LIVING TOGETHER, DIFFERENTLY

Massimo Rosati

Docente sociologia generale Università di Roma Tor Vergata

Sacro, religioni e violenza

I nessi tra religioni, sacro e violenza sono, storicamente, innegabili. Concettualmente sono più controversi, e ampiamente indagati, soprattutto quelli tra monoteismi e violenza. L’attualità stimola una riflessione, in questo contesto solo accennata, sui rapporti tra sacro, religioni e violenza a partire almeno da due questioni.

È in pieno corso la campagna “Cities for Live, Cities Against Death Penalty”, organizzata ormai da dieci anni dalla Comunità di Sant’Egidio. 1521 città si mobilitano contro la pena di morte, organizzando iniziative a carattere educativo, per ricordare che la pena di morte è crudele, disumana, degradante, del tutto inefficacie come ‘deterrente’, vendicativa; per ricordare che essa rende irreversibile l’errore giudiziario, che è classista, razzista, e che, forse soprattutto, toglie all’essere umano, anche colpevole, una delle sue caratteristiche più straordinarie: la possibilità di cambiare. Il diritto è vendetta, organizzata e razionalizzata. Da Émile Durkheim a René Girard gli sguardi più lucidi non hanno esitato a riconoscere come il diritto conservi sempre tracce di una originaria forma di vendetta comunitaria contro la violazione di valori ritenuti sacri da una identità collettiva. Soprattutto il diritto penale. Ma se si guarda all’evoluzione del diritto penale, come Durkheim acutamente osservava e diagnosticava, si vedrà come proprio la progressiva sacralizzazione della dignità della persona dovrebbe oggi impedire, da un punto di vista secolare come da uno religioso, l’applicazione della vendetta statalmente amministrata nella sua forma più estrema. Il nesso tra sacro e violenza, se lo si guarda dal punto di vista della pena di morte, è complesso: la pena di morte può essere intesa come forma di vendetta da parte di una comunità contro la violazione dei suoi valori più sacri, così come negazione lampante e scandalosa del valore più sacro alle società moderne, ossia l’individuo stesso. Il vocabolario del sacro può essere usato sia per giustificare sia per condannare con la massima fermezza la pena di morte, e non sarà mai la teoria a sciogliere l’ambiguità, bensì, se mai, gli attori sociali che lo ‘agiscono’. Pensare che per eliminare la violenza si debba eliminare il sacro dal nostro vocabolario, significa semplicemente ignorare una elementare ‘legge’ di funzionamento del sociale, e lasciarsi andare ai più infantili sogni dell’Illuminismo. Meno sterile, invece, mobilitare il vocabolario del sacro per l’affermazione di un diritto mite, il cui primo obiettivo è l’abolizione della pena di morte.

Davanti alle immagini dei razzi su Gaza, Tel Aviv e persino Gerusalemme, il nesso tra sacro e violenza si ripresenta ai nostri occhi (e cuori) in forma dolorosa e lancinante. Da quando il conflitto israelo-palestinese è diventato anche una questione che chiama in causa conflitti su base religiosa nello scacchiere medio-orientale, il nesso tra religioni e violenza ha, nel discorso pubblico, occupato la scena, senza quasi lasciar spazio ad altre considerazioni. Parlare di religioni significa parlare di violenza, fondamentalismo, intolleranza, guerra, e parlare del conflitto israelo-palestinese significa essenzialmente parlare dell’inconciliabilità di Islam e esistenza di uno stato ebraico. Anche in questo caso, pensare che per eliminare la violenza si debba partire dall’eliminare il sacro dal nostro vocabolario è per molti la considerazione più ovvia. Ma si tratta, di nuovo, di una scorciatoia, di una forma di pigrizia intellettuale. Non solo perché la situazione palestinese ha solo in parte, e solo da un certo momento in poi, a che fare con una guerra tra religioni – prima e molto più ha altre cause –, e l’inconciliabilità tra Islam e esistenza di Israele in quanto stato ebraico è semplicemente infondata; la guerra tra religioni è, in questo come in molti altri casi, un derivato, l’effetto di una strumentalizzazione delle religioni da parte di variabili politiche ed economiche. Ma soprattutto perché accollare all’intolleranza religiosa le responsabilità del conflitto israelo-palestinese, mentre ne nasconde le cause e distorce la realtà elimina dal quadro irrinunciabili attori senza i quali non ci sarà mai pace. Ancora una volta, meno sterile mi sembra chiedere con forza alle religioni di profondere il massimo sforzo per porre fine alla guerra in Palestina e Israele, come del resto spesso fanno. Lungi dall’essere la prima causa o l’ostacolo principale alla soluzione del conflitto, l’apporto positivo delle religioni è condizione necessaria per qualsiasi processo di pace. Si tratta, banalmente, di uno di quei casi in cui senza il co-intervento delle religioni non si esce dall’angolo in cui ci si trova paralizzati. Non è buonismo, né ecumenismo, né rinuncia all’analisi politica e alla scelta partigiana – assai complicata nel contesto in questione. Si tratta, al contrario, di una scelta politica e culturale: assumere le religioni come interlocutori di primo piano nella costruzione di un percorso di cessazione della violenza, della guerra, anziché (solo) come target della critica.

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