STORIE USATE

Siegmund Ginzberg

Il limbo dei profughi nella vita di Nasseri, l’uomo che ispirò Spielberg

È morto l’uomo che per 18 anni non era stato né di qua, né di là. Era vissuto su una panchina, all’aeroporto “Charles De Gaulle” di Parigi. Si lavava e faceva la doccia nei cessi pubblici dello scalo. Viveva della carità dei dipendenti. Non poteva né restare né partire. Né stare di qua né stare di là. Non aveva posto dove andare. La sua fortuna era che gli aeroporti francesi funzionano, non si resta mai al freddo o al buio. Non ti aggrediscono, nessuno ti manda via, non ti danno del carico residuale. Altra sua fortuna: che gli aeroporti stanno sulla terra ferma. E che agli aerei non si può imporre di non atterrare. Poteva andargli molto peggio. Gli fosse successo a uno scalo marittimo, che so, dite voi quale vi viene in mente, forse gli avrebbero ingiunto di trascorrere diciott’anni in mare, in attesa che qualche altro porto decidesse di accoglierlo.

Mehran Karimi Nasseri, l’uomo che era vissuto nel Terminal numero 1 del “Charles De Gaulle” dal 26 agosto 1988 al luglio 2006 ormai era da tempo libero di andare dove gli pareva, a suo piacimento. In paradiso, o all’inferno. Oggigiorno tale libertà di scelta è un privilegio di pochissimi profughi. Ma lui si era ormai talmente abituato a vivere nel limbo che rifiutò l’offerta di un visto di accoglienza per qualunque Paese desiderasse, e persino l’offerta della cittadinanza britannica. “Ormai mi sono abituato a vivere in aeroporto. Mi trovo bene. Mi sento al sicuro. Il mondo là fuori invece mi fa paura”, diceva. “La vita in aeroporto non è poi male. È attivo, funziona giorno e notte. Mi piace vedere la diversità della gente che passa, proveniente da tutto il mondo”, spiegò al New York Times nel 1999.  È morto l’altro giorno, a 76 anni, a causa di un attacco cardiaco. Per combinazione proprio nello stesso aeroporto in cui aveva trascorso una parte importante della sua esistenza. Non al Terminal 1, ma al Terminal 2F. Ci era tornato per imbarcarsi su un aereo, non per visitare la sua vecchia casa. L’emozione lo ha tradito.

Il terminal era diventato per lui una trappola, quando nel 1988 era stato respinto dall’Inghilterra, perché privo di documenti. Lui aveva dichiarato che gli erano stati rubati assieme alla valigia. Gli inglesi non gli avevano creduto, e lo avevano messo sul primo aereo per Parigi, da dove proveniva. In Francia non lo volevano riammettere. Non lo potevano arrestare – per la precisione lo avevano arrestato, ma avevano dovuto rilasciarlo subito – perché non aveva commesso alcun reato, nemmeno quello di immigrazione clandestina: non era stato lui a voler tornare in Francia, erano stati gli inglesi a metterlo a forza sul primo volo per Parigi. Non potevano spedirlo da nessuna altra parte, perché non aveva una nazione di origine in cui potesse essere rimandato, né alcun altro Paese disposto ad accoglierlo. Era un’epoca in cui il profugo era ancora sacro. Erano protetti da leggi internazionali e godevano simpatia nella maggioranza dell’opinione pubblica. Anche i “sans papiers”. Non c’erano ancora i populismi scatenati contro gli immigrati. I cavilli nelle norme internazionali impedivano che se ne facesse macello a capriccio. Non c’erano ancora prefetti specializzati a dare parvenza di legalità a provvedimenti feroci quanto inutili.

Mehran Nasseri era nato in Iran, ma era stato espulso dall’Iran, e poi privato della nazionalità perché aveva partecipato nel 1977 a dimostrazioni contro lo Scià. Caduto lo Scià e arrivato Khomeini, i nuovi padroni dell’Iran non l’avevano voluto, o probabilmente lui non aveva voluto tornare. All’epoca era stato accettato per un corso triennale all’Università di Bradford, in Inghilterra. Aveva buone ragioni per essere accolto. Aveva diritto a chiedere asilo. E aveva anche diritto alla cittadinanza britannica, in quanto figlio di un medico persiano che lavorava per la Anglo-Persian Oil Company e di un’infermiera scozzese. Almeno questo è quello che ha raccontato lui. Suo padre era morto che lui aveva vent’anni e quella che sino ad allora lui credeva fosse sua madre gli avrebbe rivelato che in realtà era figlio di un’infermiera scozzese. Anche fosse inventata di sana pianta – Mehran aveva una grandissima e poetica fantasia – la storia è bellissima e commovente.

