Teheran: il malcontento si rifugia nell’arte e nella fede (in privato)

Le recenti pozioni di Washington in materia di accordi sul nucleare e nuove sanzioni contro la Repubblica Islamica d’Iran hanno risvegliato i mai assopiti (ri)sentimenti degli iraniani nei confronti dell’Occidente, o, almeno verso una parte di esso, reo di non rispettare gli accordi già stipulati. Vi è una lunga storia di questo tipo di tradimenti perpetuati da alcune potenze occidentali, una storia rafforzatasi fra il 1800 e il 1900, a seguito di alcuni eventi fondamentali: la sempre più pressante ingerenza della Gran Bretagna (sfociata nell’occupazione alleata del sud del Paese durante la seconda guerra mondiale); l’intromissione degli Stati Uniti, colpevoli di aver causato, grazie alla CIA e ai servizi segreti britannici, il colpo di stato che nel 1953 riportò in patria lo shah Pahlavi rovesciando un governo democraticamente eletto; nonché il comportamento di molti stati europei, i quali, durante il conflitto provocato da Saddam Hussein, hanno aiutato compattamente il dittatore iracheno a discapito dell’Iran che aveva subito l’aggressione.

Pur essendo consapevoli di questo passato, gli iraniani, abituati da millenni ad adattarsi a travagliate circostanze storiche e politiche, si sono dimostrati pronti a riprendere i contatti con i “traditori”, soprattutto dopo che il governo del Presidente Khatami (1997-2005) aveva cospicuamente incrementato i contatti politici ed economici internazionali, cercando di far uscire il Paese dall’isolamento verificatosi dopo la Rivoluzione del 1979, proponendo, tra l’altro, un “dialogo tra civiltà” per contrastare l’incombente successo della teoria dello “scontro tra civiltà”. Mentre il processo innescato da Khatami ha reso la leadership più consapevole del bisogno di una politica – soprattutto economica – globale, un rapido processo di maturazione ha plasmato una società civile consapevole e cosmopolita, in grado di elaborare processi di modernizzazione in modo autoctono e responsabile.

Certamente questa società civile non è unita, tutt’altro; al di là della classica e ormai stantia divisione che i media internazionali hanno forgiato tra la classe dirigente islamista e la popolazione laica e dissenziente, la situazione è assai più complessa e articolata, come si verifica nella maggioranza dei paesi del mondo. In Iran ci sono identità etnico-religiose-linguistiche differenti, divergenti stili di vita tra aree geografiche assai diverse tra loro, e classi sociali sempre più divise dalla situazione economica non felice peggiorata pure delle sanzioni. Ricordiamo che i primi Sanction Bill statunitensi contro l’Iran risalgono al 1984, e che, progressivamente implementati e allargati con la partecipazione della comunità europea, di fatto non hanno colpito la classe dirigente – parte della quale prospera anche grazie alle sanzioni, controllando di fatto l’export-import delle merci “proibite” – ma  bensì il ceto medio. Di fatto quest’ultimo si è trovato travolto da prodotti di bassissima qualità importati dalla Cina, spesso incapace di acquistare beni di prima necessità quali farmaci salva-vita interdetti dal bando internazionale, ed è stato travolto dall’inflazione. Sicuramente le cattive politiche della dirigenza locali hanno fatto la loro parte in tutto ciò, però, ricordiamo che il maggiore risultato positivo della Rivoluzione, ovvero la spinta verso l’istruzione, ha creato una popolazione formata e informata che è divenuta il primo motore verso la modernizzazione, accentuando il dissenso generale verso un sistema di gestione ostinatamente retrogrado.

La resistenza dei gruppi di potere alle istanze della società civile ha favorito la nascita di subculture resistenti, alcune delle quali coincidono: ad esempio, la cultura del femminismo, radicata in Iran fin dagli inizi del 1900, vede ora protagoniste molte ragazze che non erano neppure nate allo scoppio della Rivoluzione. E se l’Iran è trasformato da una massiccia urbanizzazione (sette iraniani su dieci vivono in città) non si deve pensare che della nuova cultura cosmopolita e moderna beneficino solo i cittadini, in quanto le trasformazioni generazionali hanno inciso profondamente anche sulla vita dei villaggi e i giovani residenti hanno ora uno stile di vita che s’avvicina molto di più a quello dei coetanei cittadini che non a quella vissuta un tempo dai loro genitori.

