L'ASINO DI BURIDANO

Massimo Parodi

Professore di Storia della filosofia medievale all'Università Statale di Milano.

Storia e laicità

Da anni intrattengo un dialogo continuo con Agostino di Ippona, grande pensatore sicuramente cristiano all’origine di molti temi, atteggiamenti, convinzioni, considerazioni che hanno segnato il pensiero e la cultura del mondo occidentale, almeno di quello di lingua latina. Le sue opere e le sue riflessioni aiutano a pensare ai problemi della nostra tradizione filosofica, ai temi della conoscenza, della felicità, del senso della vita, dell’ordine o del disordine del mondo, del destino, del male soprattutto e aiuta non solo chi condivida la sua fede nella verità della religione cristiana, ma chiunque voglia condividere la sua sensibilità e, naturalmente, il suo rispetto per la tradizione e le tradizioni religiose. Spesso, anche in questo blog, ho avuto occasione di chiamarlo il mio Agostino, perché non sono sicuro che quanto mi ha insegnato sia esattamente quello che intendeva insegnare. Non mi ha convinto ad esempio della verità della rivelazione cristiana, ma insegna comunque quanto quella tradizione sia importante per la nostra cultura.
Questi giorni di massacri, di scontri, di saccheggi e atrocità compiute in nome della religione, che ricordano altri giorni di atrocità compiute in nome di altre religioni fanno emergere qualche difficoltà a mantenere il necessario rispetto storico per quelle tradizioni e convinzioni che spesso, troppo spesso, hanno originato pagine scure della convivenza umana, illuminate solo da roghi che speravamo – sbagliando – ormai superati e dimenticati.
È noto che cercare di mantenere sempre e di difendere uno sguardo di carattere storico anche sulla realtà nostra contemporanea espone al rischio di giustificare comunque i dati di fatto, di sacralizzare in certo senso la realtà così com’è. Per sperare di cambiare il mondo occorre pensare che ci sia qualcosa di sbagliato e che lo si possa correggere, occorre pensare che esista da qualche parte, forse nella nostra mente, ma abbia un qualche fondamento l’idea di un dover essere che non è rispettata dal mondo che abbiamo davanti. Ma se tutto si spiega con la storia, è difficile convincersi che si possano usare categorie di giudizio come giusto o sbagliato. In fondo credo sia per questa ragione che le grandi utopie del secolo scorso si sono basate non sulla convinzione di un mondo ideale da contrapporre a quello reale, ma su quella di un possibile sviluppo storico che abbia in sé le ragioni e la potenzialità di produrre un ordine più accettabile.
Abbiamo scoperto, con grande angoscia e tristezza, che illudersi di conoscere come debba andare il futuro riporta inevitabilmente alle cose peggiori della religione, agli stessi errori, alla stessa convinzione di potere e dovere forzare il corso delle cose verso un ordine che non riesce a prendere forma ma va comunque imposto perché fondato su convinzioni scientifiche. E allora ricompaiono affermazioni escatologiche di ispirazione religiosa.
Eccidi, stragi, decapitazioni, roghi, ma in nome e in vista di cosa? Certo li si può comprendere e spiegare ricordando da dove storicamente provengano, da quali intrecci di vicende economiche, politiche e ideali, ma proprio qui sorge il difficile problema di come comprendere la storia e, nello stesso tempo, essere nella storia in cui ci si trova a vivere. Per questo nasce un impulso a ribellarsi, anche dal punto di vista culturale, a quel grande rispetto che lo sguardo storico rischia di garantire a tutto ciò che accade. La tentazione di spogliarsi del rispetto culturale e dire, o magari urlare, che siamo stufi di dover discutere e rispettare quelle che, in ultima analisi, siamo convinti siano favole. È importante studiare i grandi pensatori del passato e rispettare le loro convinzioni per comprendere che cosa ancora possano dire alla nostra sensibilità, a volte molto diversa, ma nasce la terribile domanda su quando questa sensibilità abbia il diritto di diventare uno degli interlocutori del nostro mondo di oggi.
Per questo può sembrare importante quanto si è letto in un lancio dell’ANSA del 22 gennaio scorso e su cui poco si è discusso:

