Le mie critiche a Bergoglio
e ai guasti del peronismo

Dossier
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Riccardo Cristiano ha pubblicato su Reset del 21 giugno un lungo e denso articolo sul pontificato di José Mario Bergoglio. Benché le sue tesi siano agli antipodi di quelle che io ho espresse e lui ha più volte citato su il Mulino del febbraio scorso, ci tengo a ringraziarlo: per il garbo e il rispetto verso le mie opinioni, ben diversi dall’acido livore di certi critici. Solo una cosa mi ha stupito: il titolo del suo pezzo, di cui suppongo Cristiano non sia responsabile: Bergoglio peronista. Per il Mulino è un peccato l’empatia umana. E’ infelice per varie ragioni: le riflessioni affidate al Mulino le avevo già svolte su Reset quando Francesco si era recato in visita a Cuba (Reset, 29 settembre 2015). E poi non è questione di Mulino o Reset: sono idee mie e basta, frutto di oltre vent’anni di ricerche. L’idea del “peccato”, poi, non mi sfiora nemmeno, non appartiene al mio mondo ideale; quella di empatia invece non l’ho proprio capita: sarà che come la Grazia, ce l’hai o non ce l’hai e a me manca.

Va da sé che non condivida l’analisi di Cristiano sul pontificato, benché la rispetti. Avrei molte cose da dire in proposito, ma non è sul Papa che voglio intervenire: un po’ perché sono stanco di ricevere sberle o leggere interpretazioni banalizzate delle mie idee; ma soprattutto perché ci sono passaggi del suo articolo che mi hanno colpito e, lo ammetto, lasciato perplesso. Sono quelli che riguardano la situazione dell’America Latina e le dottrine economiche dei suoi governi. In particolare quella del governo argentino guidato da Mauricio Macri, che può piacere o non piacere, non è affare mio, ma non merita il danno e la beffa, ossia di ricevere imputazioni inique.

Comincerei da quest’ultimo aspetto, che ne solleva altri che tratterò in seguito. Il governo di Macri descritto da Cristiano non sarebbe inviso al Papa perché liberale, ma perché liberista. Sarebbe cioè la versione argentina della vorace tecnocrazia globale che scarta gli uomini perché adora il Vitello d’oro. Non ha svalutato la moneta? Non ha pagato i debiti ai fondi avvoltoio? Mon Dieu. Io non ho nulla contro il liberismo, se bene applicato e calmierato da politiche pubbliche efficienti: dove lo è stato, ci tornerò, ha fatto contro la povertà più di tutte le encicliche di tanti Pontefici. Potrei citare a mio sostegno qualche Nobel dell’economia, ma non è il caso: sono idee mie. Ma con tutto ciò Macri e il suo governo hanno poco a che fare. Perché ha svalutato? Perché ha licenziato? Perché ha alzato i prezzi dei servizi pubblici? Perché ha pagato i debiti? Per caso è crudele? E come si spiega che la maggioranza degli argentini l’abbia votato? Il lettore italiano non è in genere molto informato sulla devastazione morale e istituzionale lasciata in dote dalla dinastia kirchnerista; ma almeno di quella economica è bene dire qualcosa, perché è un miracolo se l’Argentina non è caduta oggi nel baratro dove cadde nel 2001.

Iniziamo dalla svalutazione: che il vincitore alle elezioni del novembre scorso avrebbe dovuto svalutare lo sapevano anche i muri a Buenos Aires; a prescindere da chi le avrebbe vinte. Per una semplice ragione: il valore ufficiale del peso era del tutto irreale e la perdita di mercati a causa della sopravvalutazione ne era la prova. Se poi non bastasse, si chieda a chiunque sia stato di casa in Argentina in questi anni: nessuno ha cambiato euro nelle case di cambio ma in sordidi retrobotteghe dove si otteneva un 40% di pesos in più. Svalutando, il governo ha preso atto della realtà e creato le condizioni per riconquistare mercati, esportare, creare lavoro. I liberisti, quelli veri, sostenevano che per risanare i conti ricevuti in eredità occorreva una svalutazione più drastica e sul piano tecnico avevano ragione; prudente, però, il governo ha scelto una via graduale.

Giunto alla Casa Rosada Macri ha firmato migliaia di licenziamenti di dipendenti pubblici. Cinismo liberista? Masochismo? Chi ama licenziare? I governi preferiscono semmai assumere, cosa in cui i Kirchner erano stati campioni: avevano accresciuto l’impiego pubblico del 60%. Prossima a lasciare il potere Cristina Kirchner si era superata, infornando migliaia di suoi militanti nei ministeri. Non che lavorassero: in Argentina li chiamano ñoquis, prendono lo stipendio ma non fanno nulla. Ma erano una bomba sotto il letto del nuovo governo: per fare saltare i conti pubblici e seminar zizzania nell’amministrazione pubblica. Licenziarli era doveroso, ma politicamente costoso. E così è stato.

