LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e scrittore, in libreria con "Amarcord Fellini. L'alfabeto di Federico" (Il Mulino ed., 2020)

Ermanno Olmi e il pane del cinema

«Gli altri fanno i film come se fossero brioche, io cerco di fare il pane». Vera o meno che sia, la battuta attribuita a Roberto Rossellini potrebbe ben valere per Ermanno Olmi, oggi più che mai interessato solo all’essenziale. È affascinato dal pane: «Sa che all’Università di Scienze gastronomiche di Bra stanno varando un corso di laurea per panettieri? E non è bello che il contadino di domani debba saper parlare l’inglese?».

Il grande regista bergamasco, 82 anni, da Asiago dove vive è tornato «fuori stagione» nella Puglia  prediletta per le vacanze estive e la scrittura, ospite della Fondazione «Opera Santi Medici» di Bitonto (Bari). Su invito del rettore della Basilica, don Ciccio Savino, ha inaugurato il programma del ventennale della Fondazione, incontrando il pubblico dopo la proiezione del suo ultimo lungometraggio Il villaggio di cartone (2011). Il film è la storia di un gruppo di migranti africani che si rifugiano in una chiesa appena dismessa. È un racconto quasi profetico alla luce delle tragedie di queste settimane sulle coste di Lampedusa: immagini cupe e bellissime un po’ alla Dreyer. La frase sussurrata dal parroco protagonista (Michael Lonsdale) continua a far discutere: «Il bene è più della fede». In proposito – apprendiamo – la mensa dei Santi Medici sforna duecentocinquanta pasti al giorno, mai così tanti, per soccorrere nuove povertà fino a ieri inimmaginabili nella città degli ulivi e del manufatturiero in crisi.

Il senso di Olmi per la terra è custodito già nel nome arboreo. L’autenticità della civiltà contadina narrata in limine mortis senza lo struggimento pasoliniano, la cura riservata alle relazioni fra le persone più che ai «rapporti di classe», costituiscono il cuore dell’umanesimo del Nostro. Il quale comincia negli anni Cinquanta come regista di documentari aziendali per la «Edisonvolta». Sono le stagioni in cui letteratura e cinema scoprono la fabbrica nell’Italia prossima al boom economico (Vittorini, Ottieri, poi Mastronardi, Bianciardi, Volponi, Lizzani). Olmi si trova per caso partecipe di quella corrente «industriale» in debito con le intuizioni di Adriano Olivetti, adesso biografato in una fiction di Raiuno in onda il 28 e 29 ottobre. I suoi brevi film non tradiscono mai la committenza, anzi, sebbene il focus, l’obiettivo, l’attenzione del regista siano tesi a I volti e le mani, come s’intitola un’antologia di dvd Feltrinelli Real dei suoi cortometraggi di mezzo secolo fa per la Edison, ai quali collaborano Pasolini e Parise, Testori e Kezich.

«Quando ho girato film sul mondo del lavoro, ho sempre avuto in mente come destinatari i lavoratori stessi», dice Olmi, che si rivela al grande pubblico con Il posto (1961), storia vera di due ragazzi in cerca di prima occupazione. L’imprinting è rosselliniano, appunto, ma il neorealismo è rinverdito da un afflato poetico che dà del tu alla natura delle cose. I film successivi sono diseguali, sempre originali, talora preziosi nel rivelare vicende e personaggi con un approccio da inchiesta d’autore, nobilmente «televisivo». Un modus operandi oggi estinto e perciò Olmi non va volentieri in Tv («So che sarei equivocato»), tranne che per lanciare i nuovi film come ospite di Fabio Fazio: «Lo faccio perché i produttori hanno la legittima aspettativa di recuperare quanto investono». Tra gli altri titoli, ricordiamo almeno E venne un uomo (1965) sulla figura di papa Giovanni XXIII e I recuperanti (1970) dedicato ai montanari alla ricerca di residuati bellici, ispirato dall’amico e vicino di casa Mario Rigoni Stern. Del 1978 è la Palma d’oro di Cannes vinta da L’albero degli zoccoli, film comunitario e spirituale, favola contadina di fine ‘800 su quattro famiglie che vivono in una cascina della Basà, la Bassa Bergamasca. Interamente recitato in dialetto da attori non professionisti, è uno stralcio di antropologia culturale che illumina le microstorie sullo sfondo della Storia. In maniera naturale e non ideologica, Olmi anticipa la crisi delle categorie marxiste e intuisce il bisogno di identità locale che sarebbe stato poi avvelenato dalla Lega Nord.

