Questo malanno non vi riguarda più di tutti?

Il 14 dicembre il governo Berlusconi non è caduto. Guardo camionette della polizia incendiate da barricaderi senza progetto, politici che spiegano che ciò che è avvenuto in parlamento è la democrazia, una vignetta satirica che ritrae Bersani mentre fa il segno della vittoria e proclama «Scongiurate le elezioni anticipate!» e mi chiedo se assisto all’inizio di un vero regime|. Sono scettico riguardo alla tesi per cui la conferma di misura del governo prelude a una sua paralisi, caduta in tempi brevi ed elezioni che non lo riconfermerebbero. Dobbiamo piuttosto chiederci come è stato possibile che dentro una democrazia moderna sia emerso un fenomeno come Berlusconi, caso unico fra tutti i leader del mondo democratico.

E soprattutto dobbiamo darci una risposta. Per mestiere insegno filosofia politica ma non penso che la risposta vada cercata nella politica. Spiegare il fenomeno Berlusconi con gli errori tattici dei suoi oppositori è come spiegare l’ascesa popolare di Hitler con gli errori dei politici della Repubblica di Weimar. Bisogna mettere in campo altre variabili, che vanno al di là della «politica politicante». Non a caso da qualche giorno si risente parlare della famosa «questione morale» che Berlinguer 30 anni fa già diagnosticava come il cuore del problema italiano. Hanno cominciato a evocarla Roberta de Monticelli e Vito Mancuso fra gli altri, ma il discorso è appena cominciato.
Noi non ci spieghiamo proprio nulla di quello che abbiamo di fronte se non ci spieghiamo perché mai nella società italiana non si sono attivati quegli anticorpi che in qualunque altra società democratica avrebbero bloccato l’ascesa politica di Berlusconi, se non ci spieghiamo come mai una maggioranza cospicua del paese è entrata in sintonia con la sua grandeur di cartapesta e continua a vivere, parafrasando un grande scrittore americano contemporaneo, sul ciglio di vasti orizzonti di vergogna. Ho scritto e rivendico l’idea che un giorno gli attuali elettori di Berlusconi nasconderanno ai loro figli e nipoti di averlo fatto, così come col fascismo i nostri padri a denti stretti ammettono che «a quel tempo tutti lo erano, fascisti». In queste righe voglio partire da un’osservazione e rivolgere una domanda scomoda agli amici cattolici.

L’osservazione è la seguente. Una parte della peculiarità politica della democrazia italiana è il peso, incomparabile rispetto a ogni altro contesto democratico, esercitatovi da una micro-illegalità diffusa che possiamo chiamare «disobbedienza incivile». Se mettiamo insieme il numero di persone «non a posto» sul fronte degli abusi edilizi, dell’evasione fiscale (Iva compresa), nonché della elusione previdenziale connessa al lavoro in nero, raggiungiamo facilmente i milioni di elettori. La competizione democratica è inquinata da una domanda politica di «mano leggera», se non di «impunità», che sale proterva da questi strati sociali – un tempo baluardo di un anticomunismo reso obsoleto dalla caduta del Muro e oggi non a caso ancora rispondenti al riflesso condizionato della parola «comunismo».

