ZATTERA SCIOLTA

Giovanni Cominelli

Laurea in Filosofia nel 1968, dopo studi all'Università cattolica di Milano, alla Freie Universität di Berlino, all'Università statale di Milano. Esperto di politiche dell’istruzione. Eletto in Consiglio comunale a Milano e nel Consiglio regionale della Lombardia dal 1980 al 1990. Scrive di politiche dell’istruzione sulla Rivista “Nuova secondaria” e www.santalessandro.org, su Libertà eguale, su Mondoperaio. Ha scritto: - La caduta del vento leggero. Autobiografia di una generazione che voleva cambiare il mondo. Ed. Guerini 2008. - La scuola è finita… forse. Per insegnanti sulle tracce di sé. Ed. Guerini 2009 - Scuola: rompere il muro fra aula e vita. Ed. Guerini 2016 Ha curato i volumi collettivi: - La cittadinanza. Idee per una buona immigrazione. Ed. Franco Angeli 2004 - Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria? Ed. Guerini 2018

MENO EUROPA o PIU’ EUROPA?

da DON LISANDER

 

di Giovanni Cominelli
LISANDER
GIU 4
L’intervento di Alberto Mingardi richiama l’attenzione sui limiti e sui successi
dell’Unione europea, ma, soprattutto, mette in guardia dai tentativi di superarli
con un salto idealistico-giacobino. “Europa non facit saltus”, sembra dire. L’idea di
passare da una Ue intergovernativa e confederale ad una Ue federale e, quindi, agli
Stati uniti d’Europa, è, secondo Mingardi, impraticabile: «Si è mai visto un esercito
senza uno stato maggiore? E in che Paese starebbe, che lingua parlerebbe, questo
stato maggiore?». Il rischio è che, per rimediare agli evidenti limiti e alle conseguenti
instabilità di un’architettura istituzionale sbilenca – Giuliano Amato ha osservato che
Montesquieu non si è mai visto a Bruxelles -, ci si infili nell’impossibile costruzione di
uno Stato-nazione europeo. Impossibile, perché non esiste una nazione europea.
Tale Stato europeo, progettato per impedire l’insorgenza di conflitti tra gli Stati-
nazione, finirebbe per rialimentarli. D’altronde, la storia delle nazioni in Europa è
storia di sangue: dalle guerre di religione del Cinquecento alla Guerra dei Trent’anni
fino alle ultime due guerre mondiali. È storia di frammentazione, almeno dalla caduta
dell’Impero romano. Pertanto, accontentiamoci di ciò che la Ue ha realizzato finora,
che è già molto. Se c’è un deficit di democrazia, non sarà certo superabile con una
procedura antidemocratica della “transfer union”. Occorre, dunque, procedere sulla
strada degli accordi intergovernativi e della riforma dei Trattati. Ma, soprattutto,
occorre applicare rigorosamente il principio e il metodo della sussidiarietà. Via
raccomandata da più di un intervento in questo dibattito. Anche perché si teme che,
proseguendo sulla via giacobina, si approdi, invece che ad un “più Europa”, ad
un’“Europa fortezza”, che – commenta Mingardi – «piace alla destra (evoca mura
invalicabili per trattenere l’immigrazione) come alla sinistra (le mura proteggeranno le
“tutele” tradizionali del welfare)». Perciò, invece di buttare il cuore oltre l’ostacolo,
occorrerà pazientemente cercare di scavalcarlo. E l’unica via è quella che i Paesi
europei stanno già praticando.
Occorre, tuttavia, prendere atto che la “Via dei Trattati” è piena di macigni.
Basta il veto di uno dei 27 membri della Ue per bloccare ogni decisione che la
maggioranza ritenga strategica. L’effetto è il differimento delle decisioni o la paralisi.
Per modificare i Trattati occorre eliminare il principio di unanimità. Ma tale
eliminazione non si può fare, se non all’unanimità. È il famoso Comma 22: “Chi è
pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere
esentato dalle missioni di volo non è pazzo”. In questo labirinto senza via di uscita,
nove Paesi – Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi,
Slovenia e Spagna – hanno fondato un “Group of friends”, allo scopo di dare
un’accelerazione alla politica estera della Ue in “modo pragmatico”, allontanandosi
gradualmente dal sistema dell’unanimità. Altri, per esempio Romano Prodi, già
Presidente della Commissione europea dal 1999 al 2004 e principale fautore
dell’allargamento – il primo maggio 2004 aderirono alla Ue dieci nuovi Paesi – insiste
da tempo sulla necessità di creare un nucleo ristretto di Paesi, con nuove regole.
Tuttavia, la notazione critica più importante che si deve fare all’europeismo
scettico-blu di Mingardi è che, mentre la Ue si aggira flemmaticamente nei
propri labirinti nazional-istituzionali, “Historia facit saltus”
. Nella sua Storia
della Seconda Guerra Mondiale Winston Churchill riporta una lettera che scrisse al
proprio Ministro degli Esteri Anthony Eden, dopo la conclusione dell’incontro di Yalta
del febbraio 1945. Churchill si dichiara certo e orgoglioso di avere garantito
