MEDIO ORIENTE IN FIAMME

Umberto De Giovannangeli

Libia, la pax russo-ottomana

Vademecum per provare a districarsi nel caos (armato) libico. Prima avvertenza: ricordare che sul campo non si combattono due schieramenti compatti, ma una pletora di milizie e tribù   che non hanno giurato eterna fedeltà al generale Haftar o al primo ministro al-Sarraj. Sono alleanze variabili, dipendenti anzitutto dalla spartizione della miliardaria “torta petrolifera”. A oggi, in tutto il Paese, continuano ad operare più di 200 milizie, in parte integrate nel fragile apparato coercitivo statale, in parte nell’Esercito di Haftar, pur mantenendo la loro identità, e in parte autonomia. Quello libico è “uno Stato che non esiste più”. Così Karim Mezran, del Middle East Policy Council di Washington, riassume in una vattuta il caos libico. Seconda avvertenza: quella in Libia è una guerra per procura, nella quale sia Haftar che Sarraj non sono gli attori principali, ma i “cavalli” su cui hanno puntato i veri player della partita libica, che si trovano a Mosca, Ankara, Il Cairo, Riyadh,  Emirati Arabi Uniti e, solo in seconda e lontana battuta, a Parigi, Roma, Berlino, Bruxelles. Metterli d’accordo sul futuro della Libia sarà molto più arduo dello strappare una tregua sul campo.

La tregua, per l’appunto. Prima rifiutata dall’uomo forte della Cirenaica, in seguito accolta dal premier tripolino ma a condizione che il “golpista di Bengasi” togliesse l’assedio a Tripoli e Misurata, ritirando le sue truppe. Tutto sembrava dunque indirizzarsi verso l’ennesimo fiasco diplomatico, quando in extremis, Haftar fa sapere di accettare il cessate il fuoco che era stato negoziato dal presidente russo Vladimir Putin e dal suo omologo turco, Recep Tayyp Erdogan. Cosa è dunque cambiato nelle ultime 48 ore? Sgomberiamo subito il campo da veline casalinghe: Sulla decisione di Haftar e Sarraj, il peso avuto dall’Italia, è stato un peso piuma. L’attivismo di Conte è servito a rimediare alla figuraccia del rifiuto di Sarraj di recarsi a Palazzo Chigi dopo che il premier italiano aveva ricevuto l’odiato rivale Haftar.

Grazie al lavoro incessante del nostro ambasciatore a Tripoli, Buccino, e al direttore dell’Aise, Carta, Sarraj si è convinto a tornare sui suoi passi e incontrare, ieri, il suo omologo italiano. Tre ore di colloqui per ricucire uno strappo, più che per rafforzare una relazione. Perché tra Roma e Ankara, Sarraj la sua scelta l’ha fatta: in direzione turca. Conte incassa il sì di Sarraj al cessate il fuoco, il riconoscimento, formale più che di sostanza, del ruolo importante dell’Italia in Libia, e poco altro. E ancor meno, l’inquilino di Palazzo Chigi aveva ottenuto dal generale di Bengasi.