Non ci sono paragoni  

Ovunque nel mondo democratico l’illegalità diffusa in questi strati sociali –che spesso ne dipendono per la sopravvivenza, come i bottegai di un commercio al minuto, di un microartigianato, di una microimprenditorialità che senza evasione scomparirebbe – sarebbe materia da tribunali e da guardia di finanza.
Ovunque ci sarebbe una vera conventio ad excludendum da parte di tutte le forze politiche, perché la forza dell’opinione pubblica brucerebbe elettoralmente una forza politica che corteggiasse la disobbedienza incivile. In Italia invece la domanda di impunità crea mercato politico. Basta che una forza politica si mostri ricettiva nei suoi confronti, che crea un gioco concorrenziale perverso. Nessuno in Italia può colpire veramente gli strati sociali che adottano questi comportamenti senza compiere quel suicidio politico cui si consegnerebbe un politico texano che volesse rimettere in questione la pena di morte.
Per chi votano in maggioranza gli strati sociali in cui questi comportamenti sono più diffusi? Io non corro per cariche politiche e quindi posso permettermi a questo punto la seguente affermazione: questo è un paese corrotto, comparativamente più corrotto di ogni altro paese suo naturale termine di paragone, e l’élite politica lo rispecchia in pieno. Bisogna andare infatti in realtà politiche molto lontane, e il cui rapporto con la democrazia è molto tenue, come la Russia degli oligarchi, per trovare l’eguale – e Berlusconi è il leader più spregiudicatamente in sintonia con questo degrado in primo luogo morale, a cui aggiunge il condimento di un satirismo folcloristico.

Vengo quindi alla vera domanda, quella scomoda e importuna. Perché questa costellazione morale,ben prima che politica, ha trovato radici nel nostro paese e nessuna modernizzazione l’ha scalfita più di tanto? E dove sta la «scomodità» di questa domanda? Fatemelo dire sotto forma di un titolo che i titolisti mai mi passerebbero: «Dalla vendita delle indulgenze al bunga-bunga: 500 anni di vita pubblica a egemonia cattolica». Ditemi, amici cattolici di buona volontà, cosa c’è di non vero. Un nordeuropeo come Lutero 500 anni fa si scandalizzava per il mercato delle indulgenze tenuto sulla piazza di San Pietro, oggi lo stesso visitatore «dal Nord» avrebbe solo un più ampio ventaglio di scelte, dalla campagna acquisti rivolta ai «rappresentanti del popolo» perché passino a sostenere il governo, alla nascita di quello che Luigi Ferrajoli ha chiamato un corpus iuris ad personam, al bunga- bunga con la «nipote di Mubarak».

Che si tratti di vita pubblica non c’è dubbio: bisogna arrivare a pagina 10 dei giornali per trovare una notizia che non riguardi qualcosa del genere. E l’affermazione che questo non sia un paese di vaste masse liberali e sparute minoranze cattoliche non mi sembra dover richiedere lunghe dimostrazioni. Dunque un corno del problema sicuramente sta lì, senza con ciò escludere che ce ne siano anche altri. Non è una domanda «anti-cattolica», per carità. Ci sono fior di paesi a egemonia cattolica, mono confessionali quanto il nostro, che non conoscono nulla che possa avvicinarsi a Berlusconi. L’Irlanda, la Spagna, il Portogallo, l’Austria sono paesi profondamente e «indivisamente» cattolici. Dove sono le tracce di una degenerazione della vita pubblica comparabile alla nostra?
Dunque il germe che fornisce la sua cifra specifica alla vita pubblica italiana deve avere qualcosa, non tutto, ma qualcosa a che fare con il cattolicesimo italiano. Che cosa? Qui giriamo la domanda agli amici cattolici, non fosse altro perché sono più informati, senza che per questo abbiano ad adontarsene. Se questo fosse un paese diverso, con una maggioranza e una gramsciana egemonia poniamo protestante, oppure ebrea, oppure marxista, la domanda «come è stato possibile?» sarebbe depositata di fronte ad altri usci. Stante il paese che è, non possono meravigliarsi, gli amici cattolici, di essere i «primi destinatari» di questa domanda.

Il carisma dell’ufficio  

Nessuno meglio di Alberoni ha messo a fuoco quell’aspetto della cultura pubblica italiana che ha chiamato carisma dell’ufficio, un aspetto che proviene dall’ethos cattolico italico, a sua volta segnato dalla presenza secolare del papato sul territorio nazionale1. Partendo dalla celebre analisi che Robert Bellah ha proposto delle cinque forme di religiosità operanti in Italia2, Alberoni mette in luce il carattere tutt’altro che armonico, ma di tensione, fra il tono di fondo particolaristico della religiosità popolare e la religiosità cattolica «ufficiale».

