Il Pdl che non andrà alla guerra

Il PDL, per riprendere un titolo del quotidiano di famiglia, Il Giornale, “indossa l’elmetto”. Il mite Sandro Bondi, quello capace di definire il PDL, senza arrossire, il partito dell’amore, evoca il rischio di “una nuova forma di guerra civile dagli esiti imprevedibili”, irritando il presidente della repubblica, prendendosi dell’irresponsabile e rincarando tuttavia la dose (tra l’altro definendo Berlusconi il leader “del maggior partito italiano”, dimenticando che oggi è largamente al terzo posto dopo il M5S e il PD: ma l’amore, come noto, non ha il senso delle proporzioni). I luogotenenti Brunetta e Schifani si precipitano dal presidente della repubblica (appena rientrato, ironia della sorte, dalle sue vacanze in Val Fiscalina…), per chiedere una grazia irrituale e irricevibile: nella tempistica (è un processo lungo e meditato, e viene concessa quando già un imputato sta scontando la sua pena, e mostrando una buona condotta), nel merito (difficile immaginarla per i reati per cui è condannato Berlusconi, tanto più che è ancora sotto processo per altri), e nel metodo con cui viene pretesa e rivendicata (come un diritto all’impunità, per giunta del tutto privo di pentimento e richiesta di perdono). E le pasionarie Daniela Santanchè e Michaela Biancofiore, insieme agli strateghi del marketing e della sopravvivenza del partito, scoprono le virtù salvifiche e le capacità di leadership dell’erede Marina Berlusconi: che non si è mai occupata di politica, non ha meno conflitti di interesse del padre, ma ha il vantaggio di essere l’unica a poter far scrivere sul simbolo, in caso di elezioni,  lo slogan vincente “Berlusconi presidente”.

Oggi però è ancora presto. Il problema è innanzitutto come reagire alla sentenza. Facendosene una ragione, o facendo la faccia feroce. Con tutte le sfumature di grigio che si possono ipotizzare tra queste due posizioni.

I toni appaiono per lo più bellicosi, a parole. Ma con esiti non travolgenti: alla manifestazione di solidarietà organizzata ieri in via del Plebisicito, davanti a Palazzo Grazioli, la residenza romana di Berlusconi, vengono annunciati 500 pullman da tutta Italia (che poi vuol dire meno di 5000 persone, non un’immensità, anche facendo la tara delle ferie e della canicola agostana; lontani dai milioni, non sempre veri, ma simbolicamente rotondi, dichiarati per le manifestazioni del passato in Piazza del Popolo. Oggi ci si è ridotti alle manifestazioni di via – stretta, per giunta – dove basta poco per sembrare in molti). Ma a parte un po’ di nomenclatura del PDL in favore di telecamera (neanche molta), il colpo d’occhio ridimensiona gli annunci a poche centinaia di persone. E a parte i toni apocalittici e i paragoni con altri perseguitati celebri (Dante, Dreyfus, Silvio Pellico, Enzo Tortora) della stampa amica, il tono stesso di Berlusconi sembra dare ragione alle cautele dell’ala governista (i ministri, i coordinatori, Gianni Letta, i sostenitori della “linea gommosa”, come la chiama, con sprezzo, il giornale di famiglia). Anche questo un segno di stanchezza. Non solo di un elettorato disilluso, e non più pronto a grandi battaglie. Ma anche degli eletti. Che devono schierarsi: perché dipendono da Berlusconi, in un partito che è nato intorno al leader e morirà con lui (che, del resto, ne ha già deciso le varie reincarnazioni, da Forza Italia al PDL, di cui ha già decretato la morte, preannunciando un ritorno all’antico, al marchio vincente del ‘94, Forza Italia appunto). Che fanno a gara a sbracciarsi: perché la visibilità la da’ solo la vicinanza al leader (è lui al centro dell’attenzione e inquadrato dalle telecamere, e lui del resto che ha salvato il partito da un tracollo che si annunciava assai più spettacolare alle ultime elezioni, con il suo impegno personale alla fine della campagna elettorale), e chi non lo fa sarà escluso dalle prossime liste e dalle prossime chances di carriera. Ma allo stesso tempo sono cauti sulle dimissioni, la caduta del governo e la fine della legislatura: che sarebbe anche la loro, di fine. Con poche speranze di rinascita, o solo per alcuni – pochi – eletti.

