Chiesa e globalizzazione

Dossier
Sommario

Da Mondoperaio

Il punto di partenza e il filo rosso che collega l’impegno e il destino terreno dei vari pontefici lungo i secoli dell’età moderna è stata la esigenza fondamentale di esercitare il ministero petrino (il Petrusamt, cioè il mandato ricevuto da Pietro di custodire mantenere e promuovere l’unità e la comunione di tutte le Chiese nella custodia della verità rivelata) in un mondo che si viene sempre più configurando come quello dei principati e delle monarchie, dei nuovi Stati moderni. Il pericolo massimo che il papato vede di fronte a sé – dopo lo scisma, la fine dell’esperienza conciliarista e della respublica christiana medievale – è quello di un frazionamento delle istituzioni ecclesiastiche all’interno dei nuovi poteri emergenti nelle varie regioni d’Europa: la formazione di Chiese nazionali e territoriali sottoposte ai sovrani. L’esperienza del papato avignonese (di un pontefice ridotto a essere il cappellano dei sovrani) rimane l’ossessione e l’incubo dei papi. É una tensione secolare che caratterizza tutto questo periodo in modo realmente tragico. Non credo si possa comprendere l’ importanza di questa storia senza questa trama di fondo. Ciò che è interessante è cercare di comprendere i singoli momenti, i singoli atti di questo dramma nei successivi contesti temporali.

In un primo tempo al centro della politica papale è lo sforzo di costruire uno Stato proprio, di fare delle disperse e sconnesse “terre della Chiesa” un principato rinascimentale coerente sulla base di strutture famigliari (il grande nepotismo), in rapporto con il sistema italiano delle signorie e dei principati: incorrendo quindi nella tentazione (pericolo continuo) di trasformare il papato stesso in una dinastia. Pensiamo non soltanto ai pontefici di casa Medici (Leone X e Clemente VII), ma a tutta la rete di parentele che lega papi, cardinali e prìncipi dalla metà del Quattrocento alla metà del Cinquecento [1]. Uno Stato quindi che in quanto tale possa costituire la base di un nuovo potere universale indipendente, in concorrenza con le potenze emergenti. Una volta sconfitto questo modello (il sacco di Roma del 1527 può essere visto come il segno del tramonto), si presenta la sfida della Riforma e dello scisma anglicano: nascono contro l’universalismo di Roma nuovi modelli di Chiese territoriali tra loro molto diversi, ma aventi la comune caratteristica di coincidere con il potere politico degli Stati moderni emergenti. La tesi che ho avanzato molti anni or sono – e che mi sembra essere ancora valida – è che il papato abbia fornito con questo percorso un “prototipo” per le moderne monarchie assolute, con un esempio dell’unione tra potere spirituale e temporale e con la trasformazione della politica stessa da mero atto d’imperio a un nuovo potere che tende a formare e disciplinare l’uomo dalla nascita alla morte [2].

Il prezzo pagato dal papato in questa fase storica non è stato quindi soltanto quello, ben noto e studiato dalla storiografia tradizionale, degli abusi e della corruzione. ma qualcosa di molto più profondo: cioè la fuoriuscita da ogni ipotesi dualistica, con la fondazione di un Tempelstaat che nella sua espressione più coerente e centrale (quella del pontificato di Alessandro VI, il famigerato papa Borgia) ha assunto forme più vicine ad una rinascita del potere e della cultura dell’antico Egitto dei faraoni che non alla proposta teocratica di Bonifacio VIII o alle teorie conciliariste della christianitas nell’autunno del medioevo [3].

L’azione del papato per la riforma della Chiesa parte quindi in ritardo, e il concilio di Trento può essere convocato e faticosamente concluso con successo nella misura in cui è chiaro l’abbandono da parte dei papi di ogni tentativo di egemonia e di antagonismo sul piano temporale. Il compito principale della riforma cattolica (o della controriforma: non mi sembra più il caso di disputare in proposito se si accetta di guardare al fenomeno nelle sue molteplici componenti) mi sembra quindi essere stato, al di là della lotta contro gli abusi e la corruzione interna, quello di garantire alla Chiesa una nuova autorità universale non basata su una concorrenza con gli Stati sul piano politico. Una “confessione” intesa come professione di fede giurata, non soltanto una Chiesa nel senso tradizionale del medioevo: una confessione che non si rinchiude in un ambito territoriale ma che trova nel papato il suo perno per una nuova giurisdizione sulle anime. Per questo il faticoso successo del concilio di Trento, con i suoi decreti dogmatici e i suoi decreti di riforma; per questo la promulgazione della professio fidei tridentina, con il monopolio romano nell’ attuazione e nella gestione della disciplina del popolo cattolico [4].