La religiosità cattolica ufficiale ha sempre cercato in Italia di sostituirsi al religious ground bassparticolaristico. Il modo in cui questo processo si è dispiegato ha soprattutto a che fare con la tensione fra la spontaneità del carisma e le forme della sua istituzionalizzazione e anche con il combinarsi di una forte egemonia culturale cattolica con la presenza politica del papato sul territorio italiano – elemento questo che ha impedito l’opera di mitigazione degli effetti della cultura politica «curiale» che in altri paesi, pur cattolici, avveniva a opera delle aspirazioni autonomistiche nei confronti del potere ecclesiale romano. I numerosissimi santuari che si incontrano in tutto il territorio del nostro paese sono il sedimento, il precipitato di questa dialettica fra una religiosità popolare a sfondo essenzialmente carismatico – orientata all’esemplarità salvifica di un santo o un taumaturgo locale, da San Francesco a Padre Pio – e del sempre rinnovato successo che la religiosità cattolica ecclesiale ha avuto nel riassorbire e riprendere queste spinte religiose spontanee. Ma dietro questo successo Alberoni fa vedere come si sia celata un’insidia: l’idea, tutta italo-cattolica, secondo cui la salvezza e la grazia possono essere in realtà dispensate soltanto dall’istituzione ecclesiale e solo apparentemente, ingannevolmente, possono provenire dal contatto col carisma di un santo non ancora «canonizzato», non ancora inglobato e ufficializzato dall’istituzione.
Acutamente Alberoni riporta la questione ai suoi termini originari: può «il sacerdote simoniaco, assassino, corrotto, confessare, assolvendolo o condannandolo, l’uomo più giusto e più santo di lui»? Mezza Europa, quella protestante, rispose «no». L’Italia ha sempre risposto «dove è il problema»? La cultura politica di questo paese ruota attorno alla risposta positiva a quella domanda e la sua storia interna è la storia della laicizzazione,ma non del superamento di questo schema. In altri termini, diventano laiche le istituzioni certificanti e l’oggetto della certificazione, ma non il primato della certificazione burocratica sulla sostanza.
Ma torniamo al sacerdote corrotto che istituzionalmente è nella posizione di giudicare un giusto. Quando affermo che la cultura politica italiana contemporanea ha soltanto laicizzato,ma non rimesso in questione, tale modello intendo dire che si è avuta in realtà una generalizzazione di questo schema di fondo. La domanda, adesso laica, se un politico di partito, un uomo non di curia ma di segreteria, possa selezionare le candidature di uomini che valgono più di lui, se un ufficiale «di carriera» che pensa soltanto ad andare avanti nei gradi possa comandare uomini più valorosi di lui, se un commissario di concorso possa giudicare candidati scientificamente più affermati di lui, continua a ricevere una risposta, nelle pieghe della cultura politica del paese, che è prevalentemente positiva. Per questo funziona la cultura della raccomandazione e del nepotismo, altrimenti non funzionerebbe. Il carisma dell’ufficio inoltre è una forza culturale erosiva dell’ethos democratico perché oltre a mortificare il merito va a intaccare il senso di entitlement a giudicare dei superiori, in qualunque ambito organizzativo, istituzionale o direttamente politico.
È una forza culturale che fiacca gli anticorpi critici, delegittimando chi obietta, bollando chi denuncia l’ingiustizia come più irritante di chi commette l’ingiustizia, schermando l’élite istituzionale – sia essa ecclesiale, politica, militare, accademica – dal giudizio critico di quanti non fanno già parte del suo vertice, regalando impunità a chi è in posizione di autorità: provate a tradurre accountability in italiano. L’italo-cattolico carisma dell’ufficio è una delle forze che ha neutralizzato gli anticorpi che altrove a loro volta avrebbero neutralizzato Berlusconi. La nostra cultura pubblica è rimasta sostanzialmente quella della vendita delle indulgenze, quella appunto in cui nessuno si scandalizza se un prete corrotto assolve peccatori più giusti di lui. Ora è il conflitto di interesse che non scandalizza nessuno, e il lodo Alfano nemmeno, e la compravendita dei peones centristi ancora meno.

