Popper, Hayek e la libertà del «trial and error»

 

Si è soliti considerare il metodo del tentativo e dell’errore come un dispositivo epistemologico, economico e scientifico. Base del fallibilismo di Popper, del liberalismo della «grande società» hayekiana e del «liberalismo del buon governo» di Einaudi, esso tende oggi a essere considerato come un meccanismo sempre a disposizione, dell’individuo come della società. In questo breve saggio intendiamo indicare come in Einaudi, come peraltro in Popper e Hayek, anche se non è possibile mostrarlo qui, questo dispositivo assuma una dimensione antropologica.

Partiamo da un tema attuale, quello della crisi delle istituzioni, e poniamoci due domande preliminari. In Einaudi la riflessione sul buon governo o «buona società» nasce dall’esigenza di ricostruire dalle fondamenta le istituzioni liberali via via distrutte dalla guerra mondiale, dal fascismo e, infine, dalla grande crisi del 1929 (una crisi economica che per Einaudi dipendeva anzitutto da una crisi morale). Orbene, chiediamoci: perché Einaudi intitola una sua raccolta di saggi di economia e politica Il buongoverno? E perché vi ha inserito i particolari del celebre affresco del Lorenzetti Sugli effetti del buon governo, quasi additandolo come peculiare riferimento ideale e fondatore?

Per rispondere alla prima domanda, cominciamo col notare che il buon governo einaudiano deve essere inteso come problema e, allo stesso tempo, come ricerca sempre aperta. Lungo una storia più che bimillenaria del pensiero occidentale, il buongoverno è stato infatti declinato in tanti modi, ciò che di per sé è segno di un problema che si ripresenta a ogni generazione. Così come Einaudi sosteneva che il problema di custodire quel «bene supremo che è la libertà dell’uomo», è un problema che si ripresenta a «ogni generazione».

L’interesse della nozione di «buongoverno» deriva proprio dal tentativo di sfuggire alla crisi: nella nozione permane il problema più generale della ricerca di una «buona società».

Nella riflessione sulla crisi e sulle cause della distruzione delle istituzioni liberali, Einaudi si era infatti formato la convinzione che le società si reggano su presupposti morali che, anche se «invisibili», sono resi «visibili» attraverso «miti», «riti», «dogmi», «simboli» e tradizioni, atti a garantire la «legittimità» e dunque la tenuta delle istituzioni. Per utilizzare il lessico di un autore del tutto differente come lo storico del diritto Pierre Legendre, le istituzioni «devono avere l’aria di tenersi in piedi»: è sufficiente pensare all’immagine del Leviatano, di quel mostro biblico-persona giuridica fittizia che Hobbes, con la sua filosofia, pone a emblema dello Stato (assoluto) moderno. E se il problema sembra quello di Hobbes, la soluzione proposta da Einaudi non è affatto la medesima.

Nel celebre saggio emblematicamente intitolato Il mio piano non è quello di Keynes (1933), Einaudi spiega il punto criticando Keynes: se le crisi sono causate da fattori morali, non si può pretendere di risolverle con strumenti monetari o economici. L’economico non basta a se stesso. In un altro testo dello stesso anno, ove sintetizza la sua riflessione sulla crisi, Einaudi nota come nell’epoca precedente la crisi «fosse una grande fortuna che le classi veramente rappresentative dell’Italia, composte di medi e piccoli industriali, proprietari, fittavoli, mercanti e artigiani operosissimi e […] di professionisti retti e di burocrati devoti al bene pubblico, fornissero ancora allo Stato un buon numero di uomini di governo. Probi e laboriosi essi riponevano la somma dell’arte di Stato nel “governar bene” la cosa pubblica, intendendo per “buon governo” quel modo saggiamente prudente di amministrare che usavano nelle faccende private».

La selezione della classe politica

Questa frase suona oggi come nostalgica di una dimensione irrimediabilmente smarrita, attuale solo nel suo rovesciamento. Il problema della selezione della classe politica nasce proprio dalla constatazione della realtà del suo inverso. Si potrebbe forse dire, parafrasando: «Ladri e governanti ripongono la somma dell’arte di Stato (o della grande impresa) nel “governar male” la cosa pubblica, intendendo per “mal governo” quel modo di usare l’interesse pubblico per i propri fini privati».

