Mediterraneo, “frontiera” o “riva” comune?

Definizioni

La Conferenza Episcopale Italiana ha indetto, per il prossimo 19-23 febbraio 2020 a Bari, un incontro di riflessione tra esponenti della Chiesa cattolica dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, dal titolo “Mediterraneo, frontiera di pace”, con l’intento di intraprendere “un dialogo fraterno e per guardare insieme alle gioie e alle fatiche che vivono i popoli del nostro ‘grande lago di Tiberiade’[1]”.[2]

Identificare nel Mediterraneo una “frontiera di pace” rappresenta un importante cambiamento di prospettiva rispetto alla tradizionale definizione dell’area come “arco di crisi” o regione di emergenza e riproduzione incessante di conflitti. Tuttavia la formulazione dell’iniziativa potrebbe, a mio avviso, ingenerare fraintendimenti per quanto attiene al concetto di « frontiera ». Il Mediterraneo va ripensato come unità civilizzazione complessa e plurale. Non “frontiera”, ma “riva” comune. Tra l’Europa storica e geografica e i diversi quadranti mediterranei esiste un rapporto di oggettiva compenetrazione antropologia e culturale. Ciò non implica adottare un’ottica “irenista”: dovremmo anzi evitare di reiterare le concezioni retoriche del Mediterraneo come “mare di pace”, crocevia di culture, luogo di incontro dei popoli. Tutto ciò è reale, ma costituisce solo il contesto esterno di una nuova infrastruttura di cooperazione da impostare interamente. Le fratture nel mondo euro-mediterraneo esistono, ma sono di natura fenomenologia e non essenzialista: riguardano l’economia, la mobilità umana, l’assetto politico-istituzionale, la struttura sociale, il contesto dei diritti, i processi di integrazione regionale. Tali tematiche si applicano a tutti i Paesi dell’area, ivi compresi quelli che appartengono allo spazio europeo o sono membri dell’Unione Europea. Ha oggi poco senso, ad esempio, continuare a parlare di “sponda Nord” e “sponda Sud”: si tratta di un lessico che rimanda ad una dicotomia che risente di una concezione del Mediterraneo che non è ancora divenuta pienamente post-coloniale.  Nel Mediterraneo, storicamente, è esistita piuttosto una chiara distinzione  Est/Ovest, e la stessa “sponda Sud” è articolata in spazi storico-culturali dotati di una relativa omogeneità, come il Maghreb (Marocco, Algeria, Tunisia, Libia), il Levante o Medio Oriente (Egitto, Giordania, Israele, Libano, Siria)  il Golfo, Mediterraneo “profondo” (Iraq, Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Oman, Qatar, Bahrein, Yemen).  Spesso dimentichiamo che in questo unico bacino albergano diverse “anime”, differenti ambiti definitisi e precisati nel corso di secoli e nel crogiuolo di complesse interazioni. La dimensione adriatico-balcanica, infatti, va ripensata nell’ambito di un approccio complessivo al Mediterraneo; quanto accade intorno al Mar Nero e nel Caspio ci interessa o no, per i risvolti che ha sul Mediterraneo?

Spazio euro-mediterraneo

La definizione più in uso è quella di “Medio Oriente e Nord Africa” (MENA, dalle iniziali inglesi).  Ritengo tuttavia importante riprendere il filo del discorso mediterraneo in senso ampio ripartendo da una diversa impostazione, che mette al centro dell’iniziativa lo spazio euro-mediterraneo. A partire dal 1995 (il “processo di Barcellona”) l’Unione Europea ha tentato diversi approcci, non particolarmente efficaci, al rapporto euro-mediterraneo, che si è sostanzialmente impantanato con lo stallo dell’Unione per il Mediterraneo (benché gli obiettivi dello sviluppo umano e dello sviluppo sostenibile per la regione siano pienamente condivisibili) e le difficoltà della Politica di Vicinato. Il rapporto con i Paesi rivieraschi si è complicato a partire dal 2011, con le “primavere arabe”, rispetto alle quali il riflesso condizionato dell’Europa è stato quello di impostare la relazione intorno ad interessi (pur legittimi) invece che su valori. Sicurezza energetica (gas e petrolio), sicurezza delle frontiere (migrazioni) e sicurezza interna (minacce terroristiche) sono stati i riferimenti fondamentali della politica europea verso la regione negli ultimi anni.

