THE VISIONNAIRE

Francesco Grillo

Francesco è Amministratore Delegato di Vision and Value, società di consulenza direzionale e si occupa soprattutto di valutazione di politiche pubbliche per organizzazioni internazionali. E' direttore del think tank Vision, con cui gestisce diversi progetti dedicati a "le università del futuro", "big society", "la famiglia del futuro" ed in generale all'impatto della rivoluzione delle tecnologie dell'informazione sulla società e sull'economia. In precedenza ha lavorato per la Bank of Tokyo e con McKinsey. Laureato in economia alla LUISS, ha completato un MBA alla Boston University e un PhD presso la London School of Economics con una tesi sull'efficacia della spesa pubblica in ricerca (http://www.visionwebsite.eu/vision/staff_cv.php?cv=1) . E' editorialista de Il Mattino e de Il Messaggero ed è autore di diversi libri sull'impatto di Internet sulla sanità (Il ritorno della rete, Fazi, 2003), sull'automobile (La Macchina che cambiò il Mondo, Fazi, 2005), sui media (Il Sonno della Ragione, Marsilio, 2007).

Il tramonto dello sceriffo e il mondo senza equilibri

C’è ancora una speranza di governare le crisi nell’era del nuovo disordine mondiale?

Mai così numerosi e minacciosi sono stati i punti di frattura che rischiano di mandare a pezzi la pace mondiale,intesa non come assenza di conflitti regionali (mai scomparsi davvero), ma come nozione largamente prevalente nei rapporti tra gli Stati. Soprattutto mai così elevata è stata la sfiducia nella possibilità delle classi dirigenti di prevedere, governare ciò che sta succedendo: ed è questo aspetto che sta portando gli stessi Stati Uniti verso una nuova forma di isolazionismo – fondato sulla rivoluzione energetica che ne promette l’indipendenza da un Medio Oriente e da una Russia sempre più fuori controllo.  Sarebbe un gravissimo errore, però, se il Pentagono decidesse di ignorare che la storia, come una talpa, continua a scavare gallerie invisibili che, prima o poi, fanno franare gli imperi più potenti.

Mai siamo stati – innanzitutto nei simboli e nei nomi dei paesi coinvolti (Ucraina e, dunque, Polonia) – così vicini a dinamiche come quelle che produssero guerre mondiali. Mai così completo – neppure dopo la sconfitta del Vietnam – era stato il fallimento di ben due stagioni della politica estera americana: La frantumazione dell’IRAQ dopo la più costosa operazione militare di tutti i tempi, l’arroganza dei guerrieri vestiti di nero che vogliono riuscire nell’impresa sfuggita a Bin Laden, il collasso della Libia, la cronicizzazione della guerra civile in Siria, il ritorno dei militari in Egitto. Ciò dice che non ha funzionato né la strategia dei repubblicani che tentarono di esportare la democrazia dopo l’11 Settembre, sia quella di chi esercitando un’influenza più sottile, decise di appoggiare chi l’ha promossa nelle piazze della primavera araba. Del resto, tutte le guerre nuove – dal nord dell’Iraq all’est dell’Ucraina – sono combattute con metodi e attori non più convenzionali; ed è per questa ragione che a perderle sono gli Stati Uniti,l’ultimo degli Stati nazione inventati dall’Europa hegeliana.

Eppure sono passati solo vent’anni dalla “fine della storia”. All’indomani della caduta del muro di Berlino, uno dei libri più famosi del novecento scorgeva negli eventi dell’Europa orientale il segno potente che la storia stesse rifluendo in un modello unico neoliberale e capitalista incarnato dall’unica potenza sopravvissuta agli scontri tra titani della Guerra Fredda e delle Guerre mondiali. Curiosamente tale previsione arrivava da Francis Fukuyama, uno scienziato della politica che usava in maniera ortodossa le categorie del materialismo storico e del marxismo. Attorno agli Stati Uniti si andava formando un Nuovo Ordine Mondiale che avrebbe progressivamente portato stabilità e ridotto l’entropia.

Vent’anni dopo la storia sembra essersi rimessa impetuosamente in moto travolgendo quella previsione. L’11 Settembre si era già fatto carico di segnalare con chiarezza che il modello di mondo con un solo sceriffo non era possibile,perché ciò esponeva l’ultima superpotenza al ruolo scomodissimo di unico bersaglio.  La situazione è persino peggiorata quando gli Stati Uniti – contraddicendo la teoria dello spontaneo rifluire della storia nella storia americana – decisero che certi valori avessero bisogno di forza per essere esportati: i dittatori, uno dopo l’altro, sotto i colpi dei marines e poi di quelli delle piazze sono caduti, ma al loro posto sono rimaste guerre civili che nessuno sta vincendo.

