Se vince la paura di finire «fuori gioco»

Dal nostro archivio un testo di Zygmunt Bauman, presentato durante la conferenza del 31 marzo 2004 organizzata dal Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale della Facoltà di Sociologia dell’Università di Milano-Bicocca.

È stata ben documentata la storia spettacolare, per quanto lunga meno di vent’anni, dell’ascesa mozzafiato e poi del collasso scioccante di Enron, gigante del mercato venuto su quasi da un giorno all’altro da un’impresa venditrice di gas.

Portato dai suoi nuovi manager (Kenneth Lay prima e Jeffrey Skilling poi) da un successo galoppante a un altro, universalmente lodato dagli economisti e dagli esperti finanziari di punta per la sua insaziabile fame di crescita economica («Lay e Skilling sono stati lanciati come gli eroi della deregulation e come gli apostoli del libero mercato» e sono stati ammirati per essersi rapidamente adeguati «alla filosofia senza regole del nuota-o-affoga» – come Conal Walsh riassume l’opinione dominante, in un articolo del 2002 su «The Observer»), è stato in seguito, rapidamente e con lo stesso consenso, rinnegato dalle medesime autorità. Molto meno discusso (perché meno unico e sensazionale, molto più comune) è stato l’impatto della politica di deregulation di Ronald Reagan sulla difficile situazione, sul morale, sulle visioni del mondo e sulle strategie di vita degli impiegati di Enron, assunti e poi licenziati.
Coloro che facevano domanda di impiego «erano sottoposti a un rigoroso processo di verifica e dovevano dimostrare una forte capacità di affrontare l’urgenza in ogni contesto e qualsiasi cosa facessero. Qui non si trattava infatti di superare un unico test – la vita ad Enron era un test continuo, senza tregua (…). «Due volte l’anno il quindici per
cento della forza lavoro veniva ritualmente licenziata per essere sostituita da nuovi arrivi. E a un altro trenta per cento si consigliava con fermezza un perfezionamento ». La dedizione degli impiegati, sia di «vecchia» che di nuova leva, doveva essere assoluta – ma obbligatoriamente di breve durata. Enron non era una mappa su cui segnare piani capaci di durare per la vita: solo un terreno da campeggio per tende portatili, facili da piantare e ancora più facili da togliere. La vita nell’azienda era costantemente sospesa sull’orlo dell’eccedenza di manodopera, una sorta di prova quotidiana di «smaltimento rifiuti». Per nessuno il turno per essere scaricati rappresentava un’eventualità solo remota e così, se arrivava, non veniva salutato come un brusco colpo del destino. La «cultura del lavoro» (…) di questa azienda «ha distrutto il morale e la coesione interna dei suoi impiegati». Ha inoltre consumato il loro potere di resistere alla prospettiva di essere scaricati come rifiuti e ha creato le condizioni per rendere tali prospettive reali. L’unico ricordo che gli impiegati si porteranno a casa quando verrà il tempo di sgombrare la scrivania, e verrà sicuramente prima o poi, è la nozione, senza dubbio utile, di quanto sia sottile e fragile la linea che separa un posto di potere da un mucchio di spazzatura, un momento di gloria da una sconfitta umiliante, un distintivo di onore da uno stigma di disgrazia e un caldo abbraccio da una fredda espulsione.