Il passo einaudiano deve essere letto alla luce di uno scritto profondamente autobiografico (del 1922), nel quale Einaudi rievoca l’ethos della sua casa, di una tradizione e di una cultura che avevano segnato un’epoca: «questo che io osservavo nella casa avita erano le abitudini universali della borghesia piemontese per gran parte del secolo XIX». Quelle abitudini formavano «una classe dirigente che lasciò tracce profonde di onestà, di capacità, di parsimonia, di devozione al dovere nella vita politica e amministrativa del Piemonte che fece l’Italia. […] L’uomo, la famiglia non si concepivano sradicati dalla terra, dalla casa, dal comune; e sono questi sentimenti che partoriscono anche l’attaccamento e la devozione alla patria e lo spirito di sacrificio, in cui soltanto germogliano gli Stati».

In quest’ottica la ricerca einaudiana del «buongoverno» deve essere intesa come ricerca di quelle «fondamenta» invisibili su cui si regge un buon regime (e non è un gioco di parole) liberal-democratico. Fondamenta che Einaudi aveva più volte additato in una serie di virtù civiche: prudenza, parsimonia, onestà, operosità, rettitudine, rispetto di tradizioni e consuetudini, legami sociali, affettivi, di famiglia e di vicinato, rapporti di fiducia.

Tutto ciò fa pensare a un Einaudi volto a idealizzare un’epoca e un determinato ethos. Errore non meno presente in un altro grande liberale novecentesco come Hayek, il cui limite della propria storia delle idee consiste nella idealizzazione del capitalismo inglese. Errore perpetrato tragicamente da molti fautori del liberalismo post-89 come ricetta applicabile ovunque e comunque, senza tener conto delle pratiche «antropologiche» dei singoli popoli a cui si vorrebbe imporre il modello democratico-liberale, e senza considerare i fattori culturali, la profondità degli usi e dei costumi; indice di una concezione del liberalismo come meccanismo, come automatismo (pensato come legge o verità economica).

Il tentativo di Einaudi era però volto alla ricostituzione delle istituzioni liberali, anche in vista del futuro ordinamento democratico, alla ricostituzione di un ideale. Muovendo dall’assunto per cui ogni società non può non condividere una visione-rappresentazione del bene, concezione esattamente antitetica ai funzionalismi e agli utilitarismi contemporanei dominanti (comprese alcune declinazioni del liberalismo).

Siamo così arrivati alla seconda domanda, quella sul senso da attribuire al riferimento einaudiano all’affresco del Lorenzetti, all’ideale del buon governo. Un riferimento che fra l’altro additava, nel 1954, in qualità di Presidente della Repubblica. Il riferimento a una siffatta figura ci pare debba interpretarsi quale peculiare immagine che rende visibili, e forse condivisibili, le diverse prospettive sul mondo, proprie di ogni società liberale.

Che poi il discorso einaudiano non sia meramente rivolto al passato, è possibile desumerlo andando oltre le facili strumentalizzazioni delle sue ricette liberali e, forse, di tutte le ricette del liberalismo. Con queste premesse, la domanda giusta non è se Einaudi sia attuale, ma quanto del suo pensiero resti ancora da attualizzare. Proprio come la domanda se il liberalismo sia attuale deve essere sostituita dalla richiesta di riscoprirlo come ideale non attuato (introducendo tuttavia una questione filosofico-giuridica ben più sostanziale, riferita alla utilità della posizione emblematica di un ideale, fin dai tempi di Platone).

La fecondità del conflitto

Nelle numerose distorsioni sociali politiche ed economiche che la sua penna instancabilmente individuava e censurava, egli vedeva un’ingiustizia dei pochi a danno dei molti, sostenendo le ragioni del merito e dei migliori, ed era mosso dalla ricerca di una società che non negasse la fecondità della lotta, del contrasto, della varietà e del dissenso, proprio perché, impedendo l’emersione del meglio e dei migliori, finisce col precludersi qualunque prospettiva di miglioramento. In questo senso la società liberale auspicata da Einaudi è ancora del tutto davanti a noi, non dietro di noi, e nessuna delle sue critiche, certamente da aggiornare, appare superata.

Nel celebre scritto La bellezza della lotta, estendendo l’idea della fecondità della lotta alla società civile e alle istituzioni, egli si riferiva alla «lotta» come concorrenza e come discussione critica, finalizzata quindi alle libertà economiche, in specie la proprietà privata, la libertà di iniziativa e di contratto, ma anche alle libertà civili e politiche, di associazione, di manifestazione del pensiero. Il punto ci riporta alla questione delle radici antropologiche del trials and errors, del procedere per tentativi ed errori, prefigurato all’inizio dell’articolo.

