari, grazie alla rappresentanza di Turati, allora membro del Parlamento, quando il Partito Socialista riformista si veniva a scontrare con le proposte di governo e i nuovi venti di guerra, a cominciare dall’incipiente intervento armato in Libia.

La questione principale dibattuta in Parlamento riguardava la richiesta di estendere il diritto di voto a tutti gli uomini maggiorenni, mentre risultava assai problematica la proposta di riconoscere il suffragio anche alle donne nelle votazioni sia amministrative che politiche. La posizione di Anna era assolutamente chiara al riguardo; tentennante era invece Turati. Ne nacque una controversia “intra-familiare”, dai risvolti pubblici e politici. L’“uomo nuovo” era di là da venire, anche nel Partito Socialista, ma aveva ampi spazi di miglioramento.

Di tale querelle si ha notizia negli interventi su Il Voto alle Donne, Polemica in Famiglia (per la propaganda del suffragio universale in Italia) – pubblicata per gli Uffici della Critica Sociale nel 1910 a firma di Turati e Kuliscioff -, che raccoglie a mo’ di botta e risposta un franco scambio di idee fra i due. La posizione di Anna si articola secondo due livelli di analisi politica, distinti ma interagenti: da una parte la critica è rivolta contro i detrattori interni al partito socialista, mentre dall’altra parte riguarda il Primo Ministro Giolitti che cercava nel suffragio universale le ragioni per un ulteriore rafforzamento del suo mandato governativo, escludendo però ancora una volta le donne.

Le obiezioni sostenute in generale dai parlamentari contro il suffragio universale erano molte, anche se spesso scontate: “panalfabetismo, l’ignoranza delle masse incoscienti; il pericolo clericale; la inanità di una campagna destinata all’insuccesso, perché non sentita nel paese.” Nello specifico, le perplessità avanzate contro l’estensione del voto alle donne da parte di militanti socialisti acquistavano invece venature di tipo sessista e paternalista: le donne sarebbero state reazionarie ed emotive, quindi poco affidabili per le battaglie della sinistra.

Dalla minuziosa e dettagliata analisi sviluppata da Anna con grande capacità analitica e competenza metodologica da vera scienziata qual era, emerge la capziosità e pochezza degli argomenti addotti da molti parlamentari. Non ci sono, infatti, spiegazioni razionali che possano davvero motivare la loro ostilità o divieto, se non interpretati alla luce di logiche di potere, miranti a mantenere il “privilegio maschile del voto”, perpetuando un sistema di monopolio dell’uomo. Anna vede pertanto in questa posizione misogina «uno spreco di energie benefiche, nell’interesse della collettività tutta quanta.» (16)

Anna non riesce davvero a comprendere quale possa essere il motivo che giustifichi, ad esempio, l’attribuzione del voto a maschi analfabeti, ma non a donne, che hanno spesso la stessa condizione lavorativa, oltre che sociale, o sono magari istruite. Anche l’obiezione secondo cui il mancato riconoscimento sarebbe dovuto al fatto che le donne «non fanno il soldato», è totalmente privo di senso, dal momento che le donne, osserva Anna, «fanno i soldati».

Ammantando pregiudizi maschili sotto argomenti politici, anche Turati riteneva che il suffragio femminile fosse “un’incognita pericolosa”. Anna ribatte viceversa che era viceversa necessaria «un’agitazione attiva per il suffragio universale ‘senza distinzione di sesso’. Perché la lotta per l’emancipazione economica del proletariato – uomini e donne – è essenzialmente una lotta politica, e sulla conquista della forza politica reale si fonda l’ascensione del proletariato verso l’avvenire redentore.» (17) Il socialismo non può essere tale se non nell’unione cooperativa fra esseri umani, uguali in dignità e rispetto, ovvero nella collaborazione alla pari fra uomini e donne. Il riferimento a un “avvenire redentore” promesso dal socialismo rimanda altresì alla tradizione escatologica ebraica (della cui tradizione rimane una qualche traccia in certe affermazioni di Anna), secolarizzata e assimilata nell’idea di una giustizia sociale che può essere conseguita su questa terra.

Inutile dire che a seguito dell’alterco in famiglia e degli argomenti addotti, Anna riuscì alla fine a convincere il titubante Turati e altri parlamentari socialisti a proposito delle buone ragioni per il sostegno del suffragio universale femminile. Ma non ci fu verso di fare passare un emendamento a favore di questa posizione.

Il dibattito parlamentare sul suffragio universale

Nella seduta del 14 maggio 1912, il suffragio universale maschile fu concesso “sotto certe condizioni” dal Parlamento del Regno d’Italia, con la legge n. 666 del 30 giugno 1912, sotto la presidenza del quarto governo Giolitti. Potevano votare tutti i cittadini maschi che avessero compiuto 30 anni o se – a partire dai 21 anni –  avessero un reddito di almeno 19,20 lire, o la licenza elementare o avessero compiuto il servizio militare.

