Uno di questi tre, purchè finisca
il boicottaggio della minoranza Pd

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Ci sono tre “politici” che oggi presentano le migliori credenziali per la Presidenza, e non credo ci sia bisogno di spiegare perché: Amato, Prodi, Veltroni. E due sono i principali kingmakers, Renzi e Berlusconi. Prodi è eliminato dall’ostilità dell’intero universo di centrodestra e Renzi ha bisogno dei loro voti. Amato – con le credenziali migliori sotto il profilo della competenza e del riconoscimento al di fuori dall’Italia- è favorito dal centrodestra e credo non incontri un’ostilità di principio da parte di Renzi. Ma Renzi forse non avrà il coraggio di farne il suo candidato, contro l’ostilità di parte del suo partito e il furore di 5 Stelle, Lega e degli indignati in servizio permanente effettivo. Peccato, con Amato –al di là della sua competenza- chiuderemmo la fase più sgangherata della Seconda Repubblica. Resta dunque Veltroni, se Renzi riesce a farlo passare con Berlusconi…. E a farlo passare nel suo partito, contro la prevedibile ostilità di D’Alema. Se no si deve passare a candidati più che decorosi, ma con credenziali meno forti, come Mattarella, o a un tecnico – Sabino Cassese sarebbe il meglio – ma tutto si complica.

 

– Di Michele Salvati, ripubblichiamo anche questo commento pubblicato su Il Foglio del 26 gennaio 2015 – 

Gli appelli pubblici di un singolo non servono a niente, a meno che tocchino un caso che sta nel profondo della coscienza di una nazione e siano scritti da un Emile Zola. Non è questo il caso: il conflitto tra renziani e antirenziani del Pd è imparagonabile, quasi risibile, rispetto a quello che spaccò la Francia in due popoli e non ho né l’ambizione né la forza di scrivere un “J’accuse”. Oltretutto capisco le motivazioni degli antirenziani, anche se non le condivido, e cerco una conciliazione non una frattura. Si tratta dunque di invito alla riflessione, un ragionamento più che un appello.

Il ragionamento, da ultimo, è molto semplice e l’ho svolto in esteso sull’ultimo numero del Mulino in un articolo dal titolo: “Le due innovazioni di Matteo Renzi”. In sintesi: l’innovazione mediatico-organizzativa ha trasformato il Pd da partito oligarchico basato sul controllo della tradizionale democrazia associativa (sezioni/circoli, federazioni, assemblea nazionale, segreteria: quella “democrazia” criticata più di un secolo fa da Roberto Michels) in una democrazia del leader, di un leader che si rivolge direttamente a un pubblico di potenziali elettori che stanno anche (e soprattutto) al di fuori degli iscritti al partito o dei suoi simpatizzanti. Si rivolge a loro sulla base di un programma di governo, sperando che risulti gradito per la maggioranza degli italiani. Se così avverrà, il partito vincerà le elezioni e il segretario del partito diventerà capo del governo. Di questa prima innovazione Renzi si è servito per farne passare un’altra, un’innovazione politico-strategica: spostare il baricentro del Pd da un compromesso “di tipo” socialdemocratico, basato sull’accordo di vertice tra ex comunisti ed ex democristiani di sinistra – l’Italia una vera socialdemocrazia non l’ha mai avuta – a una visione modernizzatrice definibile, in senso lato, come liberale di sinistra.

Sulle ragioni che hanno determinato il successo (parziale, e forse non definitivo) di entrambe le innovazioni e sull’abilità di Renzi nell’imporle devo rinviare all’articolo del Mulino, come rinvio a una nutrita serie di miei scritti, recenti e stagionati: tra questi mi limito a ricordare, perché fece un certo scalpore, un altro appello su questo giornale che invitava a “rottamare” D’Alema e Marini nell’aprile del 2003. Qui voglio solo sottolineare che, sia per l’innovazione mediatico-organizzativa, sia per quella politico-strategica, le premesse stavano tutte nella concezione originaria del Partito democratico: non sono invenzioni di Renzi. Anche se il mio amico Arturo Parisi non la pensa così, la prima sta in nuce nel disegno delle primarie, la bandiera dell’Ulivo; la seconda in una corrente liberal che ha sempre avuto una vita grama e minoritaria all’interno del Pds-Ds e un po’ meno in Margherita, che è emersa per breve tempo al momento della fondazione del Pd, col discorso del Lingotto di Veltroni, per essere poi ricacciata in esigua minoranza nella gestione oligarchica del partito. E’ stata necessaria la “non-vittoria” del 2013, gli errori tattici che l’hanno preceduta e a essa fatto seguito – soprattutto la farsa tragica delle elezioni del presidente della Repubblica –, la depressione che ne è seguita tra i quadri e i militanti, per dare a Renzi l’occasione di vincere le primarie per la segreteria e poi conquistare il governo.