In generale, l’Occidente ha assistito ai mutamenti avvenuti nella regione oscillando tra l’euforia per una democratizzazione attesa (che si era persino tentato di indurre dall’esterno, con esiti disastrosi) e la paranoia per il presunto “vuoto politico” che la caduta delle autocrazie nella regione avrebbe lasciato. Senza contare il discorso fuorviante sulla “islamizzazione” della politica nordafricana e mediorientale. In Europa, in particolare, si è ritenuto che la stabilità dei Paesi dell’area coincidesse con la continuità politica interna; al contrario, spesso la stabilità esige il cambiamento.

Tre eventi – tutti riconducibili più o meno direttamente ad iniziative occidentali nell’area – hanno poi contribuito a rendere arduo un approccio condiviso: l’intervento militare degli Stati Uniti ed alleati in Iraq nel 2003; l’azione militare della NATO in Libia nel 2011; la “guerra regionale per procura” in Siria e l’avvento dell’ISIS in Siria a partire dal 2011. Sullo sfondo rimangono la questione israelo-palestinese, che appare totalmente priva di prospettive di soluzione; la nuova polarizzazione interna alla regione (Arabia Saudita, Egitto, Israele; Iran, Qatar, Turchia) esacerbata dal ruolo delle potenze esterne (Russia e Stati Uniti); e l’emergere di nuove aree di conflitto (come in Yemen). La formulazione “spazio euro-mediterraneo” consente in primo luogo di riproporre l’esistenza di un tessuto connettivo che supera le linea di faglia recenti; in secondo luogo, permette di “laicizzare” la nozione dialettica di un mondo euro-occidentale come totalmente dissimile dal mondo arabo-islamico; in terzo luogo, apre degli spazi di conversazione sulle differenze e sulle somiglianze capaci di “smitizzare” le visioni astratte e stereotipate su entrambi i versanti, ponendo l’accento sulla ricchezza delle società civili e sulla dimensione quotidiana dell’esistenza delle persone e delle comunità. Si tratta di una “banalizzazione” necessaria rispetto alla costruzione ideologica di due ideal-tipi che inducono in vistose e grossolane semplificazioni, come dimostra il disinvolto discorso polarizzante tra “Occidente” e “Islam” da una parte, si evoca l’Occidente, che, in senso stretto, è una denominazione geografica, come un insieme di idee, caratteri culturali, soluzioni istituzionali e strutture economiche considerate in modo unitario, come distintive e peculiari.  Dall’altra parte, si usa la denominazione di “Islam”, che è un termine con una forte connotazione religiosa e culturale, come una definizione geo-politica di un’importante area del mondo.  Si tratta di un caso in cui la terminologia è cruciale. Non solo si allineano due definizioni che in linea di principio non sono comparabili, ma implicitamente si presuppone anche che ciascuno dei due termini implichi una porzione del mondo unitaria e omologa. Edward W.Said nel 2001 scrisse un articolo intitolato “Lo scontro dell’ignoranza”  stigmatizzando l’uso di etichette indefinite come Islam e Occidente, poiché  esse sono fuorvianti e “confondono la mente che tenta di dare un senso a una realtà disordinata. Passioni primordiali e un sofisticato ‘know-how’ convergono per creare un confine fortificato non solo tra l’Occidente e l’Islam, ma anche tra passato e presente, noi e loro, per non parlare degli stessi concetti di identità e nazionalità sui quali non c’è accordo e rispetto ai quali il dibattito è infinito.”

Il contesto nazionale

Dal punto di vista dell’assetto interno dei diversi Paesi, non sappiamo quale sarà l’evoluzione futura e lo “stato finale” delle transizioni politiche (tuttora) in corso nel mondo arabo-islamico.

