MEDIO ORIENTE IN FIAMME

Umberto De Giovannangeli

Israele, la resistenza è rosa

Annessione è violenza, sopraffazione, espressione di una cultura militarista permeata di maschilismo. La liberazione, invece, si coniuga al femminile. Perché è portatrice di una visione delle relazioni umani, sociali, tra popoli, fondata sull’uguaglianza dei diritti, siano essi di genere o nazionali.

Israeliane contro l’annessione

Ha questo segno, l’appello lanciato da oltre centocinquanta donne israeliane, espressione del mondo della politica, dell’arte, della cultura, dell’università e della società civile.

Questo il testo: “Per noi, donne israeliane, funzionarie elette, leader della società civile, opinioniste e attiviste di base, provenienti da diverse convinzioni politiche e rappresentanti di diversi gruppi sociali, religiosi, nazionali ed etnici, abbiamo in comune un profondo impegno per una soluzione negoziata a due Stati del conflitto israelo-palestinese che garantisca la nostra sicurezza e la piena uguaglianza come donne e come esseri umani. Nel ventesimo anniversario della risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che ha segnato il passo, crediamo che soprattutto ora la voce delle donne debba essere ascoltata sulle questioni esistenziali che oggi ci troviamo ad affrontare. Siamo profondamente preoccupati per l’imminente prospettiva di un’annessione di parte o di tutta la Cisgiordania da parte di Israele nel quadro del piano del Presidente Trump per il futuro dell’area. Vi invitiamo a collaborare con noi per fare tutto il possibile per fermare questo passo e prevenire le sue conseguenze disastrose per la nostra sicurezza, la democrazia, il benessere, l’uguaglianza e il futuro di noi stessi e della nostra regione. Dal 1967, l’attuale controllo militare israeliano sull’intera area tra il Mediterraneo e il fiume Giordano – e con esso l’espansione degli insediamenti ebraici al di là della Linea Verde – non solo ha ulteriormente minato i diritti umani e collettivi palestinesi, ma sfida anche i principi di libertà, uguaglianza e giustizia.

Se da un lato il prolungato conflitto ha avuto un impatto negativo su tutte le parti coinvolte, dall’altro ha colpito in modo particolare le donne. I ripetuti cicli di tensione, le guerre e i conflitti emarginano le donne e invitano a molteplici abusi basati sul genere nella vita quotidiana, radicano l’insicurezza fisica, economica, sociale e politica e riducono i valori democratici di libertà, equità e tolleranza reciproca. Le donne sono state sistematicamente relegate ai margini del conflitto. Siamo ora particolarmente allarmati dal fatto che, nel bel mezzo della pandemia Covid-19 con tutte le sue ramificazioni umane, socioeconomiche e globali, dal 1° luglio 2020 il nuovo governo di coalizione di Israele prevede di annettere unilateralmente parti della Cisgiordania. Questo passo, in linea con il piano dell’attuale amministrazione di Washington di legittimare il controllo permanente di Israele sulla Cisgiordania, frammenterebbe irrimediabilmente i palestinesi dal punto di vista geografico e demografico, impedendo così di fatto l’indipendenza di uno Stato palestinese vitale accanto a Israele, e suonando così il campanello d’allarme per un accordo di pace duraturo. Un tale passo viola il diritto internazionale e tutte le pertinenti risoluzioni dell’Onu, crea una discriminazione istituzionalizzata e ridurrebbe i palestinesi allo status di soggetti contro la loro volontà. L’annessione rappresenta quindi un pericolo irreversibile e costituisce una minaccia esistenziale per i palestinesi, per gli israeliani, per la stabilità regionale e per un ordine globale già fragile. L’annessione unilaterale è un atto di coercizione che istituzionalizza la disuguaglianza e si fa beffe della dignità umana. Essa incarna anche l’esclusione di genere. È stata concepita quasi interamente da uomini senza alcun riferimento alle diverse prospettive delle donne di diverse località sociali. E non considera gli effetti negativi del patriarcato radicato sulla legittimità, sul tessuto morale e sulla traiettoria dinamica di Israele e di tutti i popoli della regione.

Da un punto di vista umano e femminista, l’annessione non può restare incontestata, Abbiamo bisogno del vostro sostegno e del vostro impegno in un partenariato globale per salvare la prospettiva di una soluzione giusta, equa e duratura del conflitto, per noi stessi e per le generazioni future, mentre continuiamo a perseguire una pace negoziata ed equa tra Israele e i suoi vicini”.

Tra le firmatarie della lettera-appello c’è anche Noa, la cantante israeliana celebre in tutto il mondo. Noa ha partecipato alla grande manifestazione del 7 giugno, in una stracolma Piazza Rabin, nel cuore di Tel Aviv, indetta per protestare contro la occupazione israeliana nei Territori e contro l’annessione di parti della Cisgiordania che il governo Netanyahu intende intraprendere da luglio.