Un marchio unico per l’Italia

Che fare? La conseguenza di questo ragionamento è che come la legge non può da sola raddrizzare una volontà politica perversa o scellerata, così la politica non può da sola e soprattutto nei suoi tempi brevi raddrizzare una morale pubblica che di per sé è corrotta. Può solo lanciare un messaggio e gettare dei semi. Questo paese sprofonderà nella decadenza se non fa i conti con la sua parte corrotta e cialtrona, e non se ne libera. Un tempo i partiti attivi nella resistenza trovarono un comune denominatore nell’antifascismo e crearono un «arco costituzionale» entro cui poterono articolarsi le differenze nel comune rispetto della democrazia.

I tempi sono cambiati nel senso che la violenza fascista è divenuta obsoleta. Ma non è tramontata l’attualità di un fronte comune di quelli, dal centro alla sinistra radicale, che hanno a cuore la legalità e la cultura costituzionale come premessa per perseguire il bene comune, pur pensando il bene comune in modi inevitabilmente e legittimamente diversi, contro coloro che vedono nella legalità solo l’ostacolo al perseguimento del bene proprio. Soprattutto, un fronte così fatto – di recente auspicato anche da Carlo Galli su «Repubblica » – renderà più difficile, proprio per la presenza di una importante componente cattolica, alle alte gerarchie ecclesiastiche, soprattutto alla presidenza della Cei, continuare nella strategia perseguita da dopo il tramonto della Democrazia Cristiana e da quando il paese si è avviato sulla strada del bipolarismo – ovvero far leva sulla decisività dell’elettorato di centro in quanto unico elettorato in grado di spostare la sua loyalty.

Ora, poiché questo elettorato di centro in Italia è ormai quasi totalmente cattolico (a differenza di quando la Democrazia Cristiana era attorniata da partiti moderati ma laici quali il Partito Repubblicano, il Partito Socialdemocratico, il Partito Socialista e sul versante destro il Partito Liberale), influenzando i suoi comportamenti e le sue propensioni è possibile influenzare l’intero processo democratico. È questa la chiave di lettura per comprendere per un verso il protagonismo del Cardinale Ruini e adesso del suo successore Bagnasco, come pure del Cardinale Bertone, sul fronte del tallonare da presso, e se del caso condannare, ogni iniziativa legislativa su questioni bioetiche o altrimenti di rilevanza etica non in linea con gli orientamenti delle gerarchie medesime e, per un altro verso, la loro riluttanza a pronunciarsi sui disinvolti comportamenti in area di costume sessuale propri del Presidente del Consiglio, anch’essi di indubbia rilevanza etica. Questa è però cronaca di ieri e di oggi. Per spiegare come sia possibile, in Italia e solo in Italia, il fenomeno Berlusconi bisogna partire da qualcosa di ben più profondo della cronaca politica, e interrogarsi insieme agli amici cattolici in merito all’imprinting che l’indiscutibile egemonia del cattolicesimo ha impresso alla cultura pubblica del nostro paese.

Note: 1 Cfr. F.Alberoni, Carisma d’ufficio e movimenti spontanei, in F.L. Cavazza e S. Graubard (a cura di), Il caso italiano, Garzanti, Milano 1974, pp. 470-77. 2 Cfr. R.N.Bellah, Le cinque religioni dell’Italia moderna, in R.N. Bellah, La religione civile in Italia e in America (a cura di M. Bortolini), Roma, Armando, 2009, pp. 69-123.

Pubblicato sul numero di Reset 123 (gennaio-febbraio)

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