Un pianeta senza centro

Dal nostro archivio riproponiamo un contributo di Zygmunt Bauman del 4 marzo 2011. 

La nuova interpretazione dell’idea di diritti umani scardina gerarchie e demolisce l’immagine di una «evoluzione culturale» verso l’alto («progressista»). Le forme di vita fluttuano, s’incontrano, si scontrano, precipitano, si aggrappano l’una all’altra, si fondono e si separano con (parafrasando Georg Simmel) lo stesso peso specifico. Le gerarchie e le linee evolutive stabili e invariate sono sostituite da interminabili lotte di riconoscimento, endemicamente inconcludenti, o tutt’al più da «ordini di beccata» altamente rinegoziabili|.

Facendo il verso ad Archimede, il quale avrebbe affermato (probabilmente con quella sorta di disperazione che solo un progetto completamente nebuloso può suscitare) di poter sollevare il mondo sol che avesse avuto un punto d’appoggio abbastanza forte, potremmo dirci in grado di sapere chi si assimilerà a chi, quale differenza/idiosincrasia è destinata a un colpo di scure e quale riuscirà invece a imporsi, se solo disponessimo di una gerarchia culturale. Ebbene, non ce l’abbiamo, né probabilmente ce l’avremo di qui a breve.

Tutti noi ormai siamo, o stiamo rapidamente diventando, come le vespe di Panama*. Più esattamente, il caso ha voluto che a queste ultime toccasse in sorte di «entrare nella storia» come la prima «entità sociale» cui è stata applicata la cornice cognitiva emergente, ancora precoce e in attesa di riconoscimento e approvazione; una cornice derivata dalla nostra nuova esperienza di scenari di coabitazione umana sempre più (e, con ogni probabilità, definitivamente) variegati, dell’indeterminatezza della linea di demarcazione tra «dentro» e «fuori», e dalla pratica quotidiana del mescolarsi e del contatto con la diversità. La previsione formulata da Immanuel Kant più di due secoli fa – per cui la specie umana, a un certo punto, si sarebbe trovata nella necessità di ideare, elaborare e mettere in atto regole di reciproca ospitalità, poiché tutti noi abitiamo la superficie di un pianeta sferico – si sta trasformando in realtà. O meglio, sta diventando la sfida più rilevante del nostro tempo, una sfida che richiede la risposta più urgente e meditata possibile.

Identità senza appartenenza

La composizione delle oltre duecento «unità sovrane» che figurano nella mappa politica del pianeta ricorda sempre più quella dei trentatré alveari esaminati dalla spedizione di ricerca della Zoological Society londinese. Nel tentativo di dare un senso allo stato attuale della nostra coabitazione planetaria di esseri umani, prendere in prestito i modelli e le categorie cui i ricercatori a Panama hanno dovuto attingere per dare un senso alle loro scoperte potrebbe essere un’idea non disprezzabile. In effetti, nessuno degli alveari presi in esame aveva i mezzi per mantenere i propri confini impermeabili, e ognuno doveva accettare un continuo ricambio di popolazione. D’altro canto, ogni alveare sembrava gestire piuttosto bene tale situazione, assorbendo i nuovi arrivati senza attriti e senza patire malfunzionamenti a causa della partenza di alcuni dei residenti di più vecchia data. Inoltre, all’orizzonte non si vedeva nulla di simile, neppure lontanamente, a un «centro» in grado di regolare il traffico degli insetti (o di chiunque altro fosse assoggettabile a tale controllo). Ogni alveare doveva far fronte più o meno per conto proprio alle incombenze della vita, anche se l’elevato indice di «turnover del personale » probabilmente assicurava che il knowhow acquisito da un nido potesse (e così era) muoversi liberamente, contribuendo alla sopravvivenza di tutti gli altri alveari.

E c’è dell’altro. Primo, i ricercatori londinesi non sembrano aver trovato prove significative di conflitti tra alveari. Secondo, il flusso di «quadri» fra un alveare e l’altro costituiva apparentemente una forma di compensazione di eccedenze o ammanchi di popolazione a livello locale. Terzo, il coordinamento e la cooperazione indiretta tra gli insetti sociali di Panama si sono sviluppati, a quanto pare, senza bisogno di coercizione né di propaganda, senza alti comandanti e quartier generali in vista; senza, in definitiva, un centro…
Che lo si voglia ammettere o no, e che la cosa piaccia o incuta timore, gli esseri umani sparsi tra le oltre duecento «unità sovrane», note come «Stati», sono in grado di vivere, da qualche tempo, senza un centro; anche se l’assenza di un centro globale ben definito, onnipotente, incontestato e di indiscutibile autorità costituisce, per i potenti e gli arroganti, una costante tentazione a riempire, o almeno a tentare di riempire, quel vuoto.