La tesi che intendiamo sostenere poggia allora su una possibile rilettura dell’ultimo Einaudi che, nelle Prediche inutili, rielabora la nozione di fecondità della lotta in termini propriamente antropologici. Una rielaborazione che può altresì essere vista come un’interessante integrazione alla metodologia popperiana e hayekiana. Einaudi fornisce una figura della lotta nei termini di un «perenne tentare e sperimentare»: «solo nella lotta», scrive, «solo in un perenne tentare e sperimentare, solo attraverso vittorie e insuccessi, una società e una nazione prospera. Quando la lotta ha fine si ha la morte sociale». E ancora: «Trial and error, possibilità di tentare e di sbagliare; libertà di critica e di opposizione; ecco le caratteristiche dei regimi liberi».

Poiché la lotta, come azione e discussione, procede per tentavi ed errori, l’antropologia einaudiana muove anzitutto da un’istanza antiperfettista e rinvia all’uomo quale essere carente e fallibile. Questo fondamento del discorso einaudiano emerge in tutta chiarezza nelle Prediche inutili, lì dove, se non erano mai venuti meno i due principi della lotta o fuochi del buongoverno (concorrenza e discussione critica), Einaudi li riarticola nei termini di un «metodo “di libertà”», metodo che presuppone, appunto, il riconoscimento della fallibilità della natura umana. «Il metodo “di libertà” – precisa Einaudi – si fonda sul principio del tentativo e dell’errore». Proprio per la fallibilità della natura umana occorre quindi lasciare aperto il campo ai tentativi e agli errori, un campo che per Einaudi era anzitutto uno spazio di libertà per l’uomo.

Nel saggio In lode del profitto (1957) egli precisa la dinamica del tentativo ed errore in una direzione propriamente antropologica in relazione al problema dell’affrontare il rischio come elemento costitutivo di una società di uomini liberi. Nella sua concezione la vita stessa è quindi intesa come «mutamento», «variazione continua», «succedersi di crisi». Una «società senza rischi» è dunque una società condannata alla morte o inevitabilmente avviata a un sistema «totalitario». Proprio per questo, «i profitti aleatori degli imprenditori debbono continuare a esistere, se il sistema economico voglia serbarsi elastico, atto a subire l’urto delle variazioni continue della tecnica, delle invenzioni industriali; se si vuole che la società umana muti e cresca. Il profitto è il prezzo che si deve pagare perché il pensiero possa liberamente avanzare alla conquista della verità, perché gli innovatori mettano alla prova le loro scoperte, perché gli uomini intraprendenti possano continuamente rompere la frontiera del noto, del già sperimentato, e muovere verso l’ignoto ancora aperto all’avanzamento materiale e morale dell’umanità».

La questione aperta della libertà

Se rimane attuale la critica alla società priva di rischi che Einaudi formula, e che rappresenta l’ideale opposto della società tecnologica contemporanea, appare chiaro come proprio tale concezione dell’ignoto rimandi a una concezione dell’umano, secondo la quale, per dirla ancora con Einaudi, l’uomo è tale proprio perché ha lo «sguardo» rivolto «verso il nuovo e verso l’alto». Una concezione dell’umano che lascia spazio alla formulazione di un’antropologia della libertà aperta al trascendente, progetto che appare ancora da compiere e chiama in causa un elemento che le teorie di Einaudi, ma anche di Hayek e di Popper, hanno tralasciato o ridotto: il nesso tra concezione della libertà e religione cristiana, più precisamente tra libertà e cristologia.

Già Hayek, nel libro del suo congedo La presunzione fatale, aveva mostrato come la concorrenza intesa come procedura di scoperta implicasse la posizione di una teoria dei limiti della conoscenza basata sull’impossibilità di procedere a un calcolo logico-razionale, legato al mito della pianificazione (economica o tecnologica). Nel testo hayekiano, tuttavia, l’individuazione del problema era risolta antropologicamente con il recupero di procedure «non razionali» o meramente imitative come l’osservanza dei costumi, delle regole incorporate nella tradizione: figure riduttive in cui la libertà dell’uomo era pensata nella sua dimensione principalmente passiva, di ricezione di un’eredità postulata come mitica e inevitabilmente mitizzata. Un problema analogo si riscontra nel tentativo di configurazione einaudiano dell’ideale di una buona società, grazie a costumi presunti a un tempo come effettivi e da ripristinare.

La visione del problema della libertà aperta da autori liberali successivi ha invece consentito, almeno in parte, di reintrodurre il tema della religione intesa come confronto dell’uomo di fronte al significato dell’ignoto e il non conosciuto in termini non passivi, ma di relazione libera col problema del senso – ad esempio nella complessa edificazione di un’etica (ma anche di un’estetica) della libertà tentata da Philippe Nemo, che mostra come la concezione liberale sia radicata nella religione cristiana.