Ora, questa resistenza si esplica in vari modi: uno dei settori in cui si fa maggiormente si fa sentire è proprio la sfera religiosa: moltissimi iraniani considerano la fede un fatto personale, privato, in cui lo Stato non deve interferire. Così, mentre le autorità si affannano per tenere vive cerimonie proprie della fede musulmano-sciita, ma che son divenute soprattutto cardini della Rivoluzione e della mobilitazione prima contro il regime dello shah e poi contro l’invasore iracheno, parte della popolazione si raduna attorno alla tomba di Ciro il Grande, nei dintorni di Shiraz, nell’anniversario della sua morte, il 29 ottobre, per affermare il proprio legame con il passato pre-islamico. La manifestazione si è così allargata negli ultimi anni che le autorità se ne sono preoccupate, intervenendo per fermare questa che, di fatto, è una manifestazione anti regime. Ma i “supporter di Ciro” continuano, preferendo la celebrazione di feste legate al calendario pre islamico piuttosto che a quello musulmano, e riscoprendo rituali zoroastriani seppelliti sotto la polvere dei millenni.

Mentre nuove forme di religiosità conquistano sempre più larghe fette della popolazione, vi è chi si rifugia nell’Arte: si registra un notevole incremento di iscrizioni ai corsi di arti figurative, ormai da tempo organizzati anche da privati, mentre la calligrafia, per quanto legata a doppio filo con la cultura musulmana, sta vivendo una stagione felice, con decine di migliaia di calligrafi professionisti che si dedicano a questa disciplina antica.

L’immaginazione occidentale è stata spesso catturata da un altro tipo di contestazione, quella dei ricchi figli di papà che scorrazzano per le città su auto di grossa cilindrata, affollano i campi da sci sulle pendici del monte Demavand, surfano sulle dune sabbiose dei deserti e organizzano feste a base di sesso-droga-rock&roll. Tutto vero, su un totale di 80 milioni di abitanti le possibilità di contestazioni attraverso sub-culture, positive o negative che esse siano, sono molteplici e varie.

Nella società iraniana il malcontento è diffuso e palpabile: impenitenti scettico-ottimisti, gli iraniani avevano dato credito al Presidente Rouhani, sperando che li traghettasse fuori dal pantano; all’inizio Rouhani aveva risposto positivamente, favorendo l’ingresso dell’Iran nella comunità internazionale, ma le promesse di riforme si sono arenate. E ora, con la messa in discussione degli accordi sul nucleare, i critici nei suoi confronti sono aumentati.

Che accadrà? Nonostante la situazione critica, gli iraniani sono restii a cambiamenti che comportino eventi traumatici come quelli accaduti all’instaurarsi della Rivoluzione, o, più recentemente, sperimentati dopo le elezioni presidenziali del 2009. Nei mesi scorsi Shirin Ebadi, ormai esule da tempo in Europa, ha lanciato un appello ai suoi compatrioti, per esortare i leader riformisti a farsi avanti con la richiesta di un referendum, al contempo sollecitando le potenze occidentali – US in primis – a favorire il processo di democratizzazione del suo Paese. L’appello ha provocato più dissenso che assenso tra gli iraniani: il timore diffuso è che appelli di questo genere si trasformino in inviti a colpire militarmente l’Iran e la Ebadi ha dovuto precisare che la sua proposta non è un appello a interferire ma una richiesta agli stati esteri di riconoscere e aiutare la resistenza iraniana tanto in patria quanto all’estero.

Cospicui settori della società iraniana aspirano a un sistema che sia democratico e rispettoso dei diritti di tutti, ma nessuno vuole un cambio violento del regime. Per quanto precaria e viziata dall’ineguaglianza, anche economica, nell’Iran di oggi si respira una ibrida libertà, e gli iraniani vogliono migliorarla, senza dare pretesti ai falchi di tornare indietro di 40 anni.

Credit: ATTA KENARE / AFP

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