La «centralità» del «centro» si è disgregata e il legame tra sfere di autorità prima strettamente connesse e coordinate è stato (forse irreparabilmente) spezzato. I condensati locali di poteri e influenze a livello economico, militare, intellettuale o artistico non coincidono più (se mai hanno coinciso). Le mappe del mondo in cui le entità politiche sono contrassegnate da colori che indicano la loro importanza e quota relativa in termini – rispettivamente – di industria globale, commercio, investimenti, potenza militare, conquiste scientifiche o creazione artistica, non sono più sovrapponibili. E perché tali mappe siano utilizzabili per un qualsiasi arco temporale, i colori dovranno essere facilmente cancellabili, e applicati con parsimonia, visto che l’attuale gerarchia dei territori, ordinati per capacità di influenza e impatto, non offre alcuna garanzia di durata. E così, nel nostro disperato tentativo di cogliere la dinamica degli affari planetari, la vecchia abitudine, dura a morire, di mettere a punto un’immagine mentale dell’equilibrio di potere globale ricorrendo a strumenti concettuali come centro e periferia, gerarchia, superiorità e inferiorità, appare sempre più un handicap anziché, come in passato, una risorsa; i fari di un tempo sono diventati para- occhi. Gli strumenti sviluppati e applicati nello studio sulle vespe di Panama potrebbero rivelarsi molto più adatti all’impresa.

Quel che intendo suggerire è che le «identità» oggi esistano solamente nel processo di rinegoziazione continua. La «formazione delle identità», o più correttamente la loro «riformazione », diviene un compito che dura per tutta la vita, senza arrivare mai a conclusione; in nessun momento dell’esistenza l’identità può dirsi «finale». C’è sempre da svolgere un lavoro di riaggiustamento, poiché le condizioni di vita, il ventaglio delle opportunità e la natura delle minacce cambiano in continuazione. Questa «non finitezza» innata, l’irrimediabile inconclusività del compito di autoidentificazione, è causa di forte tensione e ansia. Un’ansia contro cui non esiste un rimedio istantaneo.

In ogni caso, non vi sono cure radicali, poiché gli sforzi di «formazione dell’identità» oscillano precariamente, com’è naturale, tra due valori umani parimenti centrali: la libertà e la sicurezza. Tali valori, altrettanto indispensabili per una vita umana decente, risultano difficili da conciliare, e l’equilibrio perfetto tra essi resta ancora da trovare. La libertà, dopo tutto, tende ad accompagnarsi all’insicurezza, mentre la sicurezza tende ad accompagnarsi alle limitazioni alla libertà. E se siamo insofferenti sia verso l’insicurezza sia verso la non-libertà, difficilmente saremo soddisfatti da qualsivoglia combinazione di libertà e sicurezza. Così, invece di un «progresso lineare» verso una maggiore libertà e una maggiore sicurezza, finora si è potuto osservare un movimento a pendolo, che molto probabilmente continuerà negli anni a venire: prima uno spostamento massiccio e deciso verso uno dei due valori, poi l’allontanamento in direzione dell’altro. Oggi, a quanto pare, in molti (forse la maggior parte) dei paesi del mondo, l’insofferenza rispetto all’insicurezza prevale sulla paura della mancanza di libertà (anche se nessuno può dire quanto a lungo durerà tale tendenza). In Gran Bretagna, per esempio, una larga maggioranza della popolazione si dice disposta a rinunciare a molte libertà civili per limitare (questa è la speranza) le minacce alla sicurezza. La maggior parte dei cittadini britannici è disposta, in nome di una maggiore sicurezza personale, ad accettare le carte di identità, finora ostinatamente rifiutate nell’isola in nome della privacy e della libertà individuale; e vuole che le autorità statali, sempre ai fini della sicurezza, abbiano la possibilità di intercettare le conversazioni telefoniche private e ispezionare la corrispondenza privata… Ed è nell’ambito della sicurezza, all’insegna di «più sicurezza», che viene forgiato il legame tra le autorità politiche del momento e gli individui, loro sudditi, e si va alla ricerca di una comprensione reciproca e di azioni coordinate. Lo smembramento e la disabilitazione dei centri tradizionali, sopraindividuali, saldamente strutturati e fortemente strutturanti, sembra correre in parallelo con la centralità emergente dell’Io reso orfano. Nel vuoto lasciato da autorità politiche in ritirata o sempre più evanescenti, oggi è l’Io che si sforza o è costretto ad assumere la funzione di centro della Lebenswelt (l’interpretazione privatizzata/individualizzata/ soggettivizzata dell’universo). È l’«Io» che riconfigura il resto del mondo come propria periferia, assegnando, definendo e attribuendo una rilevanza differenziata alle sue parti a seconda dei propri bisogni, desideri, ambizioni e apprensioni. Il compito di tenere insieme la società (qualunque cosa la nozione di «società» possa significare in condizioni di modernità liquida) viene «sussidiarizzato», «subappaltato» o ricade semplicemente nell’ambito della life politics individuale. Ed è lasciato sempre più all’iniziativa degli Io che «si mettono» in rete e «vengono messi» in rete e alle loro azioni e operazioni di connessione/disconnessione.