Dedizione..a scadenza

A dire il vero gli impiegati probabilmente si porteranno via anche qualcos’altro: hanno imparato due lezioni importanti.
Prima lezione: i giorni contano solo nella misura in cui è possibile ricavarne soddisfazione, e non un briciolo in più. Il premio che si può realisticamente sperare di ottenere e per cui lavorare è un presente differente, non un domani migliore. Il futuro sta oltre la vostra portata (e di chiunque altro in questa faccenda), quindi smettete di inseguire il
vaso d’oro alla fine dell’arcobaleno. Le preoccupazioni «a lungo termine» sono per gli ingenui e gli sprovveduti. Come dicono i francesi: le temps passe vite, il faut profiter de la vie. Quindi provate a godervi per quanto potete gli intervalli tra un viaggio e l’altro verso i mucchi di spazzatura.
Seconda lezione: qualsiasi cosa facciate, mantenete aperte altre possibilità. I giuramenti di lealtà sono adatti agli stessi tipi sfortunati che si preoccupano del «lungo termine». Non impegnatevi più a lungo di quanto sia strettamente necessario. Mantenete i vostri impegni poco profondi, in modo da potervene liberare senza riportare ferite e cicatrici. Lealtà e dedizione, come tutto il resto dei beni di consumo, hanno una scadenza: non fateli durare un minuto di più.
L’esperienza degli uomini e delle donne di Enron non è stata così unica come suggerisce la pubblicità seguita alla sua brusca fine: se lo fosse stata, gli istituti di ricerca del mondo del benessere non sarebbero impegnati, come invece accade (secondo una recente notizia del Village Voice) a cercare un farmaco in grado di curare o alleviare «il disturbo da stress post-traumatico» (Ptsd); ci deve sicuramente essere un ampio mercato in attesa di questo prodotto. Alla Scuola di Medicina Ponce di Puerto Rico gli scienziati stanno cercando di aiutare il cervello a «disimparare» paura e inibizioni; l’Università di Harvard sta sperimentando pillole di propranololo allo scopo di «troncare il trauma sul nascere». I ricercatori dell’Irving Campus dell’Università della California sono già riusciti a inibire le reazioni ormonali alla paura nei ratti – «attenuando la formazione della memoria e delle emozioni che esse evocano». Che cosa succederà poi?
Una delle possibilità è quella di un soldato che provoca «fiamme e grida, esplosioni assordanti e un’aria acre» mentre cammina su di un suolo «ricoperto di corpi spezzati di donne e bambini» e poi si precipita di nuovo «a ingoiare pillole che possono, nel corso di due settimane, renderlo immune da rimorsi schiaccianti per tutta la vita». Così il soldato
sarebbe in grado di ricominciare ancora e ancora daccapo. Mentre i ricercatori non si sbilanciano sulle cause del Ptsd, essi difendono il valore morale della loro ricerca e la speranza di buoni risultati; il farmaco salverà coloro che «hanno ucciso» (siano soldati o imprenditori di Enron) dal trauma che li condannerebbe a diventare dei rifiuti. Chi sta dall’altra parte della barricata ribatte che questo renderà la pratica immorale di relegaregli umani tra i materiali di scarto molto
più facile e meno costosa, quindi più allettante.
A fronte di questa presa di posizione la risposta più probabile sarà che il lavoro dei ricercatori è quello di «prevenire l’inizio di una malattia, non di cambiare le circostanze sociali che la determinano».

Se il carpe diem è «in» (e la stabilità «out»)

