THE VISIONNAIRE

Francesco Grillo

Francesco è Amministratore Delegato di Vision and Value, società di consulenza direzionale e si occupa soprattutto di valutazione di politiche pubbliche per organizzazioni internazionali. E' direttore del think tank Vision, con cui gestisce diversi progetti dedicati a "le università del futuro", "big society", "la famiglia del futuro" ed in generale all'impatto della rivoluzione delle tecnologie dell'informazione sulla società e sull'economia. In precedenza ha lavorato per la Bank of Tokyo e con McKinsey. Laureato in economia alla LUISS, ha completato un MBA alla Boston University e un PhD presso la London School of Economics con una tesi sull'efficacia della spesa pubblica in ricerca (http://www.visionwebsite.eu/vision/staff_cv.php?cv=1) . E' editorialista de Il Mattino e de Il Messaggero ed è autore di diversi libri sull'impatto di Internet sulla sanità (Il ritorno della rete, Fazi, 2003), sull'automobile (La Macchina che cambiò il Mondo, Fazi, 2005), sui media (Il Sonno della Ragione, Marsilio, 2007).

Al Mezzogiorno non servono più risorse ma competenze

Cosa serve al Mezzogiorno e all’Italia per poter un giorno risparmiarsi la periodica liturgia degli appelli a “fare presto perché il Sud sta sprofondando”? Cosa e’ che a governi assai diversi e’ sfuggito per centocinquanta anni mentre il resto del mondo – prima la Spagna e l’Irlanda, poi la Scozia e la Polonia – superavano – anche grazie ai finanziamenti europei – antichi problemi di sottosviluppo che , proprio come quello del Sud , sembravano avere forti radicamenti culturali ?

Un qualsiasi ulteriore “dibattito” sul Sud che si ponga l’obiettivo di risolvere la “questione” senza limitarsi a contemplarla, deve assolutamente partire da un paio di punti che dovrebbero essere fermi. Il problema del Mezzogiorno non e’ di risorse; ma, come ci continuerebbe a rimproverare Gaetano Salvemini se potesse osservarci, di competenze e responsabilita’ di una “classe dirigente” inadeguata – politica e amministrativa , locale e nazionale – che , anzi , nelle risorse – spese poco e male – ha trovato l’ossigeno – finanziario e politico – che l’ha tenuta in vita .

Il problema non e’ quello delle risorse perche’ se anche, ci arrendessimo all’idea di non riuscire a concepire alcuna strategia, sarebbe sufficiente distribuire – davvero a pioggia – a ciascun cittadino meridionale, i 22 miliardi di fondi strutturali che la Commissione Europea continua a destinare al Sud, per regalare al Mezzogiorno un vantaggio di quasi due punti percentuali di crescita del PIL rispetto al Centro nord all’anno per sette anni . E non e’ colpa dei tedeschi o dei piemontesi ma della macchina che intermedia i finanziamenti pubblici se, invece, la prima pagina del sito della Commissione Europea riporta la classifica che dice che l’Italia e’ al terz’ultimo posto tra ventisette Paesi per capacita’ di spesa: lontani dal Portogallo e dalla stessa Grecia che pure hanno avuto il problema di dover rispettare quel patto di stabilita’ che spesso e’ stato considerato il colpevole dei nostri ritardi, ma dietro persino alla Bulgaria alla quale i funzionari italiani sette anni fa insegnavano come utilizzare le risorse della politica di coesione che gli italiani inventarono trent’anni fa. Laddove anche quando la spesa c’è stata ( come con le “ultime accelerazioni” determinate dalla necessita’ di non perdere soldi), gli indicatori registrati dall’Istat non riportano alcuna traccia di impatto.

Ai numeri del fallimento si sono pero’ recentemente aggiunti tre novita’ che rendono la “questione” molto diversa da quella osservata dai grandi meridionalisti .

Il primo e’ che il “Sud” non esiste più. Se Vincenzo De Luca in Campania rischia di trovare al posto del tesoretto di fondi strutturali eroso dai ritardi nella preparazione dei nuovi programmi, una montagna di debiti prodotti da progetti finanziati e non conclusi; Michele Emiliano eredita , invece, in Puglia risultati che, in alcuni casi, sono a livello di regioni del Centro Nord.
Questa differenza di prestazioni si riscontra su indicatori diversi anche tra citta’ all’interno della stessa Regione o scuole nella stessa città ed e’ una buona notizia perché apre la strada ad una competizione leale tra amministrazioni che in altri Paesi ha migliorato la resa complessiva della politica di coesione.