L’autocreazione dell’Io

Tutto ciò non significa che la «normale», quotidiana condotta degli individui sia diventata casuale, priva di schemi e scoordinata. Significa soltanto che la non casualità, la regolarità e la coordinazione delle azioni intraprese a livello individuale possono essere raggiunte, e di regola lo sono, attraverso mezzi diversi dagli espedienti e dagli stratagemmi tipici della modernità solida – l’imposizione, l’ordine pubblico, la catena di comando – privilegiati e adoperati dalle «totalità» del passato, miranti a essere «maggiori della somma delle proprie parti» e intente a forzare/addestrare/istruire le loro «unità umane» a una condotta ripetitiva, routinaria, disciplinata e regolamentata. Ovunque i legami tra esseri umani, ereditati o stretti nel corso delle interazioni correnti, perdono le protezioni istituzionali di cui godevano in passato, oggi viste sempre più come vincoli irritanti e insopportabili imposti sulla libertà di scelta e autoaffermazione individuale. Affrancati dalla loro struttura istituzionale (ormai deplorata e sofferta come una «gabbia» o una «prigione»), i legami diventano esili e fragili, si rompono facilmente e il più delle volte hanno vita breve. In un’apprezzabile sintesi delle esperienze di vita più comuni nella nostra società individualizzata, François de Singly(1) elenca i dilemmi che tendono a gettare ogni singolo apprendista dell’arte della vita in uno stato di acuta e incurabile incertezza e di eterna esitazione.

I percorsi di vita non possono che oscillare tra obiettivi reciprocamente incompatibili, se non totalmente opposti, come l’adesione e la dissociazione, l’imitazione e l’invenzione, la routine e la spontaneità. E tutte queste opposizioni non sono altro che derivati o esemplificazioni della meta-opposizione, la massima opposizione in cui la vita individuale è iscritta e alla quale non può sfuggire: quella tra sicurezza e libertà, entrambe fortemente desiderate, ma terribilmente difficili da conciliare e praticamente impossibili da soddisfare allo stesso tempo e nella stessa misura. Il prodotto dell’autocreazione, il processo gestito dall’arte della vita, è la supposta «identità » del creatore. Tuttavia, considerando le opposizioni che l’autocreazione tenta invano di conciliare, e l’interazione tra un mondo in costante cambiamento e le altrettanto instabili autodefinizioni degli individui che fanno di tutto per stare al passo con le mutevoli condizioni di vita, l’identità non può essere internamente coerente, né può in alcun momento assumere una parvenza di finitezza che non lasci spazio (e stimolo) a ulteriori miglioramenti. L’identità è eternamente in statu nascendi, ognuna delle forme che assume risente di una contraddizione interna più o meno acuta, ognuna è, in misura più o meno rilevante, insoddisfacente e bisognosa di rinnovamento, ognuna difetta di quella sicurezza di sé che solo una speranza di vita adeguatamente lunga può offrire.