all’Europa almeno quarant’anni di pace. Versailles ne aveva garantito solo venti. La
previsione di Churchill è stata positivamente smentita. La pace in Europa non si è
fermata al 1985. Ma nel 2022 il ciclo storico della pace in Europa, che datava dal
maggio del 1945, è finito bruscamente con l’aggressione russa dell’Ucraina. E questa
ha facilitato il pogrom di Hamas e l’accensione di un focolaio di guerra in Medioriente.
La storia europea ha fatto un salto quantico, involontario, ma drammatico. Benché le
minacce nucleari di Putin servano a spaventare i pusilli, a quanto pare con successo,
è evidente che stiamo camminando sul crinale sottile e tagliente pace/guerra. Jean
Monnet, il primo presidente dell’Alta Autorità della CECA, aveva promosso nel 1952 il
“Comitato d’azione per gli Stati Uniti d’Europa”, sulla base di questa profetica
constatazione: «I nostri paesi sono diventati troppo piccoli per il mondo attuale, in
rapporto ai mezzi tecnici moderni, in confronto all’America e alla Russia oggi, alla
Cina e all’India domani. L’unità dei popoli europei negli Stati Uniti d’Europa è il
mezzo per rialzare il loro livello di vita e mantenere la pace». La profezia si è
realizzata, oltre misura. Ora la Cina e l’India sono qua. I giganti mondiali competono,
i Paesi europei sono dei nani, che passano il tempo a darsi calci negli stinchi. Le
singole sovranità nazionali europee sono deboli, la sovranità europea non c’è: né sul
piano geopolitico e della sicurezza, né su quello economico, mentre il suo capitale
culturale cristiano-liberale viene eroso dalla cancel culture, dal wokismo e dal
politically correct. L’Ue è l’esatto opposto di una fortezza, è una casa esposta a tutti i
venti.
Serve un altro schema politico-istituzionale. Lo Stato-nazione è una formula
piuttosto recente della convivenza civile e politica: 500 anni più o meno. La
globalizzazione di questi decenni di fine Novecento ha prodotto un duplice
contraddittorio effetto: ha eroso e fratturato gli Stati-nazione e le loro basi socio-
culturali. Una parte di società è sempre più attratta dal magnete globale, costituito da
idee, consumi, stili di vita, social media, quale che sia il territorio, mentre un’altra
parte si è rinserrata a difesa di ciò che sono o si pretende che siano le tradizioni
nazionali. Stato, nazione, identità individuali e collettive tornano a separarsi. Johann
Gottfried Herder, prima della Rivoluzione francese, aveva esaltato la Nazione,
criticato l’impero romano e l’impero carolingio, perché avevano distrutto “i caratteri
nazionali”. La Nazione e la Lingua erano soggetto di autogenerazione millenaria, che
solo “mescolanze esterne” potevano minacciare. Le derive aggressive e genocidarie
del ben intenzionato nazionalismo herderiano hanno segnato la storia del XX secolo.
Il modello dello Stato-nazione non è l’unico possibile. Sono esistiti Imperi
multinazionali, tra cui quello austro-ungarico, in cui le identità nazionali e religiose
hanno potuto fiorire. Questo “impero” oggi può essere l’Unione europea federale,
come unione di scopo, centrata sulla politica estera, sulla difesa, sulla moneta. Ma lo
scopo non è affatto contingente: è la difesa delle libertà, dello Stato di diritto, della
democrazia liberale. Al di là delle singole tradizioni e identità nazionali i Paesi europei
hanno un motore comune: le libertà. Questa è l’identità europea, comune a tutti i
Paesi, prodotto del substrato profondo cristiano, illuministico, liberale. L’attuale
configurazione politico-istituzionale dell’Ue non è più in grado di garantirne la difesa e
lo sviluppo contro l’imperialismo russo e cinese e contro il fondamentalismo islamico,
che punta all’egemonia nel Medioriente e in tutta l’Africa a nord e a sud del Sahara.
Il tranquillo bricolage istituzionale non è più all’altezza delle scelte
drammatiche che ci vengono imposte da un’agenda, che dal 1945 non
scriviamo noi Europei, nonostante le velleità da micro-potenza dell’Inghilterra ieri e
oggi della Francia. Che si tratti del “Group of Friends” o del “Triangolo di Weimar” –
Francia, Germania, Polonia – o della cooperazione rafforzata, qualcuno si deve
muovere. Il Manifesto di Ventotene, Per un’Europa libera e unita, fu scritto da Altiero
Spinelli e Ernesto Rossi, con prefazione successiva di Eugenio Colorni nel 1941,
quando era già cominciata l’operazione Barbarossa. Il meteo storico era pessimo.
Era dai tempi di Giuseppe Mazzini che non si usava più l’aggettivo “europeo” come
aggettivo politico e non solo geografico. Gettarono il cuore oltre l’ostacolo. Questo è il
momento per farlo. Viceversa, la Ue di Alberto Mingardi pare essere troppo
intro

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