Ma allora cosa ha spinto Haftar ad accettare quello che aveva sprezzantemente rifiutato fino a pochi giorni fa? La risposta si chiama Wagner Group, i contractor russi, addestrati sul fronte ucraino, schierati a fianco del sedicente Esercito di liberazione libico (Lna) e decisivi per l’avanzata di Haftar su Sirte, Misurata e Tripoli. Ora, non è certo un segreto che in Russia non si muova foglia che lo “Zar” non voglia: e la “scomparsa” dal campo di battaglia dei mercenari russi, era un messaggio molto chiaro che un adirato Putin ha indirizzato ad Haftar: se credi di potercela fare da solo, accomodati pure, ma scordati del sostegno russo, diretto o indiretto. Haftar ha capito e si è adeguato. Per il capo del Cremlino, l’ex ufficiale, neanche tra i più capaci, di Muammar Gheddafi, può al massimo aspirare ad essere, per Mosca, l’Assad libico, vale a dire lo strumento di una politica imperiale russa nel Mediterraneo. “La Turchia si aspetta che la sua amica Russia convinca il generale Khalifa Haftar a rispettare il cessate il fuoco in Libia in base a quanto concordato tra i presidenti turco e russo”, aveva detto, nei giorni scorsi, il ministro degli esteri turco Malvet Cavusoglu in una conferenza stampa congiunta con la sua omologa del Ghana, Shirley Ayorkor Botchwey, a Istanbul. E l’”amica Russia” è intervenuta, imponendo alle forze di Haftar di accettare il cessate il fuoco, a partire dalla mezzanotte di sabato.  A comunicarlo è stato Ahmed Al Mismari, portavoce del Lna, in un video in cui spiega che lo stop alle ostilità entrerà in vigore dalla mezzanotte di sabato. Una dura rappresaglia, ha aggiunto, verrà attuata contro chi non lo rispetterà. La tregua resta comunque appesa a un filo. Un filo che sembra già reciso. Le due parti nella guerra civile libica si sono accusate reciprocamente di aver infranto la tregua mediata a livello internazionale a poche ore dalla sua entrata in vigore. Il governo di  al-Sarraj, in un comunicatoha denunciato  violazioni “a Salaheddin e a Wadi Rabie” e ribadito  che “la piena attuazione del cessate il fuoco potrà avvenire solo con il ritiro dell’aggressore da dove è venuto”, in riferimento al generale Haftar. Sia il governo appoggiato dall’Onu, lo Gna, sia le forze fedeli ad Haftar hanno affermato che ci sono stati combattimenti nella capitale, Tripoli. “Le milizie che fanno capo al governo di accordo nazionale libico hanno violato la treguasu più di un fronte con ogni tipo di armi, compresa l’artiglieria”, ha affermato Al-Mabrouk Al-Gazawi dell’Esercito nazionale libico al sito informativo libico Al Marsad, assicurando tuttavia il rispetto dell’ordine del cessate il fuoco. Ma le variabili sono tante e tali che è difficile ipotizzare una tenuta. E’ vero che la pace si fa col nemico, ma è altrettanto vero che questo presuppone il reciproco riconoscimento, se non il rispetto, cosa alquanto improbabile quando per Sarraj, Haftar è “un golpista, macchiatosi di crimini di guerra”, e per  Haftar, Sarraj è semplicemente un “signor nessuno”, senza autorità né autorevolezza.

Quanto a noi, dalle parti di Palazzo Chigi e della Farnesina, hanno compreso che se vuole recuperare un ruolo non deve far conto sul supporto americano – con Trump impegnato sul fronte iraniano non c’è nulla da attendersi da Washington – ma cercare di farsi accettare come interlocutore europeo privilegiato da Turchia e Russia. Ecco allora la Farnesina informare che il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha sentito al telefono il suo omologo turco Melvut Cavusoglu. Al centro dei colloqui, secondo quanto si apprende, la crisi libica. I due in particolare hanno ribadito la volontà di un trilaterale Italia-Russia-Turchia. I ministri hanno anche rinnovato il loro impegno volto a rafforzare gli sforzi in corso per il successo della Conferenza di Berlino e l’ottenimento di un cessate il fuoco duraturo”

Ma è alquanto improbabile che la Conferenza di Berlino possa trasformarsi in una sorta di “Jalta mediterranea”. Troppi e troppo contrastanti sono gli interessi in campo e, soprattutto, non è chiaro quale debba essere l’approdo  di un processo di stabilizzazione tutto da realizzare. Ha ragione chi dice che in Libia non si sta giocando il derby Italia-Francia. Perché se “derby” è, questo è intersunnita, tra Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Giordania, da un lato (Il lato Haftar), e Turchia, Qatar (pro-Sarraj). Il punto cruciale riguarda l’esistenza stessa di uno Stato libico. Uno Stato unitario, rappresentativo di tutte le istanze, geografiche, politiche, tribali che formano il complicato puzzle libico. Uno Stato siffatto ha bisogno di un raìs riconosciuto da tutti, più ancora di istituzioni rappresentative di una società civile organizzata che in Libia non esiste. E allora, ecco riproporsi i due scenari più realistici, anche se di difficile realizzazione: una Libia federata, ovvero una Libia tripartizzata – Cirenaica, Tripolitania, Fezzan –  con gli attori della “Jalta del Mediterraneo” come garanti di tre Stati-protettorati.

Tregua o non tregua, la Libia post-Gheddafi resta uno Stato fallito, prodotto di una sciagurata guerra, quella del 2011, che niente aveva a che fare con la difesa dei diritti umani, e tutto con la volontà francese, subita dall’Italia e avallata dall’Onu, di ridefinire gli equilibri petroliferi in Libia. Dietro quella guerra non c’era alcuna visione di cosa sarebbe dovuta essere la “nuova Libia”, e come in Iraq dopo l’abbattimento di Saddam Hussein, ognuno dei vincitori ha cercato di trovare un uomo di comodo da elevare a improbabile statista. Oggi, a nove anni di distanza, c’è chi teme che la Libia sia una “nuova Siria”, e chi evoca uno scenario somalo. E tutto questo, alle porte di casa nostra. Pensare che il rebus libico possa essere risolto dal duo Conte&Di Maio non è portare all’estremo l’ottimismo della volontà. E’ un atto di fede difficile da abbracciare anche da chi crede nei miracoli.

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