“Una giornata della laicità verrà celebrata ogni 9 dicembre nelle scuole di Francia”: lo ha annunciato il ministro dell’Istruzione, Najat-Vallaud Belkacem, presentando a Parigi le nuove misure del governo socialista per rafforzare i valori della Repubblica nella scuola, a due settimane dalle stragi di Parigi. Nella lotta contro la radicalizzazione dei giovani islamici e il terrorismo la scuola non può fare tutto, ma è un elemento essenziale”, ha poi notato il premier Manuel Valls.

Ma lo storicismo riaffiora. È forse vero che la laicità nasce comunque all’interno di una precisa tradizione religiosa, di quella tradizione cioè che afferma, con Paolo nella Lettera ai Galati (3.28), Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù e che si è venuta formando sottraendo poco alla volta i riferimenti religiosi e metafisici delle ultime parole. È forse vero che una giornata della laicità rischia di fare della laicità una nuova chiesa, perché i laici sono laici proprio in quanto non è scritto che debbano andare d’accordo, avere leggi sacre in cui riconoscersi, valori sempre comuni, atteggiamenti sempre simili.
Forse la storia o la si studia o la si fà. Peccato!

  1. La laicità imposta per editto finisce sempre per essere laicismo, cioè una nuova religione che rivolta come un calzino quella vecchia. A pochi km da Parigi ci sono banlieue al 99% arabe, con le insegne dei negozi in arabo e la moschea. Ma a scuola si entra senza velo. Lo Stato, per aprirti la scuola, che è anche tua, ti impone di rinunciare a un elemento di identità.
    Si verifica un’irruzione di non contemporaneità, il giovane cittadino francese di origine magrebina vive la scuola repubblicana come suo nonno viveva la scuola coloniale ad Algeri, nel 1950. E da lì si ricomincia.

  2. Da un punto di vista antropologico i terroristi sono tre volte alieni: perchè stanieri non integrati, perchè delinquenti, perchè dominati, allora credo che guarire dal terrorismo significhi curare queste cause, naturalmente nel frattempo la società deve difendersi e organizzarsi ma non mi sembra che le risposte militari, per esempio l’attacco all’Afghanistan o all’Iraq, abbiano portato da qualche parte. Chi sono i paesi canaglia? Io me lo chiedo.

  3. FORSE … forse , come ha scritto Michela Marzano, dobbiamo riscrivere la grammatica del potere alla luce delle categorie delle emozioni morali. Solo così si potrà passare dalla ‘umiliazione’ e dalla ‘rabbia’ degli impotenti, alla ‘fiducia’ e alla ‘speranza’ nel futuro, dal ‘senso di ingiustizia’ di quasi tutti al ‘coraggio’, di cui pure tutti abbiamo bisogno per uscire dalle sabbie mobili. Fondare una antropologia della politica contemporanea basata su valori condivisi, che non possono essere appannaggio del pensiero forte ma che sono appunto quelli della laicità e dello spirito di tolleranza … primo fra questi il rispetto per l’altro anche quando è estraneo e straniero (Fremd) alla luce di un principio regolativo di gentilezza, che non è uno stato sentimentale ma la rinuncia alla violenza delle nostre interpretazioni precostituite, dei nostri pregiudizi, delle nostre proiezioni sull’altro delle nostre paure e della nostra aggressività.
    Ha scritto Mauro Manica in un suo bellissimo saggio: Vorrei assumere la categoria del ‘gentile’ in una accezione specifica, derivandola da quel principio ebraico , ma universale, che recita: ‘Sii ‘gentile’ con lo straniero perchè hai già conosciuto cosa voglia dire essere stranieri in Egitto.