La seconda novità recente e’ che pero’ il Sud non ha praticamente più (tranne che in non poche sacche di resistenza) “capitale umano”: se fino a qualche anno fa emigravano sistematicamente i migliori diplomati e laureati, oggi vanno via praticamente tutti e stanno diminuendo le nascite : fare innovazione con quelli che sono rimasti – i pensionati e i professionisti dei fondi strutturali (appunto) – rischia di diventare tecnicamente impossibile. In questa situazione , il primo obiettivo di chi vuole riavviare, davvero, il Sud e’ “aprirlo”. Reintrodurlo nei circuiti dell’economia globale, laddove oggi le cinque regioni del Sud, insieme, attraggono meno investimenti esteri dell’Umbria; renderlo attraente a chi e’ andato via e a chi può essere interessato a valorizzare i beni – ad esempio archeologici o gastronomici – che solo nel Mezzogiorno può trovare. In questo senso, e’ al Sud che l’idea – forse la migliore che da qualche tempo la Commissione Europea e’ riuscita a proporre – di focalizzarsi sulle “specializzazioni intelligenti”, dovrebbe avere i migliori alleati.

La terza discontinuità e’ la crisi finanziaria che può contemporaneamente essere una notizia cattiva, per i suoi effetti immediati, ma anche una grande opportunità. La scarsità di risorse pubbliche ha, infatti, tra le sue vittime quel ceto improduttivo che ha trovato nel finanziamento pubblico a Napoli come a Catanzaro l’opportunità di arricchirsi e ha fatto da tappo all’emersione di una classe dirigente vera; ma entra in crisi anche l’idea stessa del finanziamento a fondo perduto che si porta dietro un’irresponsabilità nei confronti del rischio e del risultato che ha avvelenato la cultura imorenditoriale di un ‘intera parte del Paese.

Il vuoto che produce l ‘esaurimento di un modello di ( sotto ) sviluppo va, dunque, riempito .

Da una parte, vanno coinvolti molto meglio i privati che cercano progetti fortemente innovativi o di impatto sociale: un’idea forte – difficile ma utilissima – e’ la creazione di fondi chiusi specializzati (come stanno facendo in Spagna) nelle poche aree (possono essere settori produttivi, ambiti di ricerca o, anche, servizi pubblici ) nelle quali le città e le Regioni del Mezzogiorno vogliono essere punto di riferimento.

Dall’altra la stessa amministrazione pubblica va fortemente motivata e resposabilizzata. In questo senso vale di più per il Sud il lavoro che sta facendo il ministro Madia sulla mobilita’ dei dirigenti o il ministro Delrio sulla nuova legge sugli appalti, che l’istituzione di un nuovo ministero.

E’ impossibile “scatenare l’inferno” se siamo costretti a giocare sempre con la stessa squadra (che perde) e se a occuparsi di sviluppo rimane una comunità autoreferenziale di “esperti di fondi strutturali”, laddove abbiamo bisogno d’ora in poi soprattutto di professionisti capaci di leggere in chiave globale l’evoluzione di settori come l’aerospazio, il turismo o l’industria alimentare e di intercettare innovatori che mai hanno avuto a che fare con amministrazioni pubbliche. E’ intollerabile che governi e regioni si rimbalzino resposabilita’ generiche quando concretissimi bandi di gara – sia a livello locale che dei ministeri che gestiscono fondi strutturali per il Sud – continuano a inchiodare le amministrazioni alle stesse società di consulenza che le hanno accompagnate da un fallimento ad un altro.

Il Sud dipende più del Nord dalle riforme della PA e degli appalti ed anzi un’idea potrebbe essere quella di fare proprio sui programmi di sviluppo, dove i risultati sono spesso facilmente misurabili, sperimentazioni di sistemi di remunerazione di consulenti e dirigenti legati alla prestazione.

La visione per il Sud è quella di non avere più bisogno tra cinque anni di finanziamenti pubblici e carrozzoni, rapporti Svimez e specialisti di sotto sviluppo. Del resto un sistema di potere e’ arrivato al capolinea e a tutti conviene superare l’ineluttabilità di un ritardo che e’ solo servito a proteggere un pezzo di società italiana dalla necessita’ di diventare normale.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 7 Agosto

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