Il prete attivista e il capomafia sacerdote

Le immagini più famose di Don Luigi Ciotti lo ritraggono semplicemente con una polo azzurra che spunta fuori da un pullover blu. Niente abiti talari, niente croci o altri simboli cristiani in bella vista. Al massimo si staglia sullo sfondo il logo colorato di Libera, l’associazione che ha fondato nel 1995 – due anni dopo il lancio del mensile Narcomafie – per combattere la criminalità organizzata. Quella criminalità organizzata che invece volentieri attinge ai simboli religiosi sia per legittimarsi socialmente che per stringere i rapporti interni al clan.

Nell’evoluzione del rapporto tra culti e mafie, inizialmente nato da consenzienti strette di mano, il 1993 ha la funzione storica di un anno zero. Se da una parte le cosche continuano a elevare i capimafia al ruolo di sacerdoti, a “battezzare” gli affiliati e a votarsi al crimine come a una fede – dall’altra parte è proprio con la stagione delle stragi che una parte della Chiesa inizia a predicare l’antimafia, ponendo le basi per un movimento a metà strada tra l’attivismo clericale e la religione civile.

Del culto della mafia e dell’impegno secolare della Chiesa contro il crimine organizzato, si è parlato a “L’immaginario devoto tra organizzazioni mafiose e lotta alla mafia” (Roma, 20 e 21 novembre 2014) – convegno che ha riunito studiosi da Alberto Melloni a Alessandra Ditto e protagonisti come lo stesso Don Luigi Ciotti, e dal quale nasce questo dossier.

 

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