Il punto di partenza ideologico può essere visto nel famoso Libellus ad Leonem X dei camaldolesi Paolo Giustiniani e Vincenzo Quirini, del 1512. Nella nuova età che si apre e nella quale per le nuove scoperte l’Italia appare angustissima e l’Europa stessa non satis lata, al papa è affidato il governo di tutta l’umanità nella diversità dei regimi, delle razze, delle consuetudini e delle stesse religioni: “Totum humanum genus, omnes scilicet gentes, nationes, quae sub coelo sunt, tuae subditas esse potestati”. Ma non in concorrenza con i principati terreni: “Veram autem ecclesiam Dei, non terrenae habitationis civitates, aut manufacta aedificia, sed hominum Congregationem esse te latere non debet”. Il triregno rappresenta iconograficamente, come affermano esplicitamente i due autori, non più il triplice potere elaborato dal papato medievale, ma una realtà nuova, espressione visiva di un potere spirituale che si estende alle terre nuovamente scoperte: l’Italia, l’Europa, il mondo [5].

Nella nuova età che si apre lo sforzo dei pontefici non è quindi più concentrato nell’accrescimento della sovranità (non avremo più pontefici-guerrieri come Giulio II): lo Stato non è più visto come fine a se stesso, ma viene soltanto consolidato come strumento per difendere l’ indipendenza stessa del papato nell’Europa ormai divisa dalle guerre di religione; l’Italia stessa, ormai non più al centro della politica europea dopo la fine delle guerre d’Italia, diviene una specie di zona grigia allargata sottoposta all’ influenza papale senza alcun bisogno di conquiste territoriali. Lo sforzo maggiore dei papi si viene concentrando nella costruzione di un nuovo tipo di sovranità spirituale non territoriale, parallela e distinta rispetto a quella degli altri Stati, secondo le indicazioni teorizzate dal cardinale Roberto Bellarmino nella dottrina del potere indiretto: la Chiesa come societas perfecta alla pari dello Stato.

Per questo la storia moderna del papato, dall’attuazione centralizzata delle riforme tridentine alla costituzione Pastor aeternus del Vaticano I e oltre, sino alla metà del secolo XX, è polarizzata sul tema della sovranità spirituale del pontefice come parallela alla sovranità temporale dei prìncipi. Una sovranità che si attua in modo diretto nei confronti dei fedeli cattolici: con lo spostamento del centro dell’interesse dal campo strettamente dogmatico a quello etico-morale, con la formazione di una organica legislazione e giurisdizione sulle coscienze, della casistica come scienza del comportamento. Non per nulla nei secoli XVII e XVIII il problema cardine negli interventi papali in campo religioso diventa quello della grazia, della giustificazione, e dei fondamenti della morale (pensiamo alle prese di posizione nei riguardi del giansenismo, del lassismo e del quietismo come prima preoccupazione dei pontefici di quest’epoca). Ciò si riflette sul terreno più propriamente politico nell’affermazione di un potere “indiretto” basato su un “corpo” ecclesiastico sovrastatale e sovranazionale, su di una nuova disciplina del clero e delle anime dei fedeli in concorrenza con la legislazione e i poteri statali, nella strenua difesa delle immunità e dei privilegi ecclesiastici di fronte alla politica e al diritto degli Stati assoluti.

Il punto centrale di questo cammino, di questo ciclo storico secolare, può essere visto nelle grandi paci di Westfalia, che si concludono nel 1648 con la vittoria del principio cuius regio eius et religio che vincola sostanzialmente anche i paesi rimasti nell’obbedienza romana al principio della territorializzazione delle Chiese, e che vede quindi una sconfitta politica del papato nella sua aspirazione universalistica. Anche i rapporti con gli episcopati sono dominati da questo problema: non penso si possa comprendere la discussione sul rapporto tra centralismo papale e potere episcopale nella Chiesa dell’età moderna prescindendo da questo dramma concreto, che si risolve in una serie infinita di lotte giurisdizionali, in compromessi sanciti o meno nei concordati.