Intervistata da Oliver Burkman del «The Guardian», una ragazza inglese di diciotto anni ha dichiarato che il padre, un insegnante, è il suo anti-eroe: «Io non voglio voltarmi indietro a guardare la mia vita e vedere che ho iniziato un lavoro perché era sicuro e perché potevo rimanere lì per sempre». I padri che restano attaccati al loro lavoro per tutta la vita (se ci sono ancora in giro padri di questo tipo) sono considerati dalla loro prole come un ammonimento e un deterrente: questo è il tipo di lavoro che occorre evitare in tutti i modi possibili. Un fornaio di New York si è invece lamentato con Richard Sennett (nel noto volume L’uomo flessibile) del conflitto di valori visto dalla prospettiva dei padri: «Non può immaginare quanto mi senta stupido quando parlo con i miei figli di impegno. Per loro è una virtù astratta, non la vedono da nessuna parte». Senza dubbio nelle biografie dei padri ci sono prove poco convincenti dei benefici ricavabili dall’impegno lavorativo. Nel caso infatti abbiano cercato di impegnarsi in qualcosa di più solido e durevole di se stessi – una vocazione, una causa, un posto di lavoro – si saranno dovuti rendere conto che la loro offerta di impegno per la vita restava senza acquirenti. Inseguire le cose, acciuffarle al volo, quando sono ancora fresche e fragranti, questo è «in». Procrastinare, adattarsi a quello che già c’è, è «out». «In» e «out» sono anche i seguaci di queste opposte strategie. John Kotter, professore alla Harvard Business School, consiglia ai suoi lettori (nel libro The New Rule, 1995) di evitare di impegolarsi in impieghi a lungo termine; infatti, sviluppare una lealtà istituzionale e farsi assorbire troppo intensamente da qualsiasi lavoro per un lungo periodo non è consigliabile quando «i concetti di affare, i piani della produzione, l’intelligenza dei concorrenti, il capitale e ogni tipo di competenza hanno tempi di vita più brevi». La scoperta di Benjamin Franklin che «il tempo è denaro» era un elogio del tempo: il tempo è valore, il tempo è importante, qualcosa di cui prendersi cura, così come occorre prendersi cura del proprio capitale e dei propri investimenti. Invece l’attuale «sindrome dell’impazienza» comunica un messaggio opposto: il tempo è una seccatura e una noia, una pena, una mortificazione per la libertà umana e una sfida per i diritti umani, e nessuno di questi aspetti deve o ha bisogno di essere sopportato volentieri. Il tempo è ladro. Acconsentite ad aspettare e a posporre la ricompensa per la pazienza che portate – sarete derubati delle occasioni di gioia e di piacere che compaiono una sola volta e poi
spariscono per sempre. Il passare del tempo trova posto sul lato in ombra dei progetti di vita umani; porta perdite, non guadagni. Il passare del tempo preannuncia lo spreco di opportunità che si sarebbero dovute afferrare e consumare sul momento. Aspettare è una vergogna, e la vergogna dell’attesa si ripercuote su colui/colei che aspetta. Aspettare è qualcosa di cui vergognarsi perché può essere considerato un segno di indolenza o di basso status, un sintomo di emarginazione, qualcosa da abbandonare.
Il sospetto di «non-essere-veramente- sul-mercato» ora emerge in superficie causando numerosi interrogativi: Perché devo aspettare quello che desidero ardentemente? Le mie speranze contano quanto dovrebbero? Sono rispettate come dovrebbero? Sono realmente necessario e benvenuto? Oppure sono disprezzato? Se è così, questa mortificazione significa che sono già sulla via del tramonto? Sono il prossimo nella lista degli esuberi disegnata in segreto da coloro che mi fanno aspettare? Un circolo vizioso, se mai ce ne è stato uno. Il vertiginoso ritmo del cambiamento svalorizza qualsiasi cosa possa essere desiderabile e desiderata oggi, considerandola sin dall’inizio come il rifiuto di domani, mentre la paura di essere trasformati in rifiuti che promana dall’esperienza esistenziale legata a ritmi di mutamento sconvolgenti spinge sia a desiderare più avidamente sia a cambiare con maggiore velocità i propri desideri.

