Il premio Sakharov a Mukwege
“L’uomo che ripara le donne”

“L’uomo che ripara le donne”. Colette Braekman, la sua biografa, non poteva trovare una formula migliore per descrivere Denis Mukwege, medico congolese al quale il Parlamento europeo ha assegnato quest’anno il premio Sakharov per la libertà di pensiero. Come spiega Braekman in Muganga, La guerra del dottor Mukwege (Fandango, 2014), in quattordici anni, questo medico ha assistito oltre 40mila vittime di violenza sessuale compiute soprattutto dai combattenti hutu venuti dal Rwanda. Le pazienti che Mukwege ha accolto nel suo ospedale fondato a Panzi – a Bukavu – sono vittime non solo di violenze, ma di vere e proprie torture e atti di sadismo. Più che curarle, il dottore deve compiere su di loro una vera e propria operazione di riparazione. Quando arrivano da lui hanno spesso la vagina dilaniata e tutti gli organi genitali distrutti. “Sono come un fazzoletto strappato: si devono riprendere i fili e riallacciarli uno a uno” ci dice quando lo incontriamo a Ferrara dove a inizio ottobre è stato ospite del festival di Internazionale. “Servono ago e filo per riparare e ricucire un tessuto che è stato squarciato” aggiunge, mimando il gesto di sarto che ricucendo le parti più intime delle donne spera di ridare loro quella dignità che prima la violenza e poi la società gli hanno tolto, trattandole da paria.

Lei ha creato l’ospedale di Panzi per fare il normale ginecologo, ma è diventato famoso come l’uomo che ripara le donne. Perché questa evoluzione professionale?

L’ospedale di Panzi, situato a est della Repubblica Democratica del Congo, è stato costruito nel 1994 e io stesso come ginecologo ostetrico avevo lavorato nell’est del Congo per molti anni quando la guerra è cominciata. Mi ero ritrovato al centro di questo conflitto e avevo visto la sofferenza delle donne della città di Bukavu, dove le donne morivano per la mancanza di cure ostetriche – parti cesarei, emorragie. E mi sono detto “non c’è bisogno di un grande ospedale per salvare una donna che sta sanguinando o che deve fare un cesareo”, quindi volevo fare un piccolo ospedale di campagna, in una tenda, ma che avesse un blocco operativo, materiale sterile e dove si potesse operare. Ecco come è cominciata la storia dell’ospedale. Ma quando l’ospedale ha preso il via, anziché le donne che dovevano partorire, mi sono ritrovato a curare soprattutto le donne che arrivavano, vittime di violenza. E si trattava di una violenza estrema, con delle ferite indescrivibili al loro apparato genitale. Allora, purtroppo, ha avuto inizio una storia molto triste. Le donne rotte andavano riparate.

La violenza sul corpo delle donne è una guerra nella guerra del Congo?

Nel 2002, Human Right Watch ha scritto un articolo dove diceva proprio questo: la guerra nella guerra, la guerra sui corpi delle donne. In effetti, le donne sono state l’obiettivo: sono state prese di mira in modo particolare, semplicemente per destabilizzare la comunità. Perché le violenze che sono state fatte sulle donne non erano violenze atte a soddisfare un bisogno o un desiderio sessuale qualunque, ma erano violenze fatte per umiliare, per distruggere la donna e quindi la vita e società intere. Perché queste donne venivano violentate in pubblico, di fronte ai loro mariti, ai loro figli, di fronte a tutta la comunità. E una volta violentate, spesso veniva introdotta qualunque cosa nelle loro vagine. Ho visto dei pezzi di albero, dei colpi di arma da fuoco, delle baionette, dei prodotti tossici, etc. Credo che fare una cosa del genere all’apparato genitale della donna non c’entri nulla col desiderio sessuale: è un desiderio di distruzione – molto semplicemente: un desiderio di distruggere quella matrice dell’umanità, che è la donna. Prima della guerra non avevo mai curato le ferite che ho visto e che vedo ancora oggi. La prima volta che ho visto questo genere di atrocità inflitte all’apparato genitale della donna è stato durante la guerra, l’ultima a inizio ottobre. Su delle neonate.

