THE VISIONNAIRE

Francesco Grillo

Francesco è Amministratore Delegato di Vision and Value, società di consulenza direzionale e si occupa soprattutto di valutazione di politiche pubbliche per organizzazioni internazionali. E' direttore del think tank Vision, con cui gestisce diversi progetti dedicati a "le università del futuro", "big society", "la famiglia del futuro" ed in generale all'impatto della rivoluzione delle tecnologie dell'informazione sulla società e sull'economia. In precedenza ha lavorato per la Bank of Tokyo e con McKinsey. Laureato in economia alla LUISS, ha completato un MBA alla Boston University e un PhD presso la London School of Economics con una tesi sull'efficacia della spesa pubblica in ricerca (http://www.visionwebsite.eu/vision/staff_cv.php?cv=1) . E' editorialista de Il Mattino e de Il Messaggero ed è autore di diversi libri sull'impatto di Internet sulla sanità (Il ritorno della rete, Fazi, 2003), sull'automobile (La Macchina che cambiò il Mondo, Fazi, 2005), sui media (Il Sonno della Ragione, Marsilio, 2007).

TRE RIFLESSIONI SUL REFERENDUM (1) – I MOTIVI DELL’INARRESTABILE ASCESA DEL (COSIDETTO) “POPULISMO” E.. IT IS DEMOCRACY STUPID

Si sono sprecate in questi giorni le analisi di un voto che ha, all’improvviso,  spinto l’Italia da uno scenario da seconda Repubblica nella quale a fatica stava emergendo un modello di governo maggioritario, verso un passato che girava attorno a rappresentazioni proporzionali e governi tendenzialmente instabili. Ciò ha demolito certezze alle quali stavamo per abituarci. Duramente com’è successo per il voto nel Regno Unito e negli Stati Uniti, ma in un contesto quello italiano nel quale è più difficile dire da che parte era l’”establishment”.

Come mai siamo arrivati a questo punto? Cosa lega – facendo una riflessione globale che appare necessaria – tra di loro il risultato delle elezioni inglesi, americane ed italiane? Trovare risposte giuste è  fondamentale per poter investire nella maniera giusta capitali politici e risorse scarse: il guaio è che, però, molti analisti dimostrano di essere troppo vicini alle élités di cui dovrebbero spiegare la crisi, sia per prevedere le catastrofi che per identificarne le cause.

Cominciamo a dire che l’ascesa del “populismo” (ed anche questo nome va corretto) non può essere spiegata, come fanno tanti, con le famigerate politiche economiche dell’Europa. Ciò potrebbe valere per il caso italiano. Ma non ovviamente con quello americano; e neppure quello inglese, visto che Londra non ha mai avuto nulla a che fare con il famigerato patto di stabilità.

E neppure possono spiegare – da sole – ciò che è successo nel 2016, le sofferenze diffuse, le disuguaglianze feroci ed un ceto medio che si sta da tempo proletarizzato: tutti questi fenomeni sono drammatici ma erano – basta vedere i numeri degli istituti di statistica nazionali  – ancora più forti quando nel 2012 Obama fu confermato alla guida degli Stati Uniti che ancora non erano usciti dalla crisi; o nel 2015 quando il conservatore Cameron rivinse le elezioni politiche nel Regno Unito.

È vero che, tornando al caso italiano, il tasso di disoccupazione per Regione appare, oggi, correlato al NO: la stranezza è, però, che solo nel 2014 (sembra passato un secolo) il Partito Democratico fu – alle elezioni europee – il primo partito in tutte le province della Sicilia con il 35% dei voti e oggi – dopo un 2015 nel quale per la prima volta dopo sette anni la Sicilia è tornata a crescere, sia per PIL che per occupazione, superando il tasso di crescita del Centro Nord – il NO ha superato il 70%.

Stesso ragionamento, infine, per l’immigrazione. Il dato degli Stati Uniti è davvero sorprendente e nessuno lo cita:  nel 2015 ci sono stati 188,000 ingressi di messicani negli USA che è il numero più basso della storia; nel 2000 erano dieci volte di più. Eppure quindici anni fa  nessuno parlava di muri e oggi ci si vincono le elezioni.

E allora? Sembra quasi che in questo “annus horribilis” (che però è, invero, assai interessante) siano semplicemente scoppiate tensioni che covavano da tempo e che magari un tempo erano persino più gravi. A fare la differenza non sono però tali disagi. Ma la possibilità – quella davvero nuova – che le tecnologie stanno fornendo alle persone – da Enna a Detroit passando per Newcastle – di aggregare risentimenti senza più aver bisogno di grandi mediatori. Sono i giornali, la televisione, il pezzo di establishment che è davvero saltato. Ed al suo posto ci sono piattaforme digitali sulle quali stanno avvenendo fenomeni che neppure capiamo. La miscela la fornisce l’economia; ma la miccia è accesa da strumenti di comunicazione potenti e non governati che pongono – senza averne l’intenzione perché semmai Zuckerberg faceva il tifo per la Clinton – un problema enorme alla democrazia. Problema non si può risolvere tornano semplicemente indietro.

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