Gli uomini, questi decision makers

Nelle riviste che stabiliscono quali sono gli stili di vita più appropriati del momento, le colonne dedicate a «ciò che è nuovo» o «ciò che in» (quello che occorre avere, fare, e mostrare di avere e di fare) affiancano le colonne destinate a «ciò che è out» e a ciò che non si deve avere o fare, né mostrare di avere o di fare. Le informazioni sulle nuove tendenze arrivano in blocco insieme con le notizie sulle tendenze fuori moda e all’aumentare delle prime corrisponde un aumento delle seconde ad ogni nuovo numero della rivista. Così, per esempio, «quei vasi di gigli vanno eliminati. Sono una tendenza vecchio stile». Non perdete tempo con materiali di plastica che non sono più traslucidi». «Le gomme e i linoleum sono una cianfrusaglia della passata stagione». E poi viene il colpo finale. Per non dare alle affermazioni un’aria troppo definitiva agli occhi dei lettori: «In questo momento sceglierei un parquet di seconda mano. Ma chiedetemelo di nuovo tra sei mesi». Come il grande sociologo italiano Alberto Melucci era solito affermare (cfr The Playing Self: Person and Meaning in the Planetari Society, 1996, versione ampliata dell’it. Il gioco dell’io, Feltrinelli, 1991) – «siamo afflitti dalla fragilità del presente che richiede solide fondamenta là dove non ne esiste alcuna». E così, «nel contemplare il cambiamento, siamo sempre combattuti tra il desiderio e la paura, tra la previsione e l’incertezza
». Si tratta di questo: incertezza. Oppure di rischio, come Ulrich Beck preferisce chiamarlo: il compagno indesiderato, inopportuno e irritante, ma anche ostinato, invadente, inseparabile (o piuttosto una guida?!) di ciascuna anticipazione – uno spettro sinistro che tormenta gli inveterati decisionmakers che siamo. Per noi, come Melucci efficacemente fa notare, «la scelta è diventata un destino». «È diventata» non è forse un’espressione corretta: dopo tutto, e le motivazioni sono già state spiegate chiaramente, gli umani sono stati decision-makers da quando sono umani. Ma si può tuttavia affermare che in nessun altro periodo storico la necessità di compiere delle scelte è stata così profondamente sentita, e che mai come ora è stata seguita da effetti tanto tremendi: quotidianamente affiancata da una dolorosa e incurabile incertezza e da propositi di azione che durano fino a quando si raggiunge l’obiettivo e si porta a termine l’azione, con la minaccia costante di «essere lasciati indietro », «di non essere all’altezza di nuove richieste» e (orrore degli orrori) di essere messi fuori gioco. Ciò che separa l’agonia della scelta dell’oggi dallo sconforto che ha tormentato l’homo eligens, l’«uomo che sceglie» tipico di tutti i tempi, è esattamente il sospetto o la scoperta dolorosa che non ci sono regole ben definite e attendibili, obiettivi universalmente riconosciuti che possano liberare, del tutto o in parte, coloro che prendono una decisione dalla responsabilità per le conseguenze – erronee o impreviste – delle loro scelte. Non ci sono precisi punti di orientamento né indicazioni infallibili, e questi punti di riferimento e queste indicazioni possono sembrare affidabili oggi così come è probabile che debbano essere eliminati domani, perché ormai fuorvianti o inefficaci. Per citare ancora Melucci – «non possediamo più una casa; siamo chiamati ripetutamente a costruirne una come fanno i tre piccoli porcellini della fiaba, oppure la dobbiamo portare con noi sulle nostre spalle come le lumache». In questo tipo di cultura e nelle strategie delle politiche della vita che essa valorizza e promuove, non c’è molto spazio per gli ideali. Ancora meno spazio c’è per gli ideali che suggeriscono uno sforzo a lungo-termine, continuo e sostenuto da piccoli passi che portano fiduciosamente verso risultati lontani.
E non c’è per niente spazio per un ideale di perfezione che deriva il suo fascino dalla promessa finale di scegliere, cambiare, migliorare. Per essere più precisi, un tipo di ideale come questo può ancora aleggiare nel mondo della vita dell’uomo e della donna che abitano la modernità liquida – ma solo come sogno, un sogno che non si aspetta
diventi realtà e che, quando si arriva al dunque, raramente ci si augura diventi realtà; un sogno notturno che si dissolve alla luce del giorno.

Revisione di coppia (e cambio di macchina)