Non convinse però le autorità britanniche. E gli negarono il diritto alla cittadinanza. C’erano probabilmente anche altre ragioni al rifiuto di accoglierlo come rifugiato. Nell’‘88 i rapporti tra l’Occidente e la Repubblica islamica erano tesissimi, era ancora in corso la guerra tra Iran e Iraq, qualsiasi iraniano veniva considerato un terrorista, peggio che un appestato. O semplicemente per ragioni di pigrizia e stupidità burocratica. Il governo della signora Thatcher, che si compiaceva di farsi chiamare Iron Lady, “Signora di ferro”, non aveva fama di essere tenera verso i migranti e i richiedenti asilo (e se è per quello nemmeno verso i minatori e i sindacati, e non le piacevano nemmeno la “Swinging London”, i Pink Floyd o i Beatles, che pure la Regina Elisabetta aveva nominato cavalieri). Durante il lungo soggiorno nel Terminal 1, Mehran Nasseri era diventato famoso. Facevano a gara per intervistarlo. I giornali avevano pubblicato reportage e servizi fotografici.

Era diventato una specie di mascotte dell’aeroporto. Quasi un’insegna pubblicitaria.  Capitava che i passeggeri in transito facessero un giro lungo per andare a vederlo. Piovevano donazioni, anche per posta, all’indirizzo dell’aeroporto. All’Île de la Cité si andava per vedere Notre Dame, al Champ de Mars per la Tour Eiffel e allo “Charles de Gaulle” per vedere Mehran nel suo sacco a pelo rosso e l’immancabile carrello con i suoi bagagli, da cui non si separava mai, perché “in aeroporto non è consentito lasciare bagagli non accompagnati”. Era stato un passeggero a regalargli il sacco a pelo e una branda. Il duty free gli forniva il tabacco per arrotolarsi le sigarette. Le altre boutique e i ristoranti gli offrivano i pasti. Il McDonald’s era il suo preferito. Gli facevano il bucato in lavanderia. Non gli mancavano le letture e i libri. Ebbe molto tempo per studiare. La sua materia preferita era l’economia. Gli addetti alla pulizia e alla sicurezza si rivolgevano a lui affettuosamente, e anche un po’ scherzosamente, chiamandolo Sir Alfred. All’origine dell’appellativo c’era una lettera a lui indirizzata dai servizi di immigrazione britannici, in cui si rispettava la forma dandogli dal “Sir” (che in questo caso significa “Signore”, non è una designazione nobiliare), ma si sbagliava il nome. Succede anche alle migliori burocrazie del mondo.

Nel 1993 era uscito sul suo caso un film francese, Tombés du Ciel, interpretato da Jean Rochefort. Su un suo libro di memorie, scritto con l’aiuto dello scrittore e giornalista britannico Andrew Donkin, si fonda la sceneggiatura del film di Steven Spielberg del 2004, The Terminal. Il film di Spielberg, in cui a dare il volto al suo personaggio è Tom Hanks, aveva procurato a Mehran Nasseri la celebrità assoluta, e anche 300mila dollari per i diritti. Fecero su di lui anche un’opera musicale. Nel film la vicenda si svolge non al Charles De Gaulle di Parigi, ma al J. F. Kennedy di New York. Il protagonista non è un profugo dall’Iran, ma un visitatore sorpreso a New York da un colpo di Stato nel suo Paese, che però resta imprecisato. Facessero un remake forse lo farebbero ucraino. Dubito lo facciano libico o messicano.

Mehran Nasseri a questo punto era ormai sommerso di offerte di visti che gli avrebbero consentito di andare dove voleva. Già nel 1999 Christian Bourguet, un avvocato francese per i diritti umani che aveva preso a cuore la sua causa, era riuscito a fargli ottenere che il Belgio accettasse di accoglierlo come rifugiato. A una condizione: che si presentasse di persona e firmasse la domanda di asilo. Il Belgio non poteva però mandargli i documenti se lui non si presentava, la Francia non poteva lasciarlo partire se lui non aveva i documenti belgi che ne provavano l’accettazione. Questo inghippo si sarebbe anche potuto risolvere, con un po’ di buona volontà e di fantasia (anni dopo lo scambio avvenne per posta). Il secondo punto era più complicato: lui rifiutava di firmare qualsiasi cosa non prevedesse l’accoglienza in Inghilterra, la sua destinazione originaria, e pretendeva di firmare come “Sir Alfred”.

L’avvocato Bourguet era disperato. Giunse a dichiarare, in un’intervista, che probabilmente Nasseri era diventato pazzo “o era molto vicino a esserlo”. Aggiunse che era “abbastanza lucido nel raccontare la sua storia, ma col tempo era diventato ‘privo di logica’, sicché la sua storia continuava a cambiare”. Pare che una volta, alla domanda su come si era spostato da un Paese all’altro in uno dei frangenti mai chiariti circa le sue peregrinazioni, gli avesse risposto: “In sottomarino”. Spiritoso, non pazzo direi. Ma la solitudine gioca brutti scherzi. E la solitudine di Mehran era assoluta. Non risulta che nessun suo familiare l’abbia contattato, gli abbia scritto, gli abbia mandato un messaggio in tutti questi anni. Certo, non occorre dormire per anni su una panchina dell’aeroporto per sentirsi soli. Né essere prigionieri. Ci si può sentire terribilmente soli, da liberi, anche in una grande città piena di vita, come New York, o Londra o Milano. O a Berlino o a Praga, le città in cui visse Franz Kafka. Forse l’avvocato aveva sottovalutato la potenzialità di una fantasia fervida, da maestro di storie dell’assurdo.