  4. L’articolo solleverebbe dieci pagine di commento, ma me ne astengo. Mi richiamo unicamente alle parole di chiusura, ponendo una domanda in riferimento all’aut-aut finale.
    E se studiare la storia impedisse di farla?
    Se così fosse, forse, la natura dell’impasse verrebbe (tragicamente), almeno in parte, risolta.

  5. Un valore sempre comune? Considera l’umanità, sia nella tua persona [imperativo molto importante per la nostra salute fisica e spirituale!], sia nella persona di ogni altro uomo, sempre anche come fine e mai soltanto come mezzo

  6. Ovviamente non volevo attribuire a Paolo la paternità di un atteggiamento laico, ma segnalare un problema: che solo all’interno della tradizione che nasce con il Non c’è più giudeo né greco si viene formando – lungo i secoli – quella idea che definiamo laicità e che faticosamente si è liberata dei fondamenti religiosi e metafisici.
    Ma, di fronte a quello che è successo e che sta succedendo, non è assolutamente possibile superare la natura puramente parassitaria, senza trasformarci in una nuova chiesa? I have a dream: una manifestazione oceanica – prima del prossimo attentato – preceduta da un enorme striscione su cui a lettere cubitali sia scritto: F O R S E.

  7. Posto che l’origine storica della laicità, come ricorda Riccardo, non significa che essa sia una favola (piuttosto consente di distinguere tra dogma e valore universale, che può essere tale anche se negoziato e forse soprattutto per questo), credo che sia fuorviante il riferimento alla tradizione di San Paolo. Il quale, con le migliori intenzioni del mondo per carità, stempera l’homo homini lupus in una fede nel Dio unico che con la laicità avrebbe in comune solo la tolleranza (che non è poco, ma non è tutto). Penso che sia meglio riportare la laicità a casa sua, ai Lumi: lì è nata anche e forse soprattutto come reazione a una certa idea di fede e di società, e vi pare poco? Perché questo non dovrebbe bastarci oggi? Altrimenti ne facciamo davvero una nuova chiesa, e finiamo nel relativismo ad infinitum, ché poi parliamo parliamo e intanto ci ammazzano il nostro vignettista preferito. Accontentiamoci di questo: una laicità che non voglia colonizzare le religioni o affiancare loro un credo laico, ma che si accontenti di una natura puramente parassitaria come mera negazione di ogni forma di intolleranza e di violenza ideologica.

  8. Non so se stabilire un inizio storicamente determinato della laicità, Paolo ai Galati, non porti con sé di nuovo l’arbitrio della favola. Certo evita quel rischio che Valls – il quale mentre dichiara la giornata della laicità – espelle i bambini Sinti e Rom dalle scuole francesi (non sono forse laici? sono forse i più laici di tutti, sono anche nomadi) – ne consacra la metacategoria illuminista storiogafica (peraltro già Rousseau nelle Lettres Persanes sbertucciava questa idea di tolleranza). Il tuo Agostino, dici ti insegna una cosa: tolle e lege oppure tolle o lege? E tu da Agostinano che legge il De Civitate, giustamente concludi: Peccato. Ma a me viene in mente un altro dei nostri astuti medievali. Leggendo e rileggendo il Dialogo di Abelardo mi sono sempre chiesto dove stesse la grandezza di quel librino. Ora lo so per due motivi: uno lo tengo per me, e l’altro è che il filosofo che si presenta al giudice finalmente risarcito, cioè ad Abelardo, è laico culturalmente, ma della tribù di Ismaele, circonciso (infatti è l’incarnazione della Translatio e proviene dai canoni aristotelici e tardo antichi), e il giudice è un monaco cristiano, condannato da monaci cristiani, che invidia la grande sapienza dei laici. I quali laici non stanno sopra di lui ma a poche ore di strada da Cluny, dove da lì a poco morirà. Ci vorrà un altro giramondo come Cusano, uno zingaro per Valls, per trovare un altro dialogo così paritetico.

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