«La vostra macchina fa la revisione ogni anno, perché non dovrebbe farla anche la vostra coppia?» – domanda Hugh Wilson sul «The Observer Magazine». È proprio così. Ciò che vale per la macchina vale anche per la coppia. Cioè, se entrambi hanno senso solo se soddisfano i vostri bisogni e fino a quando siete soddisfatti del modo in cui li soddisfano… sarebbe stupido supporre che continueranno per sempre a dare il meglio di sé e che la vostra soddisfazione sarà eterna. Dopotutto, le macchine invecchiano, perdono un po’ del loro scintillio e lustro, smettono di funzionare non appena si inserisce la chiave nell’accensione perché hanno bisogno di sempre più attenzione per mantenersi efficienti. La cura che richiedono diventa un consumo sia di tempo che di energia.
Sembra all’opera una legge secondo cui il rendimento diminuisce con il tempo. All’inizio, un vostro piccolissimo movimento porta molte nuove sensazioni gratificanti – ma per ottenere successive sensazioni di felicità, c’è bisogno di un sempre maggiore investimen-to di pensiero, dedizione e lavoro… Tutto ciò vale la pena? Ci sono così tante macchine più nuove e migliori in giro, più belle e attraenti, più facili da far funzionare e più scattanti. È tempo di pensare a un cambio. È tempo di consegnare la vecchia macchina alla rottamazione. In ogni caso non era destinata né pensata per durare per sempre – o no?
Siamo consumatori in una società di consumatori. La società dei consumi è una società di mercato; tutti noi siamo nel e sul mercato, in modo intercambiabile o simultaneamente acquirenti e merci. Non meraviglia che l’uso/consumo delle relazioni si adatti velocemente al modello dell’uso/consumo della macchina, ripetendo il ciclo che inizia con l’acquisto e finisce con lo smaltimento dei rifiuti. «Vivere insieme» in Gran Bretagna dura in media fino a due anni. Il quaranta per cento dei matrimoni in Gran Bretagna finisce con il divorzio. Negli Stati Uniti il rapporto è di un divorzio su due e la stima è in crescita. Hugh Wilson acutamente suggerisce che una revisione ogni anno o ogni sei mesi sembra a molta gente, in queste circostanze, una cosa ragionevole – così come «portare avanti relazioni che durano periodi di sei mesi è tipica delle tendenza a pensare a breve termine anche tra le coppie in apparenza fisse». Negli Stati Uniti il progetto di istituzionalizzare contratti matrimoniali rinnovabili ogni due anni (e per non più di dieci anni complessivi), sta riscontrando un consenso di pubblico sempre più ampio.
Un crescente numero di osservatori si aspetta ragionevolmente che gli amici e le amicizie svolgano una funzione sempre più centrale nella nostra società individualizzata. Dal momento che i tradizionali supporti della coesione sociale stanno rapidamente andando in pezzi, le relazioni amicali potrebbero diventare il nostro giubbotto o la nostra scialuppa di salvataggio. La realtà sembra essere comunque qualcosa di meno semplice. Nella tarda modernità o «modernità liquida» le relazioni sono una questione ambigua e tendono ad essere oggetto di un’acutissima e stressante ambivalenza: le relazioni che ciascuno di noi desidera con ardore comportano immancabilmente una perdita, anche se parziale, dell’autonomia, sebbene si desidererebbe poterle avere entrambe…
La continua ambivalenza si risolve in una dissonanza cognitiva, uno stato della mente notoriamente frustrante, avvilente e difficile da tollerare. Essa sollecita, a sua volta, il solito repertorio di stratagemmi, tra cui il più comune è quello di ridurre, minimizzare e sminuire uno dei due valori inconciliabili.
Molte relazioni, destinate comunque a durare solo «fino al prossimo avviso», quando subiscono pressioni contraddittorie si spezzano.
La rottura è nell’ordine naturale delle cose, qualcosa a cui pensare sin d’ora ed essere preparati ad affrontare. Partner assennati finiscono dunque (come Wilson afferma) per «costruire fin dall’inizio legami da cui è facile tirarsi indietro e nel modo meno doloroso possibile».

