LIVING TOGETHER, DIFFERENTLY

Massimo Rosati

Docente sociologia generale Università di Roma Tor Vergata

Un anniversario speciale

Libri.

Friedrich Schleiermacher, Rudolf Otto, William James, Gerardus Van Der Leeuw, Mircea Eliade: sono alcuni dei grandi nomi di storici e studiosi delle religioni che hanno informato, letteralmente, il nostro modo ‘moderno’ di comprendere le religioni, quelle arcaiche e quelle che oggi chiamiamo assiali. In comune, con una certa dose di approssimazione, si può dire che avevano un approccio fenomenologico, centrato sull’analisi dell’esperienza religiosa. Nelle loro mani la religione diventa esperienza del divino, del sacro, del mysterium tremendum, del fascinans. Nelle loro mani, la religione diventa per lo più individuale e soggettiva esperienza del fascinans. Per quanto alcuni di loro avessero una fascinazione politicamente assai sospetta per l’arcaico, la modernità non ha faticato affatto a entrare in risonanza con la soggettivizzazione e individualizzazione della religione cui le loro pagine invitavano. Svanita l’ingenua concezione della secolarizzazione come estinzione delle religioni dall’orizzonte sociale, la modernità ha preso a pensarla come un fatto individuale, di coscienza, privato, esperienza soggettiva appunto. Quel che abbiamo perso è stata la capacità di pensare le religioni come un fatto pubblico, collettivo, che investe sì identità individuali, ma molto più identità di gruppo. C’è voluto del tempo per poter ricomprendere fenomeni come la de-privatizzazione delle religioni, il complesso intrecciarsi delle religioni, anche storiche, con la vita sociale e politica, che va di pari passo con le trasformazioni del sacro in chiave individuale. Fai da te delle religioni, patchwork religiosi, believing without belonging etc. vanno di pari passo con la modernissima presenza delle religioni tradizionali nel panorama globale.

Quest’anno ricorre il centenario della pubblicazione de Le forme elementari della vita religiosa, apparse in Francia appunto nel 1912. L’autore di questo straordinario libro, il sociologo David Émile Durkheim, decise di portare, come si disse con grande scandalo all’epoca, ‘i selvaggi alla Sorbona’. Scrutò la vita religiosa degli aborigeni australiani, per ‘svelare’ all’uomo moderno quanto rito e sacro siano costitutivamente intrecciati alla vita sociale. Mostrò il carattere ‘religioso’ del sociale, e quello ‘sociale’ della religione. Aprì la strada all’antropologia e all’etnologia moderne, spalancò la via allo studio del simbolismo nella vita collettiva, ma soprattutto – contro il senso comune modernista – argomentò con forza la tesi del carattere ineliminabile della religione nella vita sociale, e il carattere collettivo della religione. A cento anni dalla loro pubblicazione, non abbiamo bisogno di prostrarci davanti all’altare delle Forme elementari; ne discutiamo i limiti e ne critichiamo le debolezze. Ma un qualsiasi onesto sforzo di comprensione dei fenomeni religiosi che volesse prescindere dal confronto con l’opera durkheimiana sarebbe destinato, in partenza, al fallimento. Da casa nostra al mondo grande e terribile, gli intrecci tra religioni, politica e società ci travolgono, ci sollecitano a sforzi di comprensione e a prese di posizione. A cento anni di distanza, l’opera di Durkheim rimane strumento essenziale per rispondere, al meglio delle nostre capacità, anche al nostro tempo. Altri cento di questi giorni, vecchio Émile.

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