Come suggerisce Claude Dubar, «l’identità non è altro che il risultato al tempo stesso stabile e provvisorio, individuale e collettivo, soggettivo e oggettivo, biografico e strutturale, dei diversi processi di socializzazione che, congiuntamente, costruiscono gli individui e definiscono le istituzioni»(2). Possiamo osservare che la «socializzazione» stessa, contrariamente a quella che fino a non molto tempo fa era l’opinione universale, tuttora espressa di frequente, non è un processo unidirezionale, bensì il complesso e instabile prodotto di una continua interazione tra l’aspirazione alla libertà individuale di autocreazione e un altrettanto forte desiderio di quella sicurezza che solo il crisma dell’approvazione sociale, convalidato da una (o più) comunità di riferimento, può offrire. Raramente la tensione tra i due si allenta per lunghi periodi, e quasi mai svanisce del tutto. E, come giustamente suggerisce François de Singly, (3) nel teorizzare le identità odierne le metafore delle «radici» e dello «sradicamento» (o, aggiungerei, il tropo collegato del disembedding, la «disaggregazione »), che implicano la natura unica e irripetibile dell’emancipazione dell’individuo dalla tutela della comunità di nascita nonché il carattere definitivo e irrevocabile di tale atto, andrebbero messe da parte e sostituite dai traslati del gettare e del levare ancore.

In realtà, diversamente dal caso dello «sradicamento » e della «disaggregazione», nel levare un’ancora non c’è nulla di irrevocabile, e tanto meno di definitivo. Se le radici, una volta strappate dal terreno in cui sono cresciute, tendono a seccarsi e morire, tanto che una loro (assai improbabile) rinascita avrebbe del miracoloso, le ancore vengono issate con la speranza di poterle gettare nuovamente, e in tutta sicurezza, altrove; e di fatto possono essere gettate con altrettanta facilità in molti porti di sbarco diversi e distanti tra loro. Inoltre, le radici indicano e determinano in anticipo la forma che assumeranno le piante cui danno vita, escludendo la possibilità di qualsiasi altra forma, mentre l’ancora è solo un attrezzo ausiliario di un’imbarcazione in movimento, e non definisce la qualità né le risorse della nave. I lassi di tempo che intercorrono tra il momento in cui l’ancora viene gettata e quello in cui viene nuovamente levata non sono che episodi nel tragitto della nave. La scelta del porto nel quale l’ancora viene di volta in volta gettata è quasi sempre determinata dal tipo di carico trasportato dalla nave: un porto che va bene per uno potrebbe essere del tutto inappropriato per un altro.

In definitiva, l’immagine delle ancore coglie ciò che la metafora dello «sradicamento» tralascia o fa passare sotto silenzio: l’intreccio di continuità e discontinuità nella storia di tutte le identità contemporanee, o almeno di un numero crescente di esse. Come una nave getta l’ancora, successivamente o a intermittenza, in vari porti di scalo, così gli Io, nel corso della loro ricerca di riconoscimento e approvazione, che si protrae per tutta la vita, sottopongono a ogni fermata le proprie credenziali al controllo e alla convalida delle «comunità di riferimento » a cui chiedono di accedere, e ciascuna «comunità di riferimento» stabilisce i suoi requisiti circa i documenti da presentare. Il registro di bordo e/o il diario del capitano fanno quasi sempre parte dei documenti cui è condizionata l’approvazione, e a ogni fermata il passato (costantemente incrementato dalla documentazione delle fermate precedenti) viene riesaminato e rivalutato.

Il cambiamento più importante è probabilmente il dissolversi delle ambizioni monopolistiche dell’«entità di appartenenza». Come già accennato, i referenti dell’«appartenenza», diversamente dalle tradizionali «comunità integranti », non dispongono di alcuno strumento per monitorare l’intensità della dedizione dei loro «membri», né hanno interesse a esigere e promuovere la lealtà indefessa e la fedeltà assoluta degli stessi. E non sono gelosi alla stregua di divinità monoteistiche. Nella sua attuale interpretazione liquido-moderna, l’«appartenenza » a una entità può essere condivisa e praticata simultaneamente all’appartenenza ad altre entità in quasi ogni combinazione possibile, senza provocare necessariamente condanne o misure repressive da parte di alcuna. Di conseguenza, i legami tendono a perdere gran parte dell’intensità che avevano in passato. La loro veemenza e il loro vigore, proprio come la combattività partigiana di chi si sente «legato», sono di norma stemperati, in buona parte, dalle fedeltà parallele. Quasi nessuna «appartenenza» impegna «l’intero Io», essendo ogni persona in qualsiasi momento della sua vita coinvolta, per così dire, in «appartenenze multiple».

