Da Croce a Napolitano, storia della “ricostruzione nazionale”

«Poco più di un mito che tramonta e una speranza che sorge», così l’aveva descritta Giovanni Amendola già agli albori del novecento e a centocinquant’anni dall’unità la ‘nazione’ è tornata beffardamente a dividere gli italiani. Lo storico Alberto Mario Banti da ultimo ha insistito con riprovazione sull’origine ‘biologica’ dell’idea di ‘nazione’ che avrebbe accomunato Manzoni e Mazzini e si è spinto a criticare la nation rebuilding portata avanti negli ultimi settennati al Quirinale per non aver fatto i conti con questa premessa ‘razzistica’. Il lavoro di Banti (Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, 2011) è stato ampiamente discusso e criticato, mentre il progetto politico avviato da Ciampi e proseguito da Napolitano s’è rivelato ineludibile per fronteggiare le macerie e le divisioni lasciate dai governi della destra populista e secessionista. In questi termini accanto a una logora e ideologica questione settentrionale è stato possibile porre un argine alla altrettanto ideologica rimozione dei cronici problemi del ‘mezzogiorno’ che possono essere inquadrati, senza retorica, solo in un orizzonte di ‘ricostruzione nazionale’ ancorato alla sfera politica europea. Vorrei tracciare rapidamente una genealogia ‘laica’ dell’idea ‘progressiva’ e ‘umanistica’ di ‘nazione’ che sta a fondamento dell’età repubblicana e che si trascina attraverso una lunga crisi.

Più che da Croce questa breve riflessione può prendere le mosse da Federico Chabod, stretto collaboratore del primo e, con Passerin d’Entrèves, acceso sostenitore dell’indipendentismo valdostano: «Forse il ricordo più alto della mia vita universitaria – scriveva sul finire degli anni cinquanta – è quello del corso che tenni a Milano, durante l’occupazione tedesca, nell’inverno ‘43-’44: corso sull’idea di nazione e su quella di Europa, dove contrapponevo nettamente l’idea germanica della nazione-razza, che combattevo, e l’idea della nazione plebiscito di tutti i giorni, per dirla con Renan […]. Come allora, come prima del ’42, così ora, ti assicuro che io non rinnego né pur un’oncia dell’eredità romantica della nazione: intendo l’eredità che fu non solo di Mazzini, ma dei moderati italiani e di Cavour». Parole rivolte a Arnaldo Momigliano nel 1959 in una polemica epistolare sul necrologio di Carlo Antoni. In quel testo Momigliano aveva parlato del «disagio degli intellettuali antifascisti» – come Croce, Antoni e Chabod – per «essersi formati in una cultura romantica» che aveva aperto «le porte ai superuomini e alle superrazze». Ai suoi occhi l’idea ‘romantica’ di ‘nazione’ era il principale imputato per le violenze dei ‘regimi’ e della guerra.

Quel che Momigliano non accettava e respingeva era proprio la distinzione tra una negativa e una positiva idea di ‘nazione’. La distinzione tra ‘nazione’ e ‘nazionalismo’ s’ispirava non solo a Renan ma rinviava a un’idea ‘fortezza’ di Benedetto Croce. Il filosofo napoletano aveva posto le fondamenta della sua Storia d’Europa (1932) sulla scissione tra un romanticismo ‘sano’ e un romanticismo ‘malato’ e analizzando l’«unificazione germanica» – condotta a suo giudizio sotto il segno della pura ‘potenza’ militare e della realpolitik – aveva opposto Cavour a Bismarck, un’ideale d’indipendenza e liberazione dallo «straniero» a una volontà imperiale e accentratrice indomabile. Se il «patriottismo» è «una dottrina in certo modo kantiana» perché con esso si può «agire in modo che l’azione» serva da «norma universale» – avrebbe scritto Prezzolini alla vigilia della Grande Guerra – il «nazionalismo» è «una dottrina positivistica e nietzschiana» di «egoismo» e «particolarismo» che serve «ad un solo paese» (Il liberismo come azione morale, 1913).