Nei Paesi della regione, sono da decenni entrate in evidente affanno e crisi di legittimità le grandi narrazioni politiche come il panarabismo, il nazionalismo indipendentista e l’anti-occidentalismo ideologico. Sono parimenti in crisi le nuove narrazioni dell’Islam politico, che si è smarrito in due direzioni opposte: da una parte, l’estremismo violento e il radicalismo intollerante; dall’altra, diminuita capacità di mobilitazione e seguito elettorale in calo, anche a seguito del fallimento politico dell’esperimento dei Fratelli Musulmani in Egitto.

La caduta del prezzo del petrolio ha costretto molti stati della regione a rivedere la struttura economica ed anche la configurazione del sistema politico. Si è così determinata una nuova figura del “rentier State[3] (stato redditiere) nel quale la rendita ha un’origine esterna, non è prodotto all’interno e in cui solo una minoranza è impegnata nella generazione di tale rendita, mentre la maggioranza della popolazione è coinvolta solo nell’utilizzazione e nella distribuzione di essa. Inoltre, quasi tutte le attività sono statalizzate e il settore privato è molto ridotto o poco produttivo. Il “premio” non è legato al merito e al duro lavoro, ma piuttosto a circostanze fortuite (essere o meno nell’orbita del potere). Si può inquadrare meglio tale concetto con la distinzione tra stati produttivi e stati allocativi.[4] Negli stati produttivi, il reddito della popolazione proviene in larga misura da fonti che non dipendono dai poteri pubblici o dallo stato medesimo. Negli stati allocativi, al contrario, la rendita ha una provenienza esterna e il reddito dei cittadini proviene in gran parte da risorse esterne (ad esempio, la vendita di gas e petrolio). Queste trasformazioni economiche stanno colpendo gli stati allocativi, in particolare i Paesi del Golfo e l’Algeria. In questi sistemi politici vige la formula politica “pace sociale in cambio di redistribuzione”, che è però messa in seria crisi dalla situazione del mercato internazionale degli idrocarburi, in deciso calo. La transizione da un’economia basata sull’esportazione degli idrocarburi ad un’economia più diversificata e più “verde” può implicare anche una de-centralizzazione economica e politica (si pensi all’energia solare) e può aprire spazi più ampi di libertà e margini di azione per la società civile.

In ogni caso, le primavere arabe non sono affatto terminate (si veda il caso dell’Algeria, da febbraio 2019 e del Sudan, da aprile 2019), nonostante il prevalere, sino al recente passato, di nuove forme di autoritarismo tecnocratico (Egitto), securitario (Algeria) o ieratico (Iran), di anomia (Libia, Siria), di monarchie assolute tradizionaliste (Arabia Saudita) o paternaliste (Qatar).  L’influenza degli apparati militari e burocratici è ancora molto estesa e ramificata, e non opera certo nel senso di una maggiore inclusione sociale, economica, politica. Senza contare la “leva” di cui dispongono ancora le élites affaristiche che hanno prosperato grazie al petrolio, alle forniture militari, ai bizantinismi della finanza. D’altra parte, dopo la Rivoluzione francese del 1789 ci fu la Restaurazione e l’Impero; una nuova fiammata insurrezionale avvenne nel 1848, e fu anch’essa rapidamente repressa e riassorbita; si dovette attendere l’ultima parte del XIX secolo (la Comune francese è del 1870) e l’inizio del XX per assistere ad una liberalizzazione dei sistemi politici europei. [5]

Quello che è certo è che l’assetto che assumerà questa regione del mondo avrà un’influenza decisiva sulla configurazione non solo del mondo euro-mediterraneo, ma dell’intero sistema internazionale.