Micro-lutti quotidiani

Quando i legami e le relazioni sono ad alto rischio di deterioramento, la previsione e la prudenza consigliano di tenere conto molto in anticipo della facilità con cui potrebbero concludersi. Dopo tutto, gli speculatori urbani non si azzarderebbero ad iniziare una costruzione a meno che non esista un permesso di demolizione; i generali avrebbero
orrore di mandare le loro truppe in battaglia prima di avere a disposizione una possibile via di fuga; e i datori di lavoro si lamentano che i diritti acquisiti dai loro impiegati e i limiti imposti al loro licenziamento rende l’estensione delle forme di impiego impossibile…
Sul «The Observer» Anushka Asthana ha raccontato della «mania dell’appuntamento veloce» (o di una sorta di «nastro trasportatore di appuntamenti») che ha recentemente coinvolto in modo tumultuoso l’America e subito dopo anche Londra. «Undici tavoli sono sistemati in fila, le ragazze si siedono al posto che è stato loro assegnato e i ragazzi fanno a turno per sedersi di fronte a ciascuna.
Dopo tre minuti una campana gigante suona e, che si sia nel bel mezzo di un discorso oppure no, è tempo di cambiare».
Se ci si vuole incontrare di nuovo, si fa un segno in un’apposita casella. Se la persona dall’altro lato del tavolo fa la stessa cosa, ci sarà un altro incontro. Se no, questa è la fine della storia. Qual è la caratteristica che all’improvviso ha reso l’ «appuntamento veloce» uno stupefacente successo commerciale? L’opportunità di «tagliare i preliminari» potrebbe essere una risposta, ma è difficile sia la sola. Molto più importante sembra essere la «campana gigante» che suona ogni tre minuti senza lasciare a voi e al vostro partner-dei-tre-minuti nessun’altra scelta che quella di separarvi. Negoziare l’inizio di una amicizia è senza dubbio un processo complesso che richiede coraggio e abilità che molti non posseggono (un loquace cliente di Asthana si è vantato del fatto che, invece di un appuntamento al mese, che è la sua regola abituale, ha avuto in una sola sessione «quattro appuntamenti di fila nelle settimane seguenti») – ma negoziare la fine di un’amicizia tende a essere un’esperienza traumatica e più lunga è l’amicizia più profondo è il trauma. Simon Procter, il cervello che sta dietro a un’altra compagnia di appuntamenti veloci, è particolarmente perspicace: «Se non ti piacciono, ne sei subito fuori». Così, il problema dello smaltimento rifiuti viene risolto prima ancora che i rifiuti si producano.
Iniziate velocemente, consumate rapidamente e disponibili su richiesta, le relazioni possono comunque avere i loro effetti collaterali, non meno dolorosi degli effetti dovuti alla timidezza che le imprese dell’appuntamento-veloce promettono di annullare. Lo spettro del mucchio di spazzatura non è mai lontano. Dopo tutto la velocità e i servizi di scarico-dei rifiuti sono disponibili per entrambe le parti. Potreste finire in una condizione simile a quella descritta da Oliver James sull «Observer magazine» – avvelenati da «un continuo bisogno degli altri nella vostra vita, con sensazioni di vuoto e di solitudine simili a quelle di un lutto». Potreste essere «spaventati per sempre dall’eventualità di venire scaricati da amanti e amici». La condizione qui diagnosticata sembra essere una conseguenza naturale, logica e razionale di una vita cosparsa di relazioni che si formano e si rompono all’istante, ma James ne fa risalire la causa a «una depressione da dipendenza», un disturbo (organico o fisico) curabile, e sostiene inoltre che «le origini di questo problema risiedono molto spesso nell’infanzia». L’«indifferenza,» conseguente a «un modo di relazionarsi freddo e distaccato da parte di chi si è preso cura di voi» nell’infanzia, «viene a poco a poco incorporata dal vostro cervello sotto forma di schemi elettrici e di livelli chimici». Questo tipo di spiegazione scientifica può liberare la persona sofferente dal senso di colpa e attenuare il grado di auto-censura e di auto-disapprovazione. L’altro suo effetto, in ogni caso, è l’assoluzione di un modo di vivere che ha reso la «depressione dipendente» una afflizione tanto comune.