Le violenze che le donne subiscono sono sempre le stesse?

Tutte le donne che arrivano all’ospedale raccontano delle storie simili. Ogni gruppo armato che le aggredisce ha però un proprio modo di agire, di terrorizzare, di distruggere le donne. È come se lasciasse sul corpo della donna dilaniato una firma. Spesso, in effetti, le donne sono state prelevate dalle loro case mentre dormivano: le bande, i gruppi armati entravano nelle loro case, le prendevano e cominciavano a violentarle con un grande terrore consistente in tutte le atrocità che potete immaginare sull’apparato genitale femminile. Ne abbiamo viste di tutti i colori. Anche sulle donne gravide. Signore sventrate, o dal cui ventre esce un bambino. Ci sono state donne messe incinta dai barbari che le hanno violentate. Abbiamo avuto ogni sorta di barbarie su queste donne che quindi non solo restano incinte, ma che anche danno vita a dei bambini che sono figli di uno stupro e che sono esclusi a loro volta dalla società.

Le donne che si rivolgono a lei tendono a nascondere o a raccontare le violenze subite?

Le donne tendono a nascondere la loro storia. Noi seguiamo un programma chiaro. In teoria chiediamo a tutte le donne di presentarsi 72 ore prima dell’operazione per ricevere il kit di profilassi, ma molte donne si nascondono e non si presentano. Vengono quando hanno dei dolori. E perché non vengono prima? Perché hanno paura dell’esclusione sociale, temono che dicendo di essere state violentate subiscano la seconda sanzione che è quella che proviene della comunità. Quindi lo dicono quando ormai è troppo tardi e non sanno più che cosa fare. Ma quando ad esempio si spara dentro a una vagina sono costrette ad affrettarsi. È anche per questo che mi sono ritrovato di fronte a una situazione che dovevo denunciare, perché avevano delle ferite che non mostravano a nessuno. L’unica cosa che io potevano fare era operarle. E i casi venuti a Panzi sono i casi più gravi. Non si tratta soltanto di violenze semplici – certo, non esistono violenze “semplici”, ogni violenza è grave – ma qui si tratta di casi con distruzione del retto, della vescica, con strappi enormi. E dunque le donne che arrivano possono anche mentire e dire che sono cadute, che si sono fatte male – ma sono medico e so vedere se una ferita è dovuta a una caduta o se è dovuta all’introduzione di cose nell’apparato genitale.

Le donne possono di nuovo avere relazioni sessuali dopo le operazioni?

Sì, ci sono alcune donne che dopo si sono anche sposate e questa è stata una cosa molto positiva, per loro e per noi. Ci dà coraggio vederle con i loro mariti, o vedere che hanno avuto dei figli dal loro matrimonio dopo dei drammi simili. Sono un seme di speranza. Non mi piace molto parlare di cifre perché anche una sola donna salvata è tanto. Ma, ad oggi, abbiamo aiutato già più di 50 mila donne. Speriamo che la percentuale di quelle pienamente riabilitate cresca.

Riparato l’apparato riproduttivo, pensate anche a come rimettere in moto la psiche femminile?

Di norma, nel momento in cui prendiamo in cura delle vittime di violenza sessuale, cominciamo sempre con una consultazione per verificare la ferita fisica. Ma al momento in cui si inizia la cura ci si rende conto che al tempo stesso le donne hanno un trauma psicologico profondo. Quindi oltre ai medici e ai chirurghi abbiamo una squadra di assistenza sociale: abbiamo psicologi e psichiatri che aiutano le donne prima di sottoporsi al trattamento chirurgico. Spesso, quando si inizia il trattamento senza poter fare prima questo tipo di terapia, l’operazione può finire male perché la donna soffre psicologicamente.
Prevediamo poi anche un’assistenza legale. Abbiamo giudici e avvocati che qualora le donne vogliano sporgere denuncia le aiutano a costituire un dossier. Anche se poi loro non si rivolgono alla giustizia subito, ma almeno gli avvocati possono costituire la documentazione che poi può essere trasmessa alla giustizia.
Infine c’è la riabilitazione socio-economica, attraverso la quale facciamo rientrare le donne più giovani a scuola e cerchiamo di insegnare alle donne più adulte un nuovo mestiere o di darle un lavoro che permetta di guadagnarsi da vivere.

