I numeri da cui comincia la valanga Occupy

OWS, world unemployment. Dalla nascita del Movimento di protesta newyorkese, poco più di sei mesi fa, a un mondo pieno di disoccupati. Si allargano a vista d’occhio, come le crepe di un terremoto che corrono lungo la sfera terrestre, le disuguaglianze sociali. Avanzano tra le classi, i ceti, le categorie. I ricchi sono sempre più ricchi (e in un gruppo sempre più ristretto) e i poveri sempre più poveri (e in larghissima maggioranza).
«La polarizzazione è cresciuta» osserva l’economista nostrano Mario Pianta nel suo recentissimo Nove su dieci, perché stiamo (quasi) tutti peggio di dieci anni fa (Laterza): «L’1% più ricco degli italiani – 380 mila persone in età da lavoro – ha una fetta del reddito totale di quasi il 10% nel 2008, contro il 7% degli anni Ottanta. Oggi la loro quota di reddito è quattro volte quella dell’intero 10% più povero: ciascuno di questi “super-ricchi” guadagna quanto 40 poveri».

La forbice non si ricompone, anzi. Si allarga a dismisura. È così dagli anni Ottanta, da più di trent’anni. I terremoti finanziari, le speculazioni, a partire dal crollo delle Twin Towers fino alla crisi provocata dai mutui subrime, l’hanno ulteriormente acuita. Tanto che la povertà non è più «senza fissa dimora», come detto con espressione efficace da don Paolo Gessaga, fondatore degli empori della Caritas. La povertà è tra noi. Diffusa e afona. Al pari delle disuguaglianze. Forse meno apparente, ma certamente più profonda.
Eguaglianza ed egualitarismo sono ormai terminologie rese vecchie, obsolete, datate, messe da tempo forzatamente ai margini del vocabolario, anche se la vittoria di Hollande in Francia ha riacceso le speranze di una nuova dinamica economica che rimetta al centro crescita e sviluppo (ed equità), opposti al rigore dei conti e delle compatibilità di bilancio e quindi anche riaggiusti il vocabolario ricollocando le parole nell’ambito dell’interesse collettivo.

Ma intanto Paesi come la Grecia sono al default. L’Italia sta meglio ma non benissimo. La Spagna è in piena recessione e continuamente sul crinale mentre il contagio della crisi si allarga a macchia d’olio in tutta l’Europa mettendo così in pericolo anche l’economia degli States, che avvertono il rischio e mettono le mani avanti. Con vertici, rinsaldando il nuovo asse italo-francese (Monti-Hollande), possibilista e dialogante, e mettendo in mora quello vecchio e superato franco-tedesco (Sarkozy-Merkel) più rigoroso e rigido.
Sta di fatto che se in un Paese come l’Italia i poveri tra gli operai rischiano di sfiorare il 20% (erano il 14,5% a metà del 2010) c’è un dato che fotografa la distanza abissale di reddito tra classi, ceti e categorie: la differenza di reddito tra l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, e i turnisti della sua fabbrica e che viaggia su livelli stratosferici. Il primo guadagna 435 volte i secondi. Ciò che conferma che neppure la recessione è uguale per tutti. Anzi, è addirittura inversamente proporzionale.

Di questo passo, l’economia europea e il suo destino (e non solo di quella) rischiano di diventare una “tragedia greca”. Di chi la colpa? Della globalizzazione? Della moneta unica? Degli squilibri di potere e del protezionismo praticato dai Paesi ricchi? Dalla liberalizzazione eccessiva o dalla finzione costituita dai mercati e dalle loro regole? È indubbio che, nonostante la crisi, la povertà in aumento, i continui crolli delle Borse mondiali, le fibrillazioni dello spread, si assiste ad una certa “esuberanza finanziaria” dove alcuni (pochi) continuano ad arricchirsi a di spetto dei più (tutti gli altri). E allora da dove deriva questa “esuberanza”?