Il liberalismo si pone, in altre parole, come un tentativo di leggere la questione della libertà dell’azione dell’uomo in termini non di mera ricezione passiva di regole già scritte, o di tradizioni da recepire, ma anch’essa come procedimento di invenzione e di innovazione, di lotta contro e per la realtà. Nell’ultimo Hayek, ma anche in Einaudi, questa feconda tensione è chiarissima: il primo sembra costantemente oscillare tra la necessità che «l’ordine esteso» del liberalismo evolva verso territori sconosciuti e nuovi e una spiegazione dell’emergere delle regole sociali che lascia troppo spazio a figure antropologicamente «passive», in senso fenomenologico, come l’imitazione o il rispetto dei costumi; il secondo si riferisce ad esempio, come già notato, al tema della bellezza della lotta.

Si pone così, in altri termini, quel problema filosofico del nesso tra legge e libertà non alieno alle stesse origini della tradizione cristiana (si pensi ad esempio alla figura della «lettera della legge» rispetto allo «spirito della legge» nell’Epistola ai romani) che ancora oggi, magari senza essere neppure nominate, influenzano ancora l’impostazione del discorso sulla libertà umana nelle nostre società.
Da ultimo e in senso critico, il problema di questo secolare conflitto tra la libertà e la legge riguarda anche la dimensione storiografica, nelle menzionate teorie di Einaudi e di Hayek, che sembrano mitizzare, rendere universale, quella che è invece una situazione storica particolare.

Il cristianesimo, nel suo rivelare la figura del fondamento nella sua forma antropologica, nell’affermazione «scandalosa» per la filosofia greca secondo la quale Dio si rivela in un uomo vivente, indica con precisione come questa figura (epistemologica o etica) dell’ignoto e del non conosciuto non sia da porre come l’ultima di una serie infinita di modelli, di epoche storiche da mitizzare, ma come il problema del fondamento della libertà umana nel suo stesso porsi.

L’agire del «figlio di Dio», nel suo assumere la dimensione storica della libertà dell’uomo nel suo rapporto con il divino (Cristo in quanto esempio di uomo libero, che scopre dal basso «storicamente», «esperienzialmente», vivendo, leggendo i testi sacri, di essere figlio di Dio, non lo sa già a priori e dall’alto, come si conosce una verità di ragione o metafisica) si pone al di fuori del ricorso a norme eterne e deduttivamente imposte, ma entro una figura della dinamica della libertà retta da un procedimento di apprendimento dall’esperienza, cristologicamente inteso, che assomiglia al trial and error. A differenza di quello, però, la libertà del Cristo non è orientata verso l’ignoto dei risultati della selezione naturale o culturale o della falsificazione, ma, ponendosi oltre la scissione moderna di fede e ragione, verso il dato creduto e conosciuto di una salvezza, non posseduta, ma sperata reale.

La concezione della libertà cristiana, lungi dall’essere essa stessa solo un mito come pretendeva il positivismo, si pone allora, paradossalmente, proprio come critica di tutti i miti fondativi – compreso quello statalista «moderno» – posti a fondamento delle istituzioni, ma anche degli stessi ideali liberali fondanti la «buona società»: vagheggiati, pur nelle loro differenze, da Einaudi o da Hayek.

Il riferimento fondante al «liberalismo inglese ottocentesco» hayekiano, ai costumi del «ceto medio» prima richiamato da Einaudi si inseriscono così anch’essi tra molte altre visioni del fondamento della società, dalla norma fondamentale kelseniana alle contemporanee concezioni del mercato e della scienza, in quanto figure mitizzate (come l’opera di Legendre mostra) del fondamento della società, modelli storici impropriamente considerati universali e astorici. La questione del nesso tra libertà e cristianesimo non cessa quindi di sollevare (e di rinnovare) il problema del fondamento antropologico e cristologico del liberalismo e della democrazia.

L’interesse della figura «concreta» del liberalismo einaudiano, del suo rifiuto di una teoria astratta lontana dalla pratica, risiede proprio qui, nelle pieghe di questo complesso rapporto tra astratto e concreto, tra liberalismo e cristianesimo: nella necessità, peraltro mai realmente messa a fuoco da Einaudi, ma al più solo confusamente avvertita, di un radicamento antropologico concreto e contingente della questione della libertà. Intuizione che si pone a distanza, quindi, dalle contemporanee troppo frettolose e poco pensate celebrazioni del nesso «storico» tra cristianesimo e liberalismo oggi tornate di moda.

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