Se una volta c’erano i russi e gli americani che si dividevano il mondo e, in una fase successiva, solo gli americani che tolleravano dittatori che garantivano la stabilità, oggi siamo entrati nell’epoca dell’impotenza di governi che seppur armati di strumenti di conoscenza sofisticatissimi, si arrendono all’impossibilità di prevedere o governare alcunché: ed è questo l’aspetto che più spaventa.

Che fare dunque?

Un’opzione è naturalmente quella di tornare indietro: inventare nuovi dittatori, recuperare quelli vecchi, riorganizzare un nuovo bipolarismo con la Cina per dividersi il compito oneroso di governare il mondo.

Deve essere questo il retro pensiero che ha spinto non pochi analisti a suggerire un clamoroso riavvicinamento tra Obama e Assad per respingere l’assalto dell’ISIS. E deve esser ancora per questo motivo che qualcuno ancora immagina che siano i vertici di Pechino e Washington a colmare il vuoto. Il problema, però, è che una volta abbattuti gli steccati che impedivano ai popoli di determinarsi da soli, difficilmente verrà tollerata la sopravvivenza di un regime sorpassato dalla storia e dalle aspettative delle persone. Per ciò che concerne, invece l’idea di un ritorno ad una nuova Guerra Fredda artificiale, essa è resa improbabile dal fatto che la Cina non ha né la capacità militare, né tantomeno quella carica di ideologia unita alla voglia di esportarla che una volta rese possibile all’Unione Sovietica di diventare impero.

In effetti, la teoria della fine della storia su una cosa aveva ragione e su una aveva profondamente torto. Non è finita la storia, ma è vero che essa non si ripete come in un cerchio di vite e reincarnazioni tipiche della filosofia orientale. Ogni ciclo nuovo porta in sé la memoria degli errori di quelli precedenti e ci riporta ad un nuovo equilibrio. È sbagliato però – e su questo Fukuyama aveva torto – che si possa immaginare che la liberal democrazia occidentale abbia vinto definitivamente:per definizione, quando si parla di democrazia e di mercato non esiste nulla di definitivo, visto chetale forma di organizzazione sociale si afferma solo se ne vengono sfruttate le sue caratteristiche di superiore flessibilità e adattamento al cambiamento. Sono i paesi occidentali ad aver messo in discussione quei valori, consentendo – per un eccesso di sicurezza nelle proprie conquiste – che i processi democratici si riducessero ad essere simulacro di democrazia e che in economia si formassero posizioni dominanti che spezzano l’innovazione.

Qual è la strada, allora, per vincere la nuova confusa guerra che il sonno della ragione pone a noi stessi?

Intanto occorrerebbe che l’occidente riscoprisse se stesso. Che si ricordasse che per certi traguardi si combatte quotidianamente. Perché essi presuppongono convincimenti e militanze – tuonerebbe oggi Bertrand Russell se ci osservasse affondare nel relativismo e nella mediocrità – forti quanto quelli degli integralisti che vi si oppongono. Bisognerebbe fare i compiti a casa e ritornare ad essere attraenti perché capaci come nessun altro di generare benessere e distribuirlo in maniera equa.

In secondo luogo, un Occidente finalmente più consapevole di se stesso, avrebbe la legittimità di chiedere che la carta universale dei diritti umani sia rispettata da tutti.  Non più con strumenti che appaiono anch’essi obsoleti (il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e le azioni militari); ma dimostrando di essere capaci di sostenere il costo di un sistema di sanzioni finanziarie e commerciali che oggi, se sufficientemente precise, possono avere un impatto più devastante di un attacco missilistico e che devono scattare sistematicamente laddove un regime violi diritti elementari all’interno dei propri confini o si prepari ad aggredire un altro Paese.

Gli Stati Uniti, in questo senso, sono frenati proprio dall’essere l’ultima delle potenze che hanno dominato il secolo delle nazioni che diventano stati e che tra di loro provano a regolare il mondo. Curiosamente è proprio l’Europa che potrebbe mutare in forza la propria debolezza: l’assenza di un’unica identità nazionale la condanna al pragmatismo e all’innovazione e la natura delle crisi da affrontare apre opportunità di leadership che l’Unione può sfruttare se si dimostra capace di risolvere i problemi e costruirvi una strategia per trasformare l’entropia in progresso.

Articolo pubblicato su Il Messaggero ed Il Gazzettino dell’8 Settembre

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