L’economista francese Jean Paul Fitoussì, professore all’Istitut d’Ètudes Politiques di Parigi e alla Luiss di Roma, non ha dubbi: «Deriva dallo squilibrio che si è creato su scala mondiale tra risparmio e investimenti. Le grandi imprese si liberano dalle congiunture nazionali internazionalizzandosi e i loro profitti si gonfiano velocemente. Ma non esistono, nei Paesi più ricchi – prosegue il docente -, sufficienti opportunità di investimento. Questi eccessi di liquidità vengono investiti nelle fusioni-acquisizioni o nell’immobiliare. Una per l’altra sono attività di stock piuttosto che di flusso: si scambia ciò che esiste già, palazzi o imprese, e il valore di ciò che esiste aumenta, ma non si creano nuove ricchezze. Le imprese hanno dal canto loro altre possibilità? Se ci si mette dal punto di vista europeo, la debole crescita che conosce l’intera zona da almeno quindici anni scoraggia gli investimenti. La loro redditività è per altro migliore in Asia e non lo è negli Stati Uniti perché questi non si preoccupano del loro deficit estero, vale a dire che investono molto più di quanto risparmino. Un ragionamento, questo, che ci porta dritti dritti alla questione degli “obiettivi” delle politiche economiche: se l’obiettivo europeo ridiventasse un obiettivo interno di crescita degli investimenti e dei livelli di vita, questo contribuirebbe notevolmente alla riduzione degli squilibri finanziari mondiali».

Tema e ragionamento quanto mai d’attualità, dopo la caduta di Sarkozy battuto dal socialista Hollande alle recenti presidenziali francesi. E se all’origine delle disuguaglianze «ci sono i drastici tagli al welfare», come osserva Pianta, è anche vero che al fondo c’è un problema vero e proprio di democrazia. Chi non sogna infatti «una democrazia mondiale dove tutti gli abitanti del pianeta possano ricevere la stessa attenzione?» come si chiede Fitoussì. Forse è giunta l’ora di intraprendere questa strada, cominciare a costruirla immaginando l’intelaiatura delle future istituzioni. «Protezione non significa protezionismo». Già.

Il Global Wealth Report del Credit Suisse, ad esempio, lo scorso autunno indicava che l’1% di chi sta in cima alla piramide economica e sociale controlla il 38,5% della ricchezza mondiale e che i propri averi sono cresciuti del 29% in un solo anno, cioè ad una velocità doppia rispetto alla crescita della ricchezza complessiva del Pianeta. Pertanto Occupy Wall Street non è stato altro che un movimento di denuncia di un fenomeno reale quanto concreto: quelli che stanno in cima hanno spiccato il volo distanziando sempre di più la maggioranza della popolazione. Un studio affascinante redatto dagli storici Peter Lindert e Jeffrey Williamson ha dimostrato che mai nella storia passata l’1% della popolazione abbia avuto una quota così larga di ricchezza nazionale. Per esempio, nel 1774 quando ancora c’era il colonialismo inglese e quindi l’aristocrazia, l’1% dei privilegiati nel New England controllava appena il 9% del totale.

Ciò significa che la nobiltà dell’epoca viveva in condizioni meno distanti dalla media rispetto alle oligarchie del Terzo millennio, composte da oligarchi russi, sceicchi miliardari, finanzieri e persino giocatori e campioni di football.

Colpa delle politiche neoliberiste? Nella storia americana la dilatazione abnorme delle disuguaglianze ha una sua precisa data di nascita: il 1982, con l’avvento di Ronald Reagan alla presidenza degli Stati Uniti, epoca segnata da un sistematico attacco al sistema del welfare state, al potere dei sindacati, unitamente a politiche fiscali sempre meno progressive. Quindi è dal 1982 che l’!% ha iniziato a distaccarsi dal resto del mondo, si allarga verso la stratosfera economica e finanziaria, allarga le distanze. Come recitava una cover del settimanale The Nation di diversi mesi fa, «Wall Street ha inventato la lotta di classe» tanto che – per dirla con un inchiesta del tedesco Die Zeit del dicembre scorso – «la crisi ha dimostrato che il sistema capitalista non funziona più» e il ciclo è giunto alla sua fine mentre tornano in auge le ricette marxiste e i modelli socialisti.