Di qui l’odierna riformulazione del fenomeno dell’«ibridità» culturale (la combinazione, cioè, di tratti derivati da specie diverse e separate) come una virtù e un segno di distinzione, anziché (com’era considerato fino a tempi piuttosto recenti) un vizio e un sintomo di inferiorità culturale o di deplorevole déracinement e déclassement. Nelle scale gerarchiche emergenti di superiorità culturale e prestigio sociale, gli ibridi tendono a occupare i primi posti e la manifestazione della propria «ibridità » diventa il principale strumento di mobilità socio-culturale verso l’alto. Il fatto di essere condannati in eterno a un solo e unico spettro di valori e di schemi comportamentali, invariabile e autocircoscritto, d’altro canto, è visto sempre più come un segno di deprivazione o inferiorità socio-culturale. Lo spazio pubblico può tornare a essere un luogo di impegno duraturo anziché di incontri casuali e passeggeri? Uno spazio di dialogo, discussione, confronto e accordo? Sì e no. Se per «spazio pubblico» si intende la sfera pubblica, circondata e servita dalle istituzioni rappresentative dello Stato-nazione (come è stato per gran parte della storia moderna), la risposta, probabilmente, è no. Quel particolare tipo di scena pubblica è stata spogliata di quasi tutti i punti di forza che le hanno permesso di sostenere i drammi allestiti in passato. Originariamente create per i fini politici dello Stato nazione, tali scene pubbliche rimangono saldamente locali, mentre il dramma contemporaneo è esteso a tutta l’umanità, e risulta pertanto clamorosamente ed enfaticamente globale. Una risposta affermativa richiede, perché sia credibile, uno spazio pubblico nuovo e globale: una politica autenticamente planetaria (che è cosa diversa da «internazionale ») e una scena planetaria adeguata. Ma anche una responsabilità realmente planetaria: la presa di coscienza che tutti noi, condividendo lo stesso pianeta, dipendiamo gli uni dagli altri per il nostro presente e il nostro futuro, che nulla di ciò che facciamo o non facciamo è irrilevante per il destino altrui, e che nessuno potrà ancora sperare di mettersi personalmente al riparo da tempeste che nascono in ogni punto del pianeta.

La logica della responsabilità planetaria mira, almeno in linea di principio, ad affrontare i problemi di portata globale in modo diretto, al loro stesso livello. E nasce dal presupposto che una soluzione veramente efficace e duratura ai problemi che riguardano tutto il pianeta possa essere trovata ed elaborata soltanto attraverso la rinegoziazione e la riorganizzazione della rete di interazioni e interdipendenze globali. Invece di puntare a limitare i danni locali o ai benefici locali portati dalle spinte capricciose e fortuite delle forze economiche globali, tale logica persegue un nuovo tipo di scenario globale, in cui le rotte delle iniziative economiche in qualsiasi angolo del pianeta non seguano più un andamento stravagante, guidato solamente da profitti momentanei, senza alcuna considerazione per gli effetti collaterali e le «vittime collaterali», e senza prestare importanza alle dimensioni sociali dell’equilibrio tra costi e risultati. In breve, essa è mirata, per citare Habermas, allo sviluppo di «[una] politica [che] si rimetta al passo con i mercati globalizzati». (4) Possiamo sentire, immaginare, sospettare che cosa occorre fare. Ma non sappiamo quali saranno la forma e la modalità del cambiamento. Certo è che non si tratterà di una forma consueta. Sarà diversa da tutto ciò a cui siamo abituati.

Traduzione di Enrico Del Sero

Note: * Si veda dello stesso autore Cosa ci insegnano le vespe sull’immigrazione «Reset» 121, la prima parte della Lectio presentata ai seminari di Istanbul organizzati da Reset-Dialogues on civilitazions. La versione inglese uscirà prossimamente in un volume monografico della rivista «Philosphy&Social Criticism», in preparazione per Sage Publications.

1 François de Singly, Les uns avec les autres: Quand l’individualisme crée du lien, Armand Colin 2003, pp.108- 9.
2 Cfr. Claude Dubar, La Socializzazione. Come si costruisce l’identità sociale, Il Mulino, Bologna 2004, p. 131.
3 Les uns avec les autres, p.108.
4 Jürgen Habermas, La costellazione postnazionale. Mercato globale, nazioni e democrazia, Feltrinelli, Milano 2002, p. 90

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