“E’ stata una serata emozionante”, ha osservato Noa che si è esibita di fronte al pubblico. “In migliaia, ebrei ad arabi, sono venuti per parlare di pace, di eguaglianza, di due Stati indipendenti. L’annessione – ha aggiunto – è pericolosa e rischia di rivelarsi disastrosa per noi come società, come popolo, come Stato”.

Tra le firmatarie dell’appello c’è Yael Dayan, scrittrice, più volte parlamentare laburista, figlia di uno dei miti d’Israele, l’eroe della Guerra dei Sei giorni: il generale Moshe Dayan. “L’annessione – dice Yael Dayan a Reset – rappresenterebbe il trionfo della destra oltranzista, della sua visione messianica d’Israele, e di una concezione dei rapporti, tra popoli ma anche nelle relazioni sociali e nella sfera sessuale, dominata dalla logica della forza e della sopraffazione. I fautori della Grande Israele sono gli stessi che considerano le donne come strumenti di procreazione, comunque succubi. L’Israele che vogliono imporre mi fa paura, come democratica, come pacifista, come donna”.

Donne di Palestina

La forza delle idee, la chiarezza degli intenti, la capacità di coniugare idealità e concretezza, che caratterizzano la lettera-appello delle donne israeliane contro l’annessione, si ritrovano anche nelle considerazioni e nell’esperienza di colei che a livello internazionale rappresenta la determinazione e il sacrificio di cui le donne palestinesi, spesso poco più che adolescenti, hanno dato prova nel corso del tempo: Hanan Ashrawi. Più volte ministra dell’Autorità Palestinese, oggi membro dell’esecutivo dell’Olp, paladina dei diritti delle donne.

“Essere donna in Palestina – dice Ashrawi -significa essere parte di un movimento di liberazione nazionale e al tempo stesso battersi per il superamento dei caratteri più opprimenti di una società patriarcale. Ecco, se dovessi operare una sintesi, direi che le donne palestinesi lottano per una doppia liberazione. E fanno questo dovendosi occupare di mandare avanti famiglie con tanti bambini e spesso da sole perché il marito o il figlio più grande sono in un carcere israeliano. Dobbiamo ricordare che stiamo combattendo contro un’occupazione che è estremamente violenta in sé. Gli studi hanno dimostrato come questo influenza le donne in molti modi, ma anche come eccita gli uomini generando un contesto di violenza. Quando gli uomini si sentono evirati nel senso tradizionale, a causa della violenza dell’occupazione, degli assalti costanti e dell’umiliazione, la loro rabbia e frustrazione è diretta contro donne e bambini. Il sistema patriarcale e macho combinato con il circolo di violenza in cui viviamo, può provocare questo tipo di comportamento”.

“Nel corso degli anni – prosegue Hanan Ashrawi, la prima donna ad aver ricoperto il ruolo di portavoce della Lega Araba- sempre più donne sono state arrestate dall’esercito israeliano e nelle carceri hanno conosciuto situazioni di promiscuità, le ragazze in particolare, è una pressione fisica e psicologica che spesso ha sconfinato nella tortura. Vi sono in proposito rapporti documentati delle più importanti organizzazioni umanitarie internazionali. Dover convivere ogni giorno con la violenza è qualcosa che segna per tutta la vita e rischia di permeare ogni ambito delle relazioni umane. Eppure, nella società palestinese le donne hanno conquistato spazi che nessuno ha regalato loro. E questo è un investimento per il futuro, quando vivremo da donne libere nello Stato di Palestina”.

Lei, le chiediamo, è una delle donne ai vertici della dirigenza palestinese. Una delle poche. È un limite?
“Direi proprio di sì – risponde Ashrawi – anche se non sarei pessimista. Vi sono diverse parlamentari nel Consiglio legislativo palestinese, donne sindaco o con importanti ruoli nel campo economico e finanziario. Certo che molto deve ancora essere fatto, soprattutto sul piano legislativo e nel campo del diritto di famiglia. È del 1994 il Memorandum dei Diritti delle Donne il documento sottoscritto dall’Anp (l’Autorità nazionale palestinese, ndr) accoglieva la Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne e richiedeva “giustizia, democrazia e eguaglianza di genere” all’interno delle strutture politiche “statali” palestinesi in formazione. Si tratta di un’acquisizione importante, pressoché unica nel mondo arabo, ma la sua traduzione in pratica è ancora molto lontana dall’essere compiuta. Penso, per l’appunto, alla violenza domestica, e penso alle opportunità di lavoro”.

Lo Stato di Palestina agognato da Hanan Ashrawi è uno Stato indipendente. E libero. Libero anche dall’oppressione di genere e dal retaggio di una società patriarcale che ancora oggi lascia ferite profonde nella quotidianità delle donne palestinesi. E’ la doppia liberazione della Palestina. E delle sue donne.

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