Solidarietà impossibile

«Quattro appuntamenti in fila per le prossime settimane», sei minuti di «aspirazione dell’energia vitale all’interno del tuo basso ventre». Dimmi quali sono i tuoi sogni e io ti dirò che cosa ti manca maggiormente e quali sono le tue paure. Quello di cui sembriamo avere tutti timore, sofferenti di «depressione dipendente» o meno, spaventati in piena luce del giorno o tormentati da allucinazioni notturne – è l’abbandono, l’esclusione, l’essere respinti, bocciati, rinnegati, scaricati, spogliati di ciò che siamo, incapaci di essere ciò che vorremmo. Abbiamo paura di essere lasciati da soli, senza aiuto e senza destino. Paura che compagnie, cuori innamorati e mani caritatevoli siano inaccessibili. Abbiamo paura di essere scaricati – il nostro turno di essere trasformati in rifiuti. Ciò che ci manca più di tutto è la certezza che tutto questo non accadrà – non a noi. Ci manca l’immunità. Sogniamo l’immunità contro gli effluvi tossici del deposito degli scarichi.
Il terrore dell’esclusione ci deriva da due fonti, sebbene raramente abbiamo chiara la loro natura e sebbene non siamo in grado di distinguerle una dall’altra.
Ci sono movimenti, spostamenti e flussi apparentemente disordinati, casuali e totalmente imprevedibili di ciò che, per mancanza di un nome più preciso, chiamiamo «forze della globalizzazione». Esse rendono irriconoscibile, e senza preavviso, la terra a noi familiare e i paesaggi cittadini dove eravamo soliti lanciare le àncore della nostra sicurezza
affidabile e duratura. Queste forze confondono la gente e mandano a monte la loro identità sociale. Ci possono trasformare, da un giorno all’altro, in rifugiati o in «emigranti economici». Possono ritirare le nostre carte di identità o invalidare le nostre identità certificate. E ci ricordano quotidianamente che lo possono fare impunemente – quando ci scaricano sotto casa quella gente che è stata già espulsa, costretta a fuggire per vivere o a scappare via da casa per trovare mezzi di sussistenza, derubati della loro identità e della loro autostima. Odiamo queste persone perché avvertiamo che quello che stanno vivendo, proprio davanti ai nostri occhi, potrebbe essere un’anticipazione della nostra stessa sorte. Nel tentare con forza di rimuoverli dalla nostra vista – raccogliendoli, chiudendoli nei campi, deportandoli – speriamo di esorcizzare quello spettro. Ma la situazione è questa, per quanto tentiamo di scacciare questa sorta di orrore.
Possiamo bruciare le «forze della globalizzazione» solo simbolicamente, in effigie; sembra che non abbiamo altra strada per fare evaporare l’ansia repressa che accendere roghi. Tuttavia l’ansia non andrà completamente in fumo – ce n’è troppa e le scorte vengono costantemente rinnovate. Il residuo non bruciato si sposta rapidamente su di un altro
livello – quello delle politiche della vita – dove si mescola con paure simili che provengono dai legami umani sempre più deteriorabili e dalle solidarietà di gruppo in via di estinzione. Noi ora non parliamo di niente altro con più solennità o con più piacere che delle «reti di connessioni» o delle «relazioni », solo perché la «realtà» – le reti strette, le connessioni salde e sicure, le relazioni pienamente curate – sono tutte andate in pezzi. Come Richard Sennett ha recentemente messo in luce, a Silicon Valley, serra delle tecnologie d’avanguardia e avamposto dell’attuale versione del magnifico mondo nuovo, la lunghezza media di un impiego in qualsiasi lavoro è di circa otto mesi: e questa è una vita beata, la più invidiata e più ardentemente emulata del pianeta.
Pensare a lungo termine in queste condizioni è ovviamente fuori discussione. E laddove non c’è pensiero a lungo termine né aspettative del tipo «ci incontreremo di nuovo», c’è a malapena un senso di destino condiviso, un sentimento di fratellanza, un impulso a serrare le fila, stare spalla a spalla o procedere allo stesso passo. La solidarietà ha poche opportunità di germogliare e mettere radici. Le relazioni si caratterizzano soprattutto per la loro fragilità e superficialità.

