LIVING TOGETHER, DIFFERENTLY

Massimo Rosati

Docente sociologia generale Università di Roma Tor Vergata

Levante – L’incomprensibile silenzio su Jacqueline Shohet Kahanoff

Profili.

Per qualche ragione, a me non facilmente comprensibile, il mondo editoriale italiano tace sulla figura di  Jacqueline Shohet Kahanoff (1917-1979), ebrea nata in Egitto, inserita nell’ambiente borghese della comunità ebraica del Cairo, imbevuta di spirito cosmopolita. Dopo una vita spesa tra Parigi e gli Stati Uniti, si trasferì infine in Israele, dove morì, a Tel Aviv. Autrice di molti racconti, nei suoi scritti anticipò i temi oggi caldissimi dell’integrazione culturale nelle società di immigrazione. Mongrels or Marvels, pubblicato nel 2011 dalla Stanford University Press, attraverso una serie di racconti offre spaccati di una società, quella egiziana dell’infanzia dell’autrice, in cui un profondo spirito cosmopolita si nutriva di identità religiose vissute da comunità radicate nelle loro differenze. Approdata in un Israele ancora profondamente marcato dall’identità askenazita, Jacqueline capì, e attraverso i suoi scritti cercò di spiegare, che Israele non sarebbe mai stato in pace con se stesso e i suoi vicini a meno di elaborare a fondo la sua collocazione mediorientale. Il contributo che diede attraverso le sue pagine non fu solo quello di restituirci l’atmosfera di un cosmopolitismo ‘con le radici’, fatto di colori, sapori e suoni differenti, che apprende il valore del pluralismo dalla pratica quotidiana della differenza, anziché essere costituito di astratti principi morali. Jacqueline recuperò anche una categoria, quella di Levantinismo, di cui invertì il significato tradizionalmente negativo, fino a farne un modello sociale che poggia sul valore di identità culturali ibride. “Essere levantino”, scriveva, “significa vivere in due mondi o più allo stesso tempo, senza appartenere esclusivamente a nessuno”. Il levantino è una figura borderline, mai pensata in termini passatisti o utopici, ma come al contrario prefigurazione di un ordine sociale possibile. Da termine spregiativo, la Kahanoff ne fece titolo onorifico di persone capaci di vivere tra culture, di praticare la cultura della negoziazione dei confini culturali. In termini teologici, avrebbe probabilmente apprezzato quella che oggi Rachel Adler chiama la teologia delle zone di confine, che si può abitare solo a partire dal rispetto dell’integrità delle tradizioni (to live outside the law, you must be honest, scrive la Adler evocando Bob Dylan).

Jacqueline Shohet Kahanoff è oggi figura riscoperta in Israele, così come lo è la figura del Levante, cui è dedicata una rivista, il Journal of Levantine Studies, edito dal Van Leer Institute di Gerusalemme, in uno sforzo che dir meritorio è dire poco di gettare semi culturali volti a costruire ponti, e non muri, in quella parte del mondo. Da noi, sarebbe bello che il Levante non fosse solo una categoria di un passato letto con sguardo orientalista, o il titolo di un romanzo di successo (Gli scali del Levante, di Amin Maalouf). In un paese in cui un ministro, Cécile Kyenge (cui va tutta la solidarietà di chi scrive), deve essere difeso quotidianamente da attacchi razzisti e xenofobi per aver proposto con sobrietà un dibattito sul senso della nostra identità collettiva di italiani nel terzo millennio, un cosmopolitismo come quello che trasuda dalle pagine di Jacqueline Shohet Kahanoff potrebbe rappresentare una ventata di aria fresca.

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