Tre Stati, donne, neri e latinos. Le ragioni del successo di Barack

CHICAGO – Macchina elettorale contro tentativo di scoraggiare il voto. Se volessimo guardare la vittoria di Obama dal punto di vista di come i due partiti si sono fronteggiati, quel che vedremmo è una battaglia all’ultimo voto nei tre Stati chiave della nottata – Florida, Virginia e Ohio – condotta in due modi diversi. Gli uomini e le donne del presidente a cercare di individuare in maniera millimetrica in quali strade, in quali gruppi e in che contee si potessero racimolare voti marginali, rosicchiare qualcosa.

I governatori e Segretari di Stato repubblicani cercando per mesi di fare in modo che meno cittadini appartenenti alle minoranze andassero a votare. Con leggi che complicavano e cambiavano le regole, restringendo orari e possibilità per votare in anticipo per quelle persone che da anni ormai vanno a votare di domenica.

O ancora rendendo complicate le operazioni di voto e facendo in modo di creare file di ore ai seggi. Per tutta la notte, fino a pochi minuti prima della proclamazione, la campagna Obama ha continuato a mandare messaggi: “chi è in fila voti, non tornate a casa”. Ha funzionato. Se guardiamo ai risultati di Ohio, Virginia e Florida, vinti da Obama per un soffio, scopriamo quanto abili siano stati quelli del campo Obama e quanto sbagliato fosse il calcolo repubblicano. La precisione e il messaggio di Obama hanno prevalso in tutte le contee chiave, quelle che si tenevano d’occhio e che si sapeva essere la chiave di volta.
Un’altra faccia della vittoria è la mobilitazione delle diverse constituencies: donne, latinos, neri hanno preferito Obama. I messaggi, anche questi, individuati con precisione hanno colpito nel segno. La regolarizzazione dei giovani senza documenti, la campagna contro l’estremismo sui temi etici dell’aborto e della contraccezione di alcuni candidati repubblicani al Senato. Tutti sconfitti.

La composizione della coalizione Obama vince perché è lo specchio dell’America di domani. Nelle città e sempre meno raro incontrare coppie miste che faranno figli come Obama e molto più misti ancora: asiatico-ispanici, ispanico-caucasici e via dicendo. Ed è sempre più normale incontrare coppie omosessuali, magari con un passeggino. Nell’urna questa America che guarda avanti si ritrova anche negli esiti dei referendum: quattro su quattro a favore del matrimonio omosessuale, uno sui diritti degli immigrati.

O negli eletti democratici come la prima senatrice apertamente lesbica della storia Usa, Tammy Baldwin in Wisconsin. E più in generale su una pattuglia femminile in Congresso che cresce. Obama parla a quell’America che non è necessariamente più di sinistra, ma contemporanea, vuole diritti per sé e chiede di sentir parlare di riscaldamento del pianeta e cerca politiche che affrontino il problema (una piccola ovazione quando il presidente ha finalmente nominato il tema nel suo discorso).

E sa lavorare per tenerla assieme, proporle un’idea di futuro. E poi fare in modo di portarla alle urne con le tecniche più raffinate del micro-targeting e della psicologia applicata alla politica. Così si vincono le elezioni. Per riuscire a trovare compromessi sul deficit o sull’immigrazione – due cose che l’elettorato chiede – serve invece l’arte del compromesso e la bassa cucina politica. Nei primi quattro anni il presidente non ha saputo praticare nessuna delle due.

I prossimi quattro potrebbero essere più difficili o semplici. Il partito repubblicano è in pezzi e la sua ala dura malamente sconfitta. Potrebbe reagire con rabbia, rivolgendosi al passato, come nel 2010 con il Tea Party, oppure scegliere la strada del compromesso, almeno sui temi etico-sociali. Allora sarà competitivo e potrà rappresentare l’America che cambia. Altrimenti dovrà solo cercare di non farla votare. Ma dopo stanotte sappiamo che è sempre più difficile.

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