Nella stessa seduta, gli onorevoli socialisti avevano proposto un emendamento per l’estensione del voto alle donne, adottando come motivazioni argomenti pressoché identici a quelli sostenuti da Anna (parità economica, capacità intellettive, impegno politico, presenza nella società, responsabilità familiari), come si può evincere dal resoconto degli Atti Parlamentari della Camera dei Deputati, Legislatura XIII del Regno d’Italia, Tornata del 14 maggio 1912. L’arringa fu sostenuta dall’Onorevole Treves, a favore dell’emendamento che aveva presentato assieme ai colleghi socialisti Turati, Canepa, Rondani, Giulietti, Agnini e Pescetti. Si chiedeva «Al primo comma di sostituire: ‘Sono elettori tutti i cittadini italiani maggiorenni senza distinzione di sesso.»

Il dibattito sul voto alle donne fu ripreso nella seduta del 15 maggio 1912, dove veniva tra l’altro presentata una petizione della «Signora Ersilia Majno (…) con moltissime firme per chiedere che sia concesso il voto alle donne.» A questo punto l’onorevole Mirabelli (unitamente a Treves, Turati e Sonnino) presentò un emendamento all’art. 13 della legge, affinché si riconoscesse perlomeno il diritto di voto amministrativo alle donne. Ma neppure tale tentativo fu coronato da successo, anche a causa della strenua opposizione sostenuta dal Presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno Giolitti che, da quanto si evince dal verbale della seduta, riteneva che:

Mi credo in dovere di ripetere ben chiaramente che il concedere ora il voto alle donne equivarrebbe a fare un tale salto nel buio, che qualunque Governo sarebbe obbligato a non dar seguito alla riforma elettorale. Non è possibile, nelle condizioni attuali d’Italia, proporre sul serio che si dia il voto a sei milioni di donne senza aver fatto nessuno studio sulle loro condizioni, senza essersi resi ragione delle conseguenze che potrebbe avere una simile deliberazione. (Benissimo! Bravo!) (18)

E per finire, l’onorevole Domenico Ridola ricorda come ulteriore argomento contrario: «Per le donne non sarà un vantaggio lo strapparle al santuario dilla famiglia, al mistico tempio dove noi le adoriamo per trasportarle nella prosa e nel fango della vita amministrativa e politica. Voci. Basta! basta! ai voti!» (19)

Inutile ricordare che il verdetto del 15 maggio 1912 fu negativo: la Camera, con votazione nominale, respingeva l’emendamento «Hanno diritto di voto le donne», alla presenza di 263 votanti, con 48 sì, 209 no e 6 astenuti.

Nonostante l’intento proclamato, Giolitti non mantenne tuttavia la promessa di una graduale acquisizione dei diritti per le donne (prima quelli civili e poi quelli politici). Infatti, pur avendo nominato un’apposita commissione per la riforma giuridica del Codice Civile, di fatto rimandò la trattazione della questione sine die, fino a quando l’acuirsi della crisi internazionale e la fragilità del suo governo resero impossibile ogni avanzamento della proposta. Le donne dovranno ancora aspettare tre decenni… La “grande” riforma elettorale di “grande” aveva soltanto la delusione e la perseverante esclusione. Non implicava però certo la perdita di fiducia per il conseguimento di un suffragio che fosse davvero universale.

Battaglie con finale incompiuto

In alcuni suoi interventi, Anna ritornerà sulla sconfitta parlamentare, ma non solo per comprenderne le ragioni, bensì per prospettare nuove azioni politiche. In un articolo pubblicato il 2 febbraio 1913 sul foglio La difesa delle lavoratrici, Anna scrive sarcasticamente che: «Ormai l’Italiano per essere cittadino, non ha che una sola precauzione da prendere: nascere maschio.» Si sta intanto preparando la campagna elettorale per le nuove votazioni nazionali. Anna si rivolgerà ancora una volta alle donne, spronandole a intervenire nei comizi a far sentire la propria voce, a «voler e saper lavorare per il socialismo», per i propri diritti, ma anche per la propria dignità.

Le battaglie di Anna per il suffragio femminile e per la giustizia sociale, combattute con tenacia fino alla sua morte, avvenuta nel 1925 con l’incipiente violenza fascista, non furono purtroppo vittoriose. Furono spezzate dall’affermazione di regimi totalitari e da eventi epocali. Le speranze furono rimandate alla seconda metà del Novecento. Ci vollero molti decenni e un’altra guerra mondiale prima che fosse riconosciuta – perlomeno sotto il profilo formale – la piena cittadinanza alle donne.

