CROCE E DELIZIE

Corrado Ocone

Filosofo

Il vivo e il morto di un pensiero. In senso descrittivo e in senso teorico

Il direttore della rivista che ospita questo blog ha titolato il dossier speciale su Croce “Ciò che è vivo e ciò che è morto…”. Ciò a dimostrazione che quell’espressione, coniata da Croce nel 1905 a proposito della filosofia di Hegel, si è mostrata tanto fortunata da essere utilizzata nei più svariati contesti. Lo stesso è successo all’atra espressione crociana, molto più tarda e spesso fraintesa, del “perché non possiamo non dirci cristiani” (Gaetano Pecora ieri su “La Lettura” ha contribuito a fugare qualche dubbio). Croce, non c’è che dire, aveva un’indubbia capacità espressiva. Meno immediato si fa invece il discorso se dalle formule si passa al concreto delle analisi. In questo caso si scopre che le questioni sono molto complesse: il “vivo” e il “morto” di un pensiero sta in effetti in un rapporto dialettico, e mai definitivo, col presente dei nostri interessi, così come ci ha insegnato il filosofo stesso con la sua idea della “contemporaneità” di ogni storia. Ma nel caso di Hegel Croce, in verità, voleva sottolineare un altro aspetto del discorso: al filosofo di Stoccarda era infatti accaduto ciò che spesso accade a chi enuclea una teoria filosofica e, quasi inebriato da essa, la estende oltre ogni ambito e la usa a sproposito fino a contraddirla. Si crea allora una tensione fra spirito e lettera che va al più presto sanata. Ad Hegel questo era successo con la dialettica, che indica il movimento della realtà e la logica che vi aderisce ma che non può essere resa astratta in formule rigide né approdare ad esiti definitivi. Occorreva cioè, secondo Croce, usare Hegel contro Hegel, il vivo contro il morto del suo pensiero. Possiamo metterci anche noi rispetto a Croce in questo atteggiamento? Sì e no. Sì, perché anche Croce a volte ha sostanzializzato alcune sue scoperte, ha conservato qualche residuo di trascendenza in una concezione rigorosamente immanentistica del realtà (ne parleremo sicuramente qualche volta). No, perché le “cadute” di Croce non compromettono in maniera significativa il suo pensiero come quelle di Hegel. Resta l’altro modo, più essenziale, di intendere il vivo e il morto. E qui entrano in gioco anche, in qualche modo, le proprie convinzioni personali, il proprio orientamento nel pensiero. Da questo punto vista credo che la metodologia di Croce, il suo realismo politico e il suo storicismo, possano essere molto utili in questo frangente storico di crisi del postmodernismo e di esaurimento della spinta propulsiva delle filosofie variamente immanentistiche. Quanto poi alle vicende di casa nostra, qui, a mio avviso, si tratta di riprendere il filo di un discorso che si è interrotto nel secondo dopoguerra con l’importazione acritica di teorie straniere ma soprattutto con la messa in mora ella nostra nobile tradizione precedente di pensiero. Un’ interruzione che, concretatasi in una scarsa originalità di pensiero, ha reso di fatto provinciale la nostra filosofia. Ricominciamo, quindi, da Croce, ma anche da Gentile e Gramsci. Non per star fermi ad essi, ma per andare oltre senza andare contro.

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