Sta di fatto che, pazzo o non pazzo, Mehran Nasseri continuò imperterrito a rifiutare la libertà. Anche dopo che era ormai diventato ricco e famoso. Finché un giorno si dovette ricoverarlo in ospedale per una colica, facendogli per sempre la sua panchina. Lo lasciarono libero di circolare in Francia. Si persero le sue tracce, si dice che gli ultimi anni li abbia trascorsi in un modesto appartamento nella banlieue parigina. Comunque non riuscì mai a mettere piede in Inghilterra. Dopo la Brexit sarebbe stato ancora più difficile. La Manica ormai è come il canale di Sicilia. Le cronache che ho letto sul suo decesso non dicono dove fosse diretto il giorno del suo ritorno in aeroporto.

Questo per la cronaca. Ma forse la vicenda ha qualcosa di più da raccontarci che le peripezie di un profugo respinto da tutti, e forse con qualche rotella fuori posto. Siamo tutti un po’ Mehran Karimi Nasseri, né di qua, né di là. Nel Corano il limbo viene definito “la muraglia che divide l’inferno dal paradiso”. Per Sant’Agostino i bambini non ancora battezzati sono destinati alle fiamme dell’inferno anche se “fiamme mitissime”. Finché Ratzinger, che non era ancora Papa, disse che il limbo era “solo un’ipotesi”. Era stato preceduto da Dante, che quel muro l’aveva abbattuto con la fantasia.

Tutti viviamo in un nostro limbo, che non è né paradiso né inferno. A cominciare da chi scrive queste righe. Sono immigrato. Sono stato profugo. I miei vennero in Italia via mare, dopo che una folla inferocita di nazionalisti turchi avevano devastato e bruciato il negozietto di vernici che mio padre aveva nei pressi del ponte di Galata, a Istanbul. So cosa vuol dire il mal di mare. Quella volta non ce l’avevano con gli Ebrei. Ce l’avevano coi Greci. Anzi con gli stranieri, tutti gli stranieri. Il nome sull’insegna del negozio di mio padre non era proprio turco…  Succede, ancora oggi, in tutte le latitudini. Il governo dell’epoca era in difficoltà e calo di consensi. Per rimediare, aveva incaricato i Servizi di una provocazione: una bomba nella casa natale di Atatürk, a Salonicco, in Grecia. Poi aveva aizzato, anzi organizzato il pogrom. Sono stati gli stessi Turchi a rivelarlo, qualche anno dopo, al processo contro il primo ministro di allora, rovesciato da uno dei tanti golpe militari. Il primo ministro che aveva provato a superare le sue difficoltà politiche scatenando una campagna anti stranieri si chiamava Adnan Menderes. Fu impiccato.

Avevo otto anni. Da un giorno all’altro lasciai la scuola, i miei giocattoli, i miei libri in turco, le lingue in cui mi esprimevo e pensavo. Persi il gusto per il cibo. Ho vomitato per tre giorni e tre notti sulla nave nera e puzzolente che da Istanbul ci aveva portati a Napoli. Non conoscevo una parola di italiano. Fui accolto in Italia, a parte qualche dileggio iniziale da parte dei bambini coetanei, con affetto. Nel giro di poche settimane mi esprimevo in italiano meglio di loro. L’ho raccontato in un libro di qualche anno fa, Spie e Zie, per Bompiani. C’è chi l’ha definita “un’autobiografia generazionale”, delle generazioni precedenti alla mia. Forse mi è sempre rimasto qualcosa del non trovarmi del tutto né di qua, né di là. Alle elementari in Turchia mi dicevo italiano, perché non ero del tutto turco, e avevo una zia in Italia. In terza elementare in Italia mi dicevo turco, perché i miei coetanei non mi consideravano del tutto italiano. Credo di averlo superato. Ero ventiduenne quando mi fu concessa la cittadinanza italiana. Non ne avevo il diritto, né per ius soli né per ius sanguinis. Non fu semplice. L’Italia voleva un nulla osta della Turchia. La Turchia non mi concedeva il nulla osta se non prestavo il servizio militare. Non riesco nemmeno a immaginare una situazione in cui non mi avessero fatto sbarcare da quella nave da incubo, lasciandomi a vagare in mare. Magari per vent’anni.

Quest’articolo è stato pubblicato in origine sul Foglio di sabato 19 novembre. 

Foto di copertina: Mehran Karimi Nasseri al Terminal 1 dell’aeroporto Charles De Gaulle, 28 luglio 2004 (STEPHANE DE SAKUTIN/AFP).

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