Nonostante la sconfitta immediata, la profezia di Anna si è tuttavia avverata: il XX secolo è stato il secolo delle donne e di una rivoluzione nelle relazioni di genere, ancora in corso.

In Italia si giunse al diritto di voto – amministrativo e politico – solo nel 1946. Ma nonostante la costituzione repubblicana fosse entrata in vigore nel 1948, molte rimasero le preclusioni: solo nel 1963 le donne furono ammesse a tutti gli uffici pubblici, dal momento che prima erano escluse dalla magistratura. Fino al 1968 l’adulterio (perlopiù femminile) era considerato un reato; fino al 1981 era riconosciuto dal codice penale l’attenuante per il delitto d’onore; fino alla riforma del diritto di famiglia, avvenuta nel 1975, la donna non aveva alcuna co-responsabilità sui figli, dal momento che la patria potestas era esercitata solo dal padre/ marito. Solo nel 1975, grazie a una direttiva della Comunità Europea, fu asserito il principio della pari retribuzione per lo stesso lavoro compiuto da donne e uomini, una questione per il quale su cui si Anna era battuta fin dalla fine Ottocento. Tuttavia persistono ancora sperequazioni salariali e diversificate forme di discriminazione per le donne, poiché tali conquiste si rivelano spesso riconoscimenti più formali che sostanziali, lasciando spazio a disparità reali. E sappiamo ora che tanto più le donne rivendicano la libertà di decidere sulla propria vita, cercando di crearsi un’altra esistenza nella fine di un legame distorto, tanto più viene agita contro di loro una brutale forza fisica che porta spesso al femminicidio.

Il lascito di Anna, la sua ricerca di giustizia, di verità e di parità, che partiva dalla vita quotidiana per giungere alla sfera lavorativa e alla politica rappresentativa, continua a rimanere incompiuto. Sta nella nostra vita di tutti i giorni e nella responsabilità delle nuove generazioni proseguire in modo creativo e proficuo un impegno civile volto alla trasformazione sociale, potenziando le capacità di ciascuno nell’interesse della collettività, «verso nuovi lidi», come recitava il titolo di un intervento di Anna del 1913. Si tratta degli spazi della pace, della prosperità e del rispetto fra uomini e donne, anche quando si profilano all’orizzonte i tempi bui di guerre imminenti.

Note:

(1) Kuliscioff, “Il Monopolio dell’Uomo”, in A. Kuliscioff, Anna Kuliscioff. Scritti (1878-1914), Fondazione Anna Kuliscioff, Milano, 2015, pp. 34.

(2)J. Möbius, L’inferiorità mentale della donna, Einaudi, Torino, 1978, p. 17.

(3) Si farà di seguito principalmente riferimento agli interventi raccolti dalla Fondazione Anna Kuliscioff in Scritti, cit.

(4) Kuliscioff, “Il Monopolio dell’Uomo”, cit., p. 39.

(5) Kuliscioff, “Sentimentalismo nella questione femminile”, in Critica Sociale, 1892, n. 9, ripubblicato in Scritti, cit., p. 63.

(6) “Il Monopolio dell’Uomo”, cit., p. 40.

(7) Turati e A. Kuliscioff, Carteggio, raccolto da A. Schiavi, a cura di F. Pedone, Einaudi, Torino, 1977, voll. 6.

(8) Bebel, La donna e il socialismo, Kantorowicz, Milano,1892.

(9) Kuliscioff, “Il Monopolio dell’Uomo”, cit., p. 57.

(10) Kuliscioff, “Sentimentalismo nella questione femminile”, cit., p. 65.

(11) Kuliscioff, “Proletariato femminile”, 1892, in Scritti, cit., p. 74.

(12) Ibidem.

(13) Kuliscioff, “Alle donne italiane. Lavoratrici, Professioniste, Madri di Famiglia!”, 1897, in Scritti, cit., p. 94.

(14) Cit., p. 100.

(15) Kuliscioff, “Il Femminismo”, 1897, in Scritti, cit., p. 106.

(16) Kuliscioff, “Il suffragio femminile alla Camera”, 1913, in Scritti, cit., p. 190

(17) Kuliscioff, “Suffragio universale?”, in Critica Sociale, 1910, in Scritti, cit., p. 144-145.

(18) Giolitti, Atti Parlamentari della Camera dei Deputati, Legislatura XIII, Tornata del 14 maggio 1912, p. 19401.

(19) Ridola, in op. cit., p. 19404.

Il presente articolo riporta la relazione presentata durante il convegno su “Anna Kuliscioff e Angelica Balabanoff. La guerra, il lavoro e la cittadinanza delle donne, organizzata dalla Fondazione Kuliscioff, Milano, 27-11—2015.

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