Ecco perché la manifestazione del 4 agosto, vista in diretta dal premier, temuta dal governo e dal PD, ha mostrato in fondo più la debolezza che non la forza del PDL. Che, tra l’andare in guerra e l’andare a casa, sembra preferire la seconda soluzione: ma con calma, senza fretta.

  1. “Buio a mezzogiorno” e “Schiuma del diritto”, di Giuseppe Brescia. Verrebbe voglia di attualizzare Koestler, come spunto di lettura dei processi storici in corso. Un giornalista del “Corriere” segnala con evidenza il 9 luglio 2013 i rischi di prescrizione per uno dei processi pendenti a carico dell’ex Premier. il 10 luglio, saltando l’evidenza di apertura della tempestiva convocazione della Suprema Corte per accelerare i tempi del procedimento, lo stesso “Corriere della Sera” apre con il titolo “Il PDL contro la Cassazione”! C’ è il ‘prius’ con il ‘posterius’, omesso ermeneuticamente, o semioticamente, l’ “atto” presente ed efficace di convocazione della Corte. A frittata pronta, lo stesso giornalista, Ferrarella, commenta il 2 agosto la emessa sentenza “Così è saltato l’aiuto della prescrizione”, nominando invano addirittura il nomen di Vaclav Havel, autore de “Il potere dei senza potere” (1978), per la qual cosa i 5 giudici della Cassazione sarebbero “nella condizione psicologica dell’ortolano di Vaclav Havel” ! Ma come – verrebbe da obiettare – le scuole di Partito alle Frattocchie e la crisi della giustizia non sono forse state fattori oggettivi, e anche di “potere”, nella più o meno recente storia etico-politica italiana ? Ad esempio, dopo la morte dei “grandi doganieri” della nostra cultura ( Croce, Sturzo, Salvemini ), non ci sono stati i vari casi Montesi, con danno dell’on.le Piccioni; Felice Ippolito, scienziato di formazione storicistica, reo soltanto d’aver pensato a una energia indipendente per l’Italia, non a caso difeso da intellettuali dell’area del “Mondo” di Mario Pannunzio; Enzo Tortora, dove le “non pruove divennero pruove” ( per dirla con il chiaro dettato di Mario Pagano, martire del 1799 ); Vincenzo Muccioli, incriminato per aspetti particolari della Casa creata a Rimini; di magistrati persino suicidi in carcere ( v. Perugia ), per vicende di reciproche accuse incrociate; di suicidi socialisti nella pagina della cosiddetta Tangentopoli; di indagini mai giunte a chiarezza convincente e definitiva per il caso Ustica, nel qual ambito non si sa ancora bene se ci fu intervento di un missile ( e da chi o perché scagliato ) o di una bomba sistemata bordo ( il cielo limpido non consentendo rappresentazioni di cause missilistiche )? Si vuol negare, forse, che esista un problema di distinzione di poteri e di carriere e di riequilibrio dei poteri? Come giunta alla derrata, interviene una dichiarazione a mezzo stampa resa al “Mattino” con testo registrato e anticipazione delle motivazioni della sentenza definitiva del 1° agosto. “Le non pruove diventano pruove”, direbbe forse ancora il coraggioso filosofo illuminista del diritto penale, Mario Pagano. Allora, se Koestler scrisse “Schiuma della terra” ( autobiografia della detenzione con il gigante Leo Valiani, detto “Mario”, al campo francese di concentramento di Vernet nel 1939 ), oggi si potrebbe postillare – non senza citare la “Filosofia della prassi” di Italo Mancini: “Per il diritto le campane suonano a morto” – “Schiuma del diritto” (“Scum of the Law”, anziché “Scum of the Earth” ) .

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