Il contesto internazionale

Il Mediterraneo è un mare interno, ma anche un mare “globale”. Lo dimostra, del resto, l’azione incisiva che i nuovi players hanno avviato nel Mediterraneo; non solo gli Stati Uniti e i vicini paesi del Golfo (oltre alla Turchia), ma anche la Cina, l’India, il Brasile. Nel mondo d’oggi non si può prescindere da una logica integrata. Come si è spesso sottolineato, utilizzando un termine ormai abusato, il Mediterraneo potrebbe affermarsi come hub globale, come piattaforma planetaria di scambi e circolazione (di merci e semilavorati, tecnologie, braccia, cervelli e idee), come snodo centrale tra la locomotiva asiatica (rilanciata con la nuova via della seta, l’iniziativa “One Belt One Road”) e una UE che non sia solo mercato, ma anche incubatore di innovazione e coesione sociale, oltre che attore strategico. Un problema fondamentale è che nel Mediterraneo non esiste un sistema per la risoluzione dei conflitti. Le tensioni sono risolte (quando ciò accade) o in via bilaterale o attraverso l’intervento del Consiglio di Sicurezza, quando non sono esacerbate da interventi nazionali o di organizzazioni di sicurezza regionale come la NATO. Manca, in sostanza, l’equivalente della  Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione (OSCE) in Europa, che potrebbe costituire l’istanza di prima trattazione delle contese prima che si trasformino in conflitti. Quanto meno, si dovrebbe esplorare la strada per la costituzione di un “Centro Euro-Mediterraneo per la Diplomazia Preventiva”. L’attuale crisi dell’internazionalismo liberale e la crescente bi-lateralizzazione delle relazioni internazionali, unitamente al disimpegno delle grandi potenze dagli accordi in materia di sicurezza (forze nucleari di medio raggio tra USA e Russia, disconoscimento americano dell’accordo 5+1 sul programma nucleare iraniano) non favoriscono certo un esito positivo di questa prospettiva, riportando anzi indietro le lancette della storia alla strategia fallimentare delle alleanze contrapposte e delle coalizioni occasionali.

Linee di azione

Nelle situazioni più drammatiche (come i cristiani in Siria) il primo impegno deve essere diretto verso il rafforzamento della resilienza delle comunità cristiane, nei casi in cui esse decidano di non abbandonare le loro terre, e di un sostegno al ritorno qualora siano state evacuate. Bisogna inoltre svolgere un’incisiva azione diplomatica, di advocacy, di denuncia, di comunicazione e informazione, di intervento attraverso strumenti di cooperazione decentrata, in difesa delle comunità cristiane, come le altre comunità minoritarie, da forme di “genocidio culturale” e di perdita dei riferimenti storici ed antropologici.

Il secondo impegno dovrebbe comportare, più in generale, una sensibilità attiva per la sicurezza umana, intesa come sicurezza dei popoli, sicurezza attraverso lo sviluppo e sicurezza delle persone (e non solo degli Stati). L’insicurezza può essere prodotta da molteplici fattori: perdita (o mancanza) del lavoro, assenza di assistenza sanitaria, livelli insufficienti di protezione sociale, deficienze educative. Al contempo, l’insicurezza può essere collegata a violazioni dei diritti umani, estremismo, esplosione di conflitti, condizione di rifugiati. I cristiani nella regione, al pari della popolazione dei Paesi in cui vivono, sono esposti ad una vulnerabilità sociale che rende molto precario il loro livello di sicurezza umana.