Guerra a parte, quanto questo fenomeno ha a che fare con la cultura patriarcale ancora forte?

Esiste la società senza la donna? No. Ma quando ti trovi in una società dove lo scopo è quello di distruggere la donna, quando questa stessa società senza la donna non può esistere, sorgono delle domande. Quando la società prende l’attitudine di distruggere – in effetti, è distruggere – la donna, tu ti domandi: dove va questa società? È finita! È una forma di autofagia, dove ci si distrugge a vicenda. Ma questo auto genocidio – se si può chiamare così – comincia a livello mentale, col rifiutare che la donna non è uguale a me. E così facendo la donna diventa un essere inferiore e quindi la si oggettivizza e la si distrugge. E cosa ci sarebbe dopo senza la donna? Non si esisterebbe più.
Si è mai visto un toro montare un vitello? No, non esiste. Un toro non va a cercare un vitello. Ma se un uomo violenta un bambino di sei mesi, c’è qualcosa che non va. E si può pensare che sia colpa della cultura, dell’Africa, che siano cose che riguardano gli altri e non me. Ma, attenzione! Vogliamo andare più lontani? Vogliamo andare in Bosnia dove ho incontrato donne che hanno subito le stesse cose che mi vengono raccontate dalle donne nel Congo? Ho visto le donne colombiane che da anni subiscono delle violenze sessuali. Ho incontrato le donne libiche – mi avevano detto che i musulmani non stupravano e ci credevo, ma quando ho incontrato le donne in Libia ho compreso il dramma che hanno subito: avevano l’obbligo di tacere perché se parlavano subivano il crimine d’onore. Questo tipo di violenze sono così generalizzate nei conflitti che sta a noi tracciare una linea che non deve essere oltrepassata. Se siamo umani e se vogliamo che l’umanità continui a essere basata su dei valori umani c’è una linea di confine che non va oltrepassata. Non possiamo accettare che perché non c’è più la legge, perché non c’è la polizia, perché non c’è nessuno che mi vede, tutto quello che posso fare di una donna è straziarla e brutalizzarla.

Che cosa è successo quando, nel 2008, è andato a parlare, indignato, alle Nazioni Unite?

Sono andato all’Onu per dire che mi vergognavo della nostra epoca e della nostra umanità. Perché le persone tacciono di fronte a un dramma di questo genere? Restiamo zitti di fronte alle donne maltrattate, perché abbiamo bisogno delle materie prime congolesi per fare gli i-Phone? Ho espresso la mia indignazione di fronte alla comunità internazionale, ma anche di fronte a quella nazionale. A proteggere il Congo e la sua gente deve essere innanzitutto chi gestisce il potere nel paese.
Purtroppo la mia indignazione non è piaciuta a tutti i miei concittadini e così quando sono rientrato nel paese sono stato vittima di un attentato. Uno dei miei agenti è stato ucciso sul posto, io sono scappato. È stato un colpo durissimo per me.

E le congolesi come hanno reagito?

Se oggi sono tornato al Congo è perché le donne del mio paese hanno reagito. Hanno scritto al presidente del Congo Joseph Kabila e al Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban-Ki Moon, reclamando il mio ritorno. Hanno detto “Se non potete farlo voi, noi lo proteggeremo”. L’ho trovato un gesto molto coraggioso e così ho deciso di ritornare.

 

Elisa Gianni ha contribuito alla stesura dell’intervista

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