Perché se un effetto dell’aumento delle disuguaglianze c’è, lo si riscontra nella diminuzione della democrazia. Il processo è semplice: mentre accumulavano ricchezza, i ricchi accendevano prestiti, che sono andati a sommarsi ai debiti di necessità del resto della popolazione. Poi, quando le bolle speculative sono esplose, tutte le economie del mondo si sono trovate davanti a un eccesso di debito privato che le ha fatte crollare. Ciò che ha prodotto meno entrate fiscali e un aumento del disavanzo pubblico. I governi hanno pur provato a contrastare gli effetti della crisi con piani di rilancio finanziati con risorse pubbliche, ciò che ha finito però con il sostituire il debito privato con il debito pubblico. Una spirale pericolosissima. E così s’è pensato che per guadagnare in competitività la prima cosa da farsi – in un’epoca di globalizzazione – fosse proprio diminuire lo stato della protezione sociale, ridurre il costo del lavoro e, soprattutto, non tassare i ricchi per evitare che esportassero i propri capitali o cambiassero addirittura paese. Ora il risultato è che in giro per il mondo di sovrano c’è solo il debito.

Ma come si fa a ripensare la disuguaglianza in un’epoca di disparità così accentuate? Secondo Pierre Rosanvallon, docente di Storia politica moderna e contemporanea al Collège de France di Parigi e direttore dell’Ecole del Hautes Etudes en Sciences Sociales, se nell’esperienza delle democrazie recenti «la forma sociale è rappresentata dall’individualismo della singolarità» in cui ogni individuo aspira ad emergere e apparire importante, «unico agli occhi degli altri e nessuno vuole essere ‘ridotto a un numero’», le uniche possibilità che l’umanità ha di fronte a sé sono «un ritorno agli ideali delle rivoluzioni francese e americana, al concetto di uguaglianza come relazione sociale e non come equazione aritmetica», una qualità democratica e non solo un mezzo di distribuzione della ricchezza.

Scriveva Fitoussi su un numero di Lettera Internazionale del 2005: «Si pensa oggi che il capitalismo abbia trionfato sul socialismo. Forse è vero, e sarà la storia a giudicare, ma non si può certo affermare che abbia vinto anche sulla democrazia, cioè su una ricerca incessante di forme superiori di contratto sociale. La concezione tutta liberale dell’avvenire sembra essere fondata su un controsenso: la felicità delle persone non si costruisce loro malgrado, ed è per questo che i regimi comunisti dell’Est sono crollati. A trionfare è stata, dunque, la democrazia, più che l’economia di mercato». Pertanto, «se il capitalismo, escludendo la politica diventasse totalitario, rischierebbe di crollare a propria volta, dal momento che in nessun altro ciclo della nostra storia – eccezion fatta per il periodo transitorio degli anni Trenta – le disfunzioni dell’economia mondiale sono state tanto gravi quanto lo sono oggi: disoccupazione di massa e crescita impressionante dell’illegalità e della povertà nei paesi ricchi, miseria insostenibile in molti paesi in via di sviluppo, incremento delle disuguaglianze di reddito procapite tra i paesi. Tutto ciò non può lasciare indifferente la democrazia». Già, ma come? Il rovello è questo.

Ci vorrebbe allora un “ritorno alla politica” e della politica. Ma di carattere post-liberista. Capace di battere quello che è stato definito il «blocco sociale della depressione», tutto proteso ad assicurare un «consenso passivo al potere della finanza e del privilegio». Un nuovo modello sociale ed economico “alternativo”. In tutti questi anni di crisi economica, di recessione e disuguaglianze, la risposta è stata quella di un continuo spostamento a destra di parlamenti e governi: più conservazione e anche nazionalismi. Ma dal 2011, invece, le dinamiche sociali sembrano essersi leggermente invertite: prima gli indignados a Madrid, poi il movimento Occupy Wall Street, infine il risultato delle elezioni presidenziali in Francia dove i socialisti di Hollande hanno sconfitto Sarkozy.
Piccoli spostamenti progressivi. O progressisti. Di ribellione.

Immagine di giladlotan

 

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