E i prezzi? Non è vero che col nuovo governo gas, luce, acqua, benzina sono saliti alle stelle? Che gli aumenti sono talvolta stati del 300% o più? Vero, anche se non tutti i ceti sono stati ugualmente colpiti da tali misure e le esenzioni per i più deboli sono rimaste. Come è venuta in mente a Macri simile pazzia? Il fatto è che da tempo i prezzi dei beni pubblici non avevano alcun rapporto coi costi effettivi. Stanchi di perderci vendendo sottocosto, gli investitori se ne andavano. A coprire lo scarto pensava lo Stato, cioè il contribuente, a suon di sovvenzioni: non aveva le casse piene per i proventi accumulati esportando soia? Un esempio aiuta a capire: un giorno, sorpreso di vedere Buenos Aires colma di bus vuoti in perenne movimento, ho chiesto lumi. Ho scoperto che la benzina costava poco perché sovvenzionata, che le compagnie ricevevano sovvenzioni in base ai chilometri percorsi e che il biglietto costava poco o nulla perché sovvenzionato. Tutti erano felici. A rimetterci erano l’aria già irrespirabile della metropoli e i conti pubblici, la cui voragine s’apriva a dismisura traducendosi in ciò che era ovvio aspettarsi: inflazione. Per occultarne l’indice reale il governo della Kirchner lo truccò e si intestardì a non stampare banconote superiori ai 100 pesos, così che per ogni acquisto la gente doveva estrarre fasci imbarazzanti di biglietti senza valore. Conclusione: ridare ai beni i loro effettivi prezzi era doloroso ma onesto e doveroso, per avere un’economia solida e affidabile.

Infine i debiti: in un paese dove gli slogan nazionalisti sono così spesso usati per coprire il dissenso con lo stigma del tradimento, avere avviato a conclusione l’annosa diatriba con gli hedge funds era immaginabile scatenasse tremende accuse. Infatti è risuonato il consueto anatema: vendepatria. Ma c’è davvero chi crede che l’Argentina potesse schivare sine die quella querelle? Si può provare tutto il disprezzo che si vuole per chi ha rastrellato debiti di cui ora chiede il pagamento, ma chi ha come responsabilità quella di fare crescere un’economia su basi solide e sostenibili deve farci i conti. Se poi è l’Argentina, a maggior ragione, visto il bisogno di riconquistare la fiducia perduta col default del 2001. Liberismo? No, è sano realismo in un paese che aspira ad attrarre investimenti e nuove tecnologie, ad accedere al credito finora precluso, a creare un sistema produttivo aperto ed efficiente cooperando con tutti. L’esatto opposto di quanto fatto dai kirchneristi, tanto sbruffoni col Fondo Monetario quando bravi, con la lungimiranza di una talpa, a indebitarsi col Venezuela e a prendere a pesci in faccia chiunque desiderasse investire in Argentina.

Il caso argentino serve a gettare uno sguardo sulla situazione latinoamericana, dove un paio di cose saltano agli occhi. La prima: se nel 2001 il crack argentino fu additato a prova irrefutabile del flop liberista, dovrebbe oggi far gridare al fallimento dello statalismo la tragedia del Venezuela, faro antiliberista da due decenni in qua. Ancor più, a dire il vero, se si pensa ai miliardi incamerati per anni dal chavismo grazie ai prezzi stellari del petrolio: il malgoverno economico in nome del pueblo di quel regime entrerà negli annali della vergogna, ma nessuna voce s’alza a denunciare lo scandalo come si levò invece a suo tempo per l’Argentina. Men che meno quella del Papa, così taciturno in proposito. Temo c’entri l’ideologia. Eppure gli effetti sono gli stessi: miseria, fame, violenza.

La seconda cosa che salta agli occhi è quella che mi pare sfugga a Cristiano e tanti altri: è la realtà. Mi spiego, perché non intendo certo offendere nessuno. Salvo regimi come il venezuelano e taluni altri, intrisi di ideologia fino al midollo, i governi latinoamericani d’oggi sono per fortuna assai più pragmatici di quelli d’un tempo. Per dirla con un fine economista, Javier Santiso, hanno cestinato i rigidi paradigmi del passato, liberismo e statalismo, e realizzato la political economy of the possible, dove elementi dell’uno e dell’altro si mischiano di volta in volta in modo creativo e a seconda delle necessità. Lungi dal voltare le spalle al mercato, al famigerato capitalismo, hanno cercato di trarne il  meglio così da produrre ricchezza e mobilità sociale; cose senza le quali le prediche sulla giustizia sociale sanno di aria fritta. Finché il vento economico è stato a favore, sono cresciuti tutti in fretta; ma guarda caso, ora che il vento soffia contro, i primi a frenare o cadere sono stati quelli che hanno ecceduto in statalismo mentre i più liberisti hanno assorbito l’urto. Suonerà sgradevole ma è vero: il paese che meglio è riuscito a sconfiggere la scimmia della miseria è il Cile; e il Cile ha l’economia più “liberista” di tutte. Non è un modello, ma un indizio sì.

Quando Bergoglio era arcivescovo di Buenos Aires, gli imprenditori cattolici solevano invitarlo alla riunione annuale della loro associazione. Così mi ha raccontato ridendo chi lo frequentava allora. Non erano crudeli manager di multinazionali sfruttatrici, ma imprenditori cattolici che reclamavano la presenza del loro pastore. Ma lui non andava. Diciamo che per la loro attività non provava alcuna empatia. Forse Cristiano ha ragione e io sbaglio. Ho tuttavia buoni motivi per credere che non sia il liberismo l’oggetto dell’ostilità del Papa, ma il capitalismo tout court, inteso come entità metafisica e non come fenomeno storico mutevole. Del tutto legittimo, per carità. Ma a chi come me pensa che per superare i suoi atavici mali sociali l’America Latina necessiti di migliori istituzioni economiche e di un approccio più laico al mercato, l’empatia del Papa appare deleteria. A quando una economic theology of the possible?
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Leggi la replica di Riccardo Cristiano a questo articolo

  1. Complessivamente giusti, approccio e spiegazione… ma forse concedendo al papa -secondo una strana tradizione di “rispetto” per il Vaticano- un ruolo e influenze politiche che non ha.

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