Consumismo emotivo

Parliamo compulsivamente di reti e cerchiamo ossessivamente di evocarle (o almeno i loro fantasmi) attraverso i magici incantesimi «dell’appuntamento rapido» tipico delle «messaggerie telefoniche,» perché avvertiamo con sofferenza la mancanza delle reti di sicurezza dei legami che i veri rapporti di parentela, di amicizia e di fratellanza erano soliti garantire, con o senza il nostro sforzo. Gli elenchi telefonici dei cellulari prendono il posto delle comunità perdute e si spera che sostituiscano l’intimità perduta; sulle loro spalle un carico di attese che non hanno la forza di sorreggere. Come sottolinea Charles Handy (The Elephant and the Flea, Hutchinson 2001 «per quanto divertenti possano essere queste comunità virtuali, esse creano tuttavia solo un’illusione di intimità e una simulazione di comunità». Sono sostituti inadeguati del «mettere le ginocchia sotto il tavolo, guardare la gente in faccia e avere conversazioni reali». In un raffinato e perspicace studio delle conseguenze culturali dell’ «età dell’incertezza», Andy Hargreaves (Teaching in the Knowledge Society: Education in the Ahe of Insecurity, Open UP 2003, p. 25) scrive di «fili episodici di interazioni minime» che stanno progressivamente sostituendo «intense conversazioni e relazioni familiari». Cita in proposito Clifford Stoll (Silicon Snakeoil, Doubleday 1995, p. 58), secondo il quale, esposti come siamo ai «contatti facilitati» dalla tecnologia elettronica, perdiamo la capacità di entrare spontaneamente in interazione con le persone.
Di fatto, diventiamo sempre più timidi nei contatti faccia a faccia. Tendiamo ad allungare la mano sui nostri cellulari, premere furiosamente pulsanti per digitare messaggi, evitare di «darci in ostaggio al fato» e sfuggire alle interazioni complesse, confuse, imprevedibili, impegnative con quelle «persone reali» che ci stanno fisicamente intorno.
Quanto più estese (anche se superficiali) sono le nostre comunità fantasma dell’appuntamento-rapido e dei messaggi cellulari, tanto più scoraggiante appare il compito di cucire e tenere insieme le comunità reali.
Come sempre, i mercati dei consumi sono ansiosi di toglierci dall’impiccio. Bisogna ammettere che i sostituti offerti dal consumo sono in vantaggio rispetto alla realtà. Promettono libertà dalla difficile fatica di negoziazioni senza fine e da non facili compromessi; consentono di sottrarsi all’auto-sacrificio, alle concessioni e alle mediazioni che tutti i legami intimi e di amore prima o poi richiedono. Offrono di recuperare i danni nel caso questi sforzi siano considerati troppo pesanti da sopportare, e i loro venditori garantiscono anche un ricambio facile e frequente nel caso non li si usi più, oppure se altri beni, nuovi, perfezionati e anche più seducenti appaiono d’improvviso. In breve, gli oggetti di consumo incarnano il carattere non definitivo e l’estrema revocabilità delle scelte, insieme alla fondamentale disponibilità degli oggetti prescelti. Più importante ancora, essi sembrano garantirci il controllo.
Siamo noi, i consumatori, che disegnano il confine tra ciò che è utile e ciò che è inutile. Avendo gli oggetti di consumo come partner, possiamo smettere di preoccuparci di andare a finire nel deposito dei rifiuti.
Involontariamente, gli oggetti di largo consumo incarnano l’estremo paradosso della cultura degli scarti.
Primo, è l’orribile spettro dell’usa-e-getta – della ridondanza, dell’abbandono, del rifiuto, dell’esclusione, dello spreco – che ci spinge a ricercare sicurezza nell’abbraccio umano. Secondo, è per questo bisogno di sicurezza che siamo dirottati verso i centri commerciali. Terzo, è la presenza di beni di consumo usa-e-getta, magicamente riciclata da malattia terminale a forma di terapia, quella che troviamo in quei luoghi, sollecitati a portarla a casa per conservarla nella cassetta del pronto soccorso.
Confortati dalla nostra nuova erudizione, ci sediamo a guardare – assorbiti, incantati, ammaliati e rapiti – la puntata successiva del Grande Fratello, di The Weakest Link, di Survivor o dell’ultimissima edizione della «Real TV». Tutte ci raccontano la stessa storia, cioè che nessuno, eccetto pochi vincitori solitari, è veramente indispensabile, che un essere umano è utile ad altri esseri umani fino a quando lui/lei può essere sfruttato/a a loro vantaggio, che il deposito dei rifiuti, la destinazione finale dell’escluso, è la naturale prospettiva di coloro che non sono più adatti o che non vogliono più essere sfruttati in questo modo; che sopravvivenza è il nome del gioco della solidarietà umana e che la posta finale è sopravvivere a tutti gli altri.

Traduzione di Cristiana La Capria 

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