Nella mente di Chabod oltre che l’idea liberale di ‘nazione’ fondata sul volontarismo e sui legami sociali e alternativa al nazionalismo ‘biologico’ che Croce negli anni di Salò e della ‘guerra civile’ avrebbe definito «infiltrazione straniera del tutto estranea al Risorgimento» (Una parola desueta: l’amor di patria, 1944), si agitava l’urgenza di una rottura con l’eredità di un altro suo importante maestro: Friedrich Meinecke, che nel 1907 in Weltbürgertum und Nationalstaat (Cosmopolitismo e Stato nazionale) aveva sostenuto il diritto dell’individualità rappresentata dalla ‘nazione’ a sostituirsi pienamente all’universalità del cosmopolitismo dell’età dei lumi. Un diritto pericoloso, che Carlo Antoni aveva a suo modo intuito e posto all’origine della crisi dello «storicismo» e della tradizione liberale tedesca.

Non di meno va detto che in questo modo maturava in ambito liberale un tentativo di rimozione dell’imperialismo ‘crispino’ che sin dalla guerra italo-turca del 1911 aveva invece tinto di venature razzistiche il concetto di «patria», una rimozione che esponeva ad accuse d’ipocrisia o eccessivo ottimismo. Un crinale stretto e scivoloso in cui si rischiava di confondere passione politica e mestiere storico. Erano altre indubbiamente le radici di Momigliano che certamente guardava con più favore alla vituperata Raison illuministica, e non era il solo, (si pensi a Franco Venturi) e che comprensibilmente per spiegare le tragedie di sangue della guerra e del razzismo aveva messo sul banco degli imputati il primato della ‘nazione’. Eppure rileggendo le pagine del terzo capitolo della Storia d’Europa di Croce rivolte alla Francia più che alla Germania, consacrate al mal du siécle e limpidamente ispirate a romanzi come René, La Confession d’un enfant du siècle o a poemi come Manfred di Lord Byron risulta impossibile equivocare la critica dell’illuminismo con un elogio dell’irrazionale o della razza. Anzi, come vedremo, il filosofo napoletano serberà verso l’età dei lumi un atteggiamento duplice.

A due anni dall’ascesa di Hitler al potere, senza tema di apologia, il filosofo napoletano aveva in quelle pagine distinto nettamente la «religione della libertà» cresciuta nell’età della ‘restaurazione’, dal frutto malato della «seconda generazione» romantica, una «religione della stirpe» che programmava di voler «rigenerare il mondo in tedescheria». Una distinzione sottile e ardua ma che avrebbe contribuito a far risorgere il paese dalla guerra senza rottamare l’ideale progressivo della «patria» cui certamente non appartenevano le forzature del Fascismo e dell’attualismo gentiliano. Il motivo nazional-patriottico correlato al tema della libertà dal piede ‘straniero’ avrebbe nei fatti saldato la Resistenza a un secondo Risorgimento. Per questo motivo la ‘ricostruzione nazionale’ seppe imporsi trasversalmente subordinando l’internazionalismo dei comunisti, l’europeismo dei federalisti e l’universalismo dei cattolici.

La reazione storiografica ‘azionista’ di Momigliano e Venturi contro la critica demolitrice dell’illuminismo astratto e contro la ‘nazione’ ‘romanticamente’ intesa, di cui s’è detto, si poneva invece in continuità coll’antinazionalismo di matrice federalista che era emerso in origine negli scritti teorici di Silvio Trentin composti in esilio a Tolosa a partire dal ‘35.