Dopo una malattia che lo ferma per anni, Olmi fa centro con un dittico premiato a Venezia: Lunga vita alla signora, storia di un giovane cameriere che s’aggiudica il Leone d’argento nell’87, e La leggenda del santo bevitore dal leggiadro e dolente racconto parigino di Joseph Roth, Leone d’oro nell’88 (nel 2008 la Biennale gli ha conferito il Leone alla carriera). Letteraria e panteista è l’ispirazione di Il segreto del bosco vecchio (1993), che sublima animali parlanti e storie magiche dalle pagine di Dino Buzzati. Seguono il corrusco Il mestiere delle armi (2001) votato alla morte del condottiero cinquecentesco Giovanni de’ Medici mentre l’avvento della polvere da sparo scandisce il passaggio alla guerra moderna, e Cantando dietro ai paraventi (2003) sulla pirateria cinese come metafora pacifista, con Bud Spencer capitano di lungo corso. Nel 2007 fa discutere Centochiodi, parabola evangelica del Cristo-Raz Degan ribelle ai libri sacri in nome della beatitudine dei semplici, puntualmente equivocato. Olmi annuncia che Centochiodi resterà il suo ultimo film di finzione e di voler tornare al documentario come fa con Terra madre del 2009 nato dall’interesse per il movimento Slow Food di Carlo Petrini. Per fortuna ci ripensa e gira Il villaggio di cartone.

A lungo snobbato dalla critica di sinistra in virtù del suo cattolicesimo contadino, giovanneo e antidogmatico – non lontano dal marxismo nostalgico di Pasolini -, Olmi è il regista della terra e della pietà più forti della Storia. Oggi è un maestro di riferimento per quanti, dall’Europa all’Estremo Oriente, considerano decisivo il suo lavoro di «svuotamento» dell’immaginario dalle scorie mortificanti del feticismo televisivo. Anche nell’incontro pugliese ha parlato della vitalità dei cosiddetti «tempi morti» nella vita quotidiana, sottratti al primato della Tv o di Facebook. Ogni immagine di Olmi è vera perché si concede e ci concede il tempo della percezione naturale, dell’osservazione, della contemplazione il cui etimo custodisce il templum, uno spazio sacro. Nel suo cinema, un impalpabile incanto coniuga saggezza popolare e cultura non tronfia, o addirittura in fuga da se stessa. È dunque nella forma, nello stile, nel linguaggio filmico prima che nel contenuto che va ravvisata la religiosità di Olmi, che riservò un’altra «provocazione» nell’esergo di Centochiodi: «Le religioni non hanno mai salvato il mondo».

All’origine dell’arte, ama dire Olmi in simbiosi con Fellini, «c’è lo sguardo puro dei bambini» che egli invita a esercitare ogni giorno su un foglio bianco. Sposato da mezzo secolo con Loredana Detto, la  protagonista di Il posto da cui ha avuto tre figli, ne cerca continuamente lo sguardo e la menziona in pubblico: «Anche quest’anno Loredana ha fatto l’orto». Piccoli miracoli esistono. Ovvero, per dirla con un suo libro autobiografico pubblicato quest’anno da Rizzoli, «l’apocalisse è un lieto fine».

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