Non credo vi possa essere dubbio che ciò ha portato ad un’accentuazione prima non conosciuta della centralizzazione rispetto ad una prassi di comunione e di coordinazione nell’esercizio del mandato apostolico. Per fare soltanto un esempio, penso che nulla testimoni meglio questo processo del confronto tra il concordato del 1516 tra Leone X e Francesco I di Francia (che lascia praticamente al re la mano libera nelle nomine episcopali) e il concordato o convenzione tra il governo francese e Pio VII del 1801, che concede in pratica la nomina dei vescovi al primo Console e obbliga i neo-nominati ad un giuramento le cui clausole sono ancora sostanzialmente quelle in vigore nei secoli dell’antico regime: “Io giuro e prometto a Dio, sui santi Vangeli, di prestare obbedienza e fedeltà al governo stabilito dalla Costituzione della Repubblica francese. Prometto altresì di non avere alcuna intelligenza, di non assistere ad alcun conciliabolo, di non mantenere alcuna lega, sia nell’interno che all’esterno, che sia contraria alla tranquillità pubblica; e se nella mia diocesi ed altrove, sentissi che si tramasse qualche cosa in pregiudizio dello Stato , io lo farò sapere al governo”. Non posso qui parlare della storia successiva ma ricordo soltanto che il giuramento di fedeltà dei vescovi è stato abolito in Italia soltanto con la convenzione del 1984.

Questi accenni soltanto per dire che la funzione storica del papato nei secoli dell’età moderna è stata quella, nonostante tutti i cedimenti, di difendere l’universalità della Chiesa come istituzione in concorrenza con lo Stato, in un mondo sempre più dominato dalla presenza dello Stato stesso come monopolizzatore di ogni aspetto della vita sociale . Quale sia stato il prezzo che ha dovuto pagare sino ai nostri giorni sul piano delle controversie giurisdizionali e nel compromesso trono-altare ha costituito il centro dell’interesse della storiografia degli ultimi secoli, e non possiamo qui certo rievocarne la complessità. Certamente la posizione del papato è apparsa sempre più una posizione di retroguardia, una difesa di privilegi e immunità, la resistenza al processo di modernizzazione in un mondo in cui gli Stati, distaccandosi dalla sovranità divina, approdavano alla concezione moderna e razionale della politica, e in seguito anche alle libertà costituzionali, alla democrazia ed alla nuova religione della Patria, territori nei quali il papato non poteva per sua natura interferire.

Ma un prezzo altissimo, più nascosto e meno studiato, è stato pagato all’interno della Chiesa stessa per il processo di imitazione dello Stato da parte della Chiesa al suo interno: la persona del prìncipe è entrata in simbiosi con quella del capo della Chiesa, dando un’impronta sempre più segnata da un parallelismo tra le uniche due societates perfectae, sovrane, esistenti sulla terra (particolarmente nell’esaltazione della centralizzazione e della giuridicizzazione), ben oltre il termine cronologico della fine dello stato pontificio.

Quando i governi degli Stati liberali cominciano a rinunciare al controllo laicale delle nomine episcopali – la quarta piaga della Chiesa nella denuncia di Antonio Rosmini – non vi è una ripresa, nel senso da lui auspicato, della tradizione antica: la partecipazione del clero e del popolo viene esclusa, e le nomine rimangono nelle mani del pontefice, confermando la centralizzazione romana [6]. Sul piano del diritto basta pensare alla promulgazione del Codex iuris canonici del 1917, che si inserisce nel processo di codificazione che aveva caratterizzato gli Stati nel secolo precedente.

Da questo punto di vista le beatificazioni congiunte di Pio IX e di Giovanni XXIII rappresentano certamente il riepilogo di un intero periodo storico della storia della Chiesa e del papato: l’ultimo percorso di una parabola iniziata molti secoli prima. Un percorso che parte dalla tragedia dell’ ultimo papa-re, che proprio nel momento della rinuncia forzata allo Stato temporale e ai sogni neoguelfi esalta al massimo, nel concilio Vaticano I, la sua “sovranità” sulla Chiesa con la proclamazione del primato di giurisdizione e dell’infallibilità; e che si conclude con la rinuncia da parte di Paolo VI agli ultimi simboli della sovranità con il gesto simbolico della deposizione della tiara sull’altare.

Nonostante