Il terzo impegno dovrebbe riguardare la dimensione del pluralismo, che rappresenta, forse più della stessa democrazia formale o “elettorale”, uno dei punti qualificanti di una governance aperta ed inclusiva. Il pluralismo è multi-dimensionale: riguarda la partecipazione politica, le organizzazioni della società civile, le espressioni dell’arte e della cultura, e la professione religiosa. In questo contesto si inserisce la questione della libertà di culto. La libertà religiosa dovrebbe sempre costituire un diritto assoluto, paragonabile al diritto alla vita, e non essere soggetta a condizionamenti, restrizioni, intrusioni. Fin qui tutti d’accordo. Ciononostante, nella concettualizzazione della libertà religiosa (o meglio, libertà di culto, poiché la libertà religiosa nel «foro interno» è ovviamente incomprimibile) si sono surrettiziamente infiltrate concezioni relativizzanti che poco hanno a che vedere con l’espressione di un diritto fondamentale. Si è infatti sostenuto che la libertà di culto dovrebbe essere trattata nel contesto delle relazioni politiche, e pertanto soggetta ad alcune «gradazioni» dettate da considerazioni presuntamente identitarie, di sicurezza, persino di «reciprocità». In sostanza, il diritto di culto sarebbe condizionato e non più assoluto, e dovrebbe essere modulato sulla base del contesto culturale, sociale, nel quale esso viene esercitato. Sul punto bisogna fare chiarezza: condizionare la libertà di culto ad esempio alla reciprocità (cioè, se non è permesso costruire Chiese o Sinagoghe in Arabia Saudita, neanche da noi dovremmo consentire la costruzione di Moschee) equivale non tanto e non solo alla pratica negazione dell’assolutezza delle libertà religiosa, ma ad una contraddizione sostanziale, che pregiudica, in buona sostanza, la stessa credibilità dei diritti umani fondamentali in quanto espressione della coscienza universale. Significa rendere la religione vassalla della politica e degli interessi; significa togliere alla religione la sua struttura fondamentale, che è fatta di gratuità e di convinzione. Non si tratta di essere naif, ma di assumere una posizione di coerenza, non rinunciando, ovviamente, a perorare in tutte le sedi possibili la causa del pluralismo religioso al pari della difesa dell’esercizio di diritti civili, sociali e politici. Da questo punto di vista, nel documento firmato da Papa Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar, Ahmed el-Tayeb, sulla “Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune”[6] si rinviene un punto di grande interesse, e cioè l’enfasi sul concetto di cittadinanza, “basata sull’eguaglianza dei diritti e dei doveri sotto la cui ombra tutti godono della giustizia. Per questo – continua la Dichiarazione – è necessario impegnarsi per stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze, che porta con sé i semi del sentirsi isolati e dell’inferiorità; esso prepara il terreno alle ostilità e alla discordia e sottrae le conquiste e i diritti religiosi e civili di alcuni cittadini discriminandoli.” Il percorso dalla condizione di minoranza alla dimensione giuridica e politica della cittadinanza costituisce una possibilità di declinare in modo concreto anche la libertà religiosa, e di sottrarre i cristiani all’ambigua situazione – evocata spesso in sede politica – della “protezione” da parte di altri stati, quasi si trovassero nella condizione di “stranieri” e non di cittadini a pieno titolo dei rispettivi paesi.

 

Pasquale Ferrara è attualmente ambasciatore Italiano ad Algeri. E’ stato Segretario Generale dell’Istituto Universitario Europeo di Firenze fino al 2016. Si è laureato nel 1981 in Scienze Politiche – indirizzo politico-internazionale – presso l’Università di Napoli. Ha poi frequentato il Corso di specializzazione post-Laurea presso la Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale a Napoli e, in seguito, la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione.
Nel 1984 è entrato nella carriera diplomatica, ed ha prestato servizio tra l’altro presso il Gabinetto del Ministro e, successivamente (1987- 88), presso l’Ufficio del Consigliere Diplomatico del Presidente della Repubblica.
Ha svolto diversi incarichi all’estero, in particolare a Santiago del Cile (1989 al 1992), Atene (come Console, 1992-1996), Bruxelles (alla Rappresentanza d’Italia presso l’Unione Europea, 1999-2002) e infine a Washington (2002-2006). E’ stato dal 2006 al gennaio 2009 capo del servizio stampa e portavoce del Ministro e successivamente, dal febbraio del 2009 a giugno 2011, capo dell’unità di analisi e programmazione del Ministero degli Esteri.

 

[1] Famosa metafora di Giorgio La Pira

[2] Dal documento di lavoro predisposto in vista dell’evento (inedito).

[3]  Cf. Hazem Beblawi,  The Rentier State in the Arab World,  “Arab Studies Quarterly”, Vol. 9, No. 4 (Fall 1987), pp. 383-398

[4] Cf. Giacomo Luciani, Allocation vs. Production States: A Theoretical Framework, in Giacomo Luciani (ed.), The Arab State, Routledge, London 2015 [1990]

[5] Cfr. Azar Gat, The Arabs’ 1848, “The National Interest”, 20.4.2014

[6] Cf.  Sua Santità  Papa Francesco Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb, Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi, 4.2.2019

 

 

 

 

 

 

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