La domanda dello storico sui pigmei della politica

Dicono diversi economisti che la politica non ha più carte buone da giocare; nessuno schieramento sa produrre un programma di vero ripensamento del modo in cui gli Stati fanno i conti; non c’è un politico che si stacchi qualche millimetro dalla difesa degli interessi elettorali, delle lobby e corporazioni di riferimento e se vuoi qualche soluzione devi cercarla fuori dalla politica. Eppure ci fu un tempo, dopo la seconda guerra mondiale, in cui i politici europei erano visionari e capaci di inauditi atti di coraggio come accantonare il piano Morgenthau (che avrebbe punito tragicamente gli sconfitti) e adottare un piano Marshall (che li avrebbe risollevati). E riuscivano a trasformare il carbone e l’acciaio che avevano diviso sanguinosamente Francia e Germania nel primo nucleo fondativo (la CECA) della futura Comunità europea. Con quali mai risorse intellettuali riuscirono a tanta impresa? Con quale misteriosa energia riuscirono a ricostruire la comunità fiduciaria che è stata a lungo alla base delle democrazie europee e del patto sociale che le ha tenute insieme? Come riuscivano a porsi alla guida anzichè al seguito dei loro elettori? In sintesi l’enigma è questo: come mai allora tanti giganti della politica (Blum, Churchill, Einaudi, Brandt, Lloyd George, Roosevelt) e oggi tanti pigmei? La causa del divario sta nella qualità delle élites o nelle circostanze storiche?

Bella domanda per questi bilanci di fine anno. Ce l’ha lasciata in eredità lo storico inglese scomparso l’anno scorso, Tony Judt, nel suo Guasto è il mondo (Laterza 2011). In questi giorni in Parlamento si è sentita girare la parola “responsabilità”, timidamente enunciata quando si affacciava la paura di una medicina amara per gli elettori. Intanto i tentennamenti sulle manovre necessarie per impedire il collasso dell’euro, il rischio di disastrose turbolenze e il riaprirsi di conflitti economici in Europa non sono certo solo italiani; anche Parigi, Berlino e Londra non hanno propulsione creativa.

Eppure c’era una volta una classe politica con il senso della sua responsabilità morale e sociale e una visione da proporre: Schumann, Monnet, Spinelli e tutti gli altri che seppero pensare e cominciare il cammino di un ordinamento sovranazionale della politica, l’Europa. Quella visione aveva una priorità assoluta: proteggere e sviluppare la coesione sociale. Forse perchè avevano negli occhi il disastro recente. Lo storico inglese racconta come il segretario di stato americano George Marshall rimase atterrito da quel che vide in Germania nel marzo del ’47. Il suo piano fu presentato due mesi dopo e nacque dalla paura che il secondo dopoguerra potesse essere peggiore del primo. Quella paura fu una buona guida a lungo per le classi dirigenti: si basava sulla percezione del nesso causale tra la recessione (con tutta la sua corte nera: insicurezza, disuguaglianze, umiliazioni, danni morali della povertà) e gli orrori totalitari.

Già negli anni Ottanta, dopo tre decenni di galoppo dell’economia occidentale, i famosi Trenta gloriosi, si affacciava il pericolo di dimenticare. All’inizio degli anni Novanta, per ragioni anagrafiche, non c’era più nessun politico al comando in tutto il mondo che avesse esperienza diretta delle due guerre mondiali e che potesse abbracciare con la memoria personale quel ciclo di eventi che metteva in primo piano la lezione sulle conseguenze della recessione. Churchill, ministro già nel 1910, vide da vicino tutti gli errori che produssero la catastrofe: dal trattato di Versailles all’ondata di panico che afflisse la Germania. Bill Clinton, alla Casa Bianca dal ’92 al 2000, è nato nel ’46: rappresenta una generazione, quella dei baby-boomers, che ha nella sua memoria soltanto la crescita. Le “bolle” finanziarie hanno cominciato a deflagrare nella parte finale del secolo scorso, ma lento è però il declino della mentalità dominante, che è stata nutrita da tre decenni di convinzioni neoliberali. Sono già in scena generazioni che dei Trenta gloriosi non hanno neppure il ricordo. E loro hanno paura, ma non sono al potere e non comandano l’opinione.

Le élites responsabili, che siamo tentati di rimpiangere, erano dominate dalla paura che la società si disgregasse sotto la pressione del panico di massa, dell’insicurezza, dei rancori, del populismo da cui germinano razzismo, xenofobia, violenza. Le politiche di welfare si svilupparono per controllare questi rischi e spinsero ad abbandonare una fede dogmatica nell’individualismo e a sostenere l’azione di gruppo e la partecipazione. Cultura liberale, cattolica, socialista convergevano, nonostante tante differenze e conflitti, in questa paura ispiratrice. Oggi prevale una certa noncuranza, c’è poca paura che la coesione sociale possa disfarsi. La si assume come condizione acquisita. Da molto tempo assistiamo all’allargarsi di distanze abissali nel reddito senza reagire. John Maynard Keynes, l’economista che di quella cultura della coesione sociale fu l’ispiratore più influente dedicò gli ultimi tempi della sua vita a raccogliere fondi per le arti, l’opera, il balletto. Aristocratico per gusti e per formazione, era convinto che le distanze sociali dovevano essere “cucite” anche nella cultura: i poveri come i ricchi dovevano poter fruire della stessa qualità alta, andando nello stesso teatro. Un visionario da dimenticare?

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