Dunque non un marziano che, chissà come, ha conquistato una solida maggioranza nel partito: ma un militante da sempre, che ha imposto a esso una svolta strategica. Una svolta così forte da lasciare attoniti gli esponenti della vecchia maggioranza, che si immaginavano di poter proseguire imperturbati il loro tran-tran consociativo. Volevo ancora ricordare – per sprovincializzare il ragionamento – che una dialettica tra una strategia liberal ed una tradizionale-socialdemocratica è presente quasi ovunque nella sinistra di governo europea, e non posso approfondire l’argomento: il mutamento di contesto tra i trent’anni gloriosi dopo la guerra e la fase neoliberale in cui viviamo è un riferimento che ora può bastare. Dunque, rispetto e comprensione per chi difende la vecchia strategia nella fase nuova, ma condivisione per chi ritiene che una nuova fase vada affrontata con una nuova strategia, proprio per far prevalere i vecchi valori.

Svolte così drammatiche non sono però frequenti: ogni paese è un caso a sé e fare paragoni è sempre rischioso. Nell’articolo del Mulino azzardo un confronto con la svolta di Blair del ’97 per spiegare le diverse modalità di lotta interne alla sinistra per far prevalere la nuova strategia: una lotta sorretta da una approfondita riflessione storica, economica e sociologica nel caso inglese; basata sull’intuito, l’opportunismo, l’improvvisazione nel caso italiano. Ma alla base, in entrambi i casi, c’era un popolo di sinistra che si era stufato di perdere. E chi voglia andare più a fondo sul caso britannico ha oggi un ottimo strumento per farlo: il libro appena uscito (Franco Angeli) di Florence Faucher e Patrick Le Galès, “L’esperienza del New Labour”.

Azzardo il confronto anche per contrastare la diversa reazione nel partito. Dopo le elezioni del ’97, nel Labour rimase una nutrita rappresentanza di tradizionalisti, di sostenitori della vecchia strategia. Ma il New Labour andò avanti molto speditamente nell’imporre la nuova: essa era risultata vincitrice nelle sedi deliberative del partito e i gruppi parlamentari vi si adattarono, anche se composti, in parte, da deputati assai scettici sulla svolta impressa da Blair. Il partito, soprattutto nella prima legislatura Labour, si presentò unito nel confronto con i conservatori, ma non è questo che sembra avvenire oggi in Italia. Renzi ha vinto nel partito, la direzione ha approvato la sua strategia a grande maggioranza – anche i tempi in cui essa dev’essere attuata, che ne sono un aspetto essenziale – e un gruppo consistente di parlamentari cerca di opporvisi utilizzando tutte le tecniche che le regole costituzionali consentono. Tecniche normalmente usate da partiti dell’opposizione contro la maggioranza di governo, non da una parte del partito di governo contro la parte predominante, quella risultata vincitrice all’interno del partito. Insomma, la lotta interna al partito si è trasferita sui banchi del Parlamento. Questa è una situazione piuttosto anomala, che di solito prelude a una spaccatura del partito: non si tratta di casi di coscienza singoli, ma di aspetti centrali di una strategia politica che è risultata prevalente nel partito e ora viene sconfessata in Parlamento. E conduce a un grave indebolimento del partito stesso: i dissidenti si lamentano che Renzi si appoggi sempre di più a Berlusconi, quando sono loro che lo costringono a farlo, facendogli mancare i voti che servono per attuare una strategia già approvata nella direzione del partito! La regola dell’unità del partito in sede parlamentare non è una “regola comunista”, è una semplice regola di efficacia: se si vuole una democrazia decidente, se si riconosce che un difetto grave della democrazia parlamentare è quella di perdersi in infinite mediazioni, il prerequisito è quello di avere dei “partiti decidenti”.

Ieri l’altro Bersani ha detto – secondo quanto titola Repubblica – “Scissione mai, il Pd è casa mia”. E sono convinto che crede profondamente a quanto ha detto. Ma si rende conto che la situazione in cui ha messo il partito è grave e rischia di allontanarlo sempre di più dall’idea di “casa” che ha in mente? Perché Renzi andrà avanti, è ovvio, appoggiandosi a chiunque lo sostenga, e sulla base di una legittimazione di partito impeccabile: pensare che alcune battaglie parlamentari lo scoraggino è sbagliato e rischioso, e soprattutto dannoso per la “ditta”: vuol dire non aver capito nulla, non tanto del carattere di Renzi, quanto della logica di un partito del leader. Capisco che ammettere la sconfitta e comportarsi lealmente di conseguenza è quasi insopportabile per chi ha pensato, erroneamente, di “essere” il partito, e Renzi, va detto, non fa molto per indorare la pillola. Ma non mancheranno occasioni per sfidare Renzi nel partito, come Blair è stato sfidato e sconfitto nel Labour, pur dopo tre elezioni vinte di seguito, cosa mai avvenuta nella storia britannica. Di qui il mio appello. Per il bene del paese, per il bene del partito, accettate lealmente la sconfitta e preparatevi, nel partito, a un lungo confronto con una concezione di lotta politica e di visione strategica diversa dalle vostre, ma ampiamente diffuse e perfettamente legittime nella sinistra 2.0.

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