Croce affrontando in vari testi il problema del «Risorgimento» e dell’«amor di patria» (ad es. il saggio sui fratelli Poerio del 1918 o il quinto capitolo della Storia della storiografia italiana composta tra il 1914 e il 1915 e l’ultimo della Storia del Regno di Napoli del 1925) pur dichiarando senza pruderie la sua ‘fede risorgimentale’ non nascose mai l’elemento sentimentale o etico che sostanzia e ‘macchia’ il concetto di ‘nazione’ privandolo di autonomia filosofica. Tenendo sempre fermo il confine tra critica e epos egli ha però insistito sul nesso ineludibile che corre tra la modernizzazione italiana, modernizzazione di idee filosofiche, storiografiche e letterarie, e la maturazione di una coscienza nazionale. Una compiuta «Storia d’Italia» – amava ripetere – sarebbe stata possibile solo con l’unificazione nazionale. Per questo motivo, la «sua» iniziava con il 1861.

Il legame tra storiografia e ‘nazione’ del resto è destinato a riattivarsi costantemente ogni volta che il secondo dei termini corre il rischio di disgregarsi o deteriorarsi. Nel biennio ’43-’45 sarà un motivo presentissimo non solo in Croce, ma negli scritti pubblicati da Chabod, Antoni e Omodeo. Se Chabod ripercorre proprio in quegli anni nelle aule universitarie di Milano le tappe evolutive dell’idea di nazione, Carlo Antoni in Della storia d’Italia (composto nell’estate del 1943 e recentemente riproposto dal talentuoso editore Tommaso Codignola per cura di G. Galasso) riflette sulle pulsioni distruttive che si scontrano ciclicamente nel fondo della nostra storia, e Adolfo Omodeo risale all’età della ‘restaurazione’ in Francia per collocare nella giusta luce le idee religiose e politiche che strutturano il ‘patriottismo’ del risorgimento italiano.

Prima di chiudere questa rassegna un po’ desultoria e frettolosa è doveroso svolgere almeno un’ultima notazione sul vincolo europeo che secondo Croce congiungerebbe ab origine la ‘nazione’ e la storia italiana unitaria. Senza una vocazione europea il patriottismo decade infatti in provincialismo o peggio ancora in sterile e vacuo ‘primato giobertiano’. Fenomeni che Croce ebbe innanzi negli anni del Fascismo e della Guerra e che tristemente sono riemersi con il declino della politica estera e con l’instabilità sociale e politica che percorre il continente.

Croce può considerarsi complessivamente estraneo alla linea ‘Spaventa-Gentile’, quella di un primato filosofico italiano o di un ‘circolo’ chiuso che vorrebbe l’Italia collocata come principio e termine spirituale dell’età moderna. Una linea che potrebbe insidiare persino i più recenti esercizi di ricerca del primato d’una cosiddetta Italian Theory o Italian Difference. Croce, si accetti la semplificazione un po’ brusca, si pone a distanza siderale da prospettive del genere. La cifra di questa distanza è tutta nell’elogio del ‘Rinascimento’, pubblicato in uno scritto del 1939 sotto il cielo di un’Europa sconvolta dalla violenza: La crisi italiana del Cinquecento e il legame del Rinascimento col Risorgimento.

Non paia contradditorio ma al moralismo ‘savonaroliano’ di Gentile, che imputava all’Umanesimo e al Rinascimento fiacchezza morale, assenza di impegno civile e inclinazione estetizzante – in una parola: «decadenza» – saldando in fatale continuità Risorgimento e Fascismo, Croce oppone una genealogia idealistica del ‘moderno’ la cui maturità trova espressione proprio nell’Europa dei lumi e la cui geografia prevalente è descritta quasi esclusivamente fuori d’Italia, lungo strade battute da esuli come Galeazzo Caracciolo e Pietro Giannone. Il razionalismo cartesiano, la volterriana tolleranza saranno per Croce i frutti maturi da cui riprenderà germoglio il razionalismo rinascimentale e la libertà ‘critica’ degli ‘eretici’ attuandosi nel Risorgimento, ricondotto più che a una sterile – per così dire – partenogenesi nazionalistica al laico e liberale carattere della sua feconda dimensione europea.

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