L'ASINO DI BURIDANO

Massimo Parodi

Professore di Storia della filosofia medievale all'Università Statale di Milano.

Diritto allo studio

È difficile resistere al fascino di simboli, segni, corrispondenze, analogie. In questi giorni in cui a Milano si discute di cultura umanistica e numero chiuso all’univerità, viene la tentazione di ricostruire la storia iniziata una cinquantina di anni fa e che oggi rischia di chiudersi, e si scopre che la cosiddetta liberalizzazione degli accessi alle facoltà universitarie risale alla legge 910 del 1969. Ma sono le date a essere impressionanti: la legge porta la data dell’11 dicembre e viene pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale in data 13 dicembre. Impossibile non notare che il venerdì che cade fra quelle due date è quel drammatico 12 dicembre in cui avvenne la strage di piazza Fontana.
L’accostamente può avere un qualche significato? Certamente no, ma si sente un brivido nella schiena pensando a quei giorni drammatici in cui, mentre forze oscure cercavano di bloccare lo sviluppo sociale e politico italiano, altre spinte ideali riuscivano a compiere un passo avanti decisivo sulla strada del diritto allo studio:

Art. 1.
Fino all’attuazione della riforma universitaria possono iscriversi a qualsiasi corso di laurea:
a) i diplomati degli istituti di istruzione secondaria di secondo grado di durata quinquennale, ivi compresi i licei linguistici riconosciuti per legge, e coloro che abbiano superato i corsi integrativi previsti dalla legge che ne autorizza la sperimentazione negli istituti professionali;
b) i diplomati degli istituti magistrali e dei licei artistici che abbiano frequentato, con esito positivo, un corso annuale integrativo, da organizzarsi dai provveditorati agli studi, in ogni provincia, sotto la responsabilità didattica e scientifica delle università, sulla base di disposizioni che verranno impartite dal Ministro per la pubblica istruzione. (…)

Ci si è quasi abituati in questi cinquant’anni a considerare naturale il diritto allo studio, la possibilità di iscriversi a qualsiasi facoltà universitaria, contando sulle proprie forze e sul proprio impegno per colmare eventuali mancanze e lacune. Ma tutti i diritti che vengono definiti naturali sono assai poco naturali e hanno un inizio, richiedono lotte, esigono scelte politiche, e possono avere una fine. La storia dell’uomo si è sviluppata per migliaia di anni senza che qualcuno fosse nemmeno sfiorato dall’idea che si potesse rivendicare un qualche diritto allo studio; una delle protagoniste dell’Ordalia di Italo Alighiero Chiusano, di fronte alla proposta di imparare a leggere, risponde ironicamente: che bello, divento dottora. Nessun servo della gleba ha probabilmente mai pensato di potersi dedicare allo studio e nessun maestro universitario medievale ha mai pensato che questa fosse una violazione di un diritto naturale.
Le cose cambiano lentamente, mutano i rapporti economici e politici, si arriva persino ad abolire la schiavitù che per millenni ha aiutato lo sviluppo economico e le scelte delle classi dominanti. Certo sappiamo benissimo che un secolo dopo il lontano 1865, in cui venne approvato il XIII emendamento della Costituzione americana in cui si sancisce l’abolizione della schiavitù, la nera Rosa Louise Parks divenne simbolo della lotta per i diritti civili solo per essersi rifiutata di cedere a un bianco il proprio posto su un autobus.
L’importante è che, quando si affermano diritti che si ritiene, in un certo momento della storia, di definire naturali non si accettino compromessi sul piano giuridico e legislativo capaci di aprire brecce che poi rischiano di mettere in pericolo ogni nostra costruzione. Sappiamo che si deve lottare secoli per superare davvero la schiavitù, ma si può fare a patto che la legge non cominci a prevedere eccezioni all’emendamento voluto da Abramo Lincoln. Non si può dire che non possono esistere schiavi, salvo una modica quantità, quando si riveli opportuno.
Se, almeno dal 1969, consideriamo un diritto quello di accedere all’università, contando sulle proprie forze per colmare eventuali lacune, non si devono ammettere eccezioni. Sappiamo benissimo che non è questo un effettivo diritto allo studio, che richiederebbe ben altre trasformazioni sul piano economico e sociale, ma dobbiamo ricordare anche che ammettere eccezioni porta inevitabilmente a invertire la direzione del cammino.
È vero che esistono altre esigenze, persino formative, riconosciute per legge, che potrebbero consigliare di non irrigidire le posizioni e accettare quei piccoli passi indietro che tutti dobbiamo compiere in ogni tipo di relazione umana, sociale, politica, persino amorosa. Non è possibile, ogni volta che ci si chiede di fare un passo indietro, appellarsi ai ragionamenti di Antigone contro le leggi della città o al triste precedente del patto di Monaco, e tuttavia è pur vero che a un certo punto bisogna talvolta fermarsi nell’arretramento.
Se si propone di introdurre norme che, sia pure in astratto, possano implicare che un diplomato di scuola superiore rischi di trovarsi nella impossibilità di accedere all’università, e se queste norme discendono da leggi ormai approvate, occorre fermarsi e rifiutare quelle leggi, anche se non riusciamo a credere, come Antigone, di difendere altre leggi che Non sono d’oggi, non di ieri, vivono sempre, nessuno sa quando comparvero né di dove. Dobbiamo solo decidere se accettare, per il nostro futuro, di interrompere quel processo che conobbe un decisivo passo avanti l’11 dicembre del 1969.

  1. Ricevo dal collega e amico Gabriele Scaramuzza:

    Avendo fatto il liceo scientifico non ho potuto (nel 1958!) iscrivermi a Filosofia. Qualcosa intanto dovevo pur fare, e con una media che mi permettesse di restare in collegio. Mi sono dunque iscritto a Scienze Politiche, badando a dar esami che mi potessero tornar utili anche per Filosofia (Filosofia del diritto, Economia politica e non ricordo cos’altro). Contemporaneamente dovevo preparare la maturità classica, col programma intero degli ultimi tre anni. Un’assoluta insensatezza, unica cosa buona l’esser costretto a imparare il greco. Insomma, un’assoluta perdita di tempo, che mi impediva di occuparmi delle cose che mi avrebbero interessato …
    Poi improvvisamente tutto si capovolse, ma era troppo tardi per me. Questo generò anche un disorientamento in chi insegnava e doveva riciclarsi per far fronte alla nuova situazione.
    Questo per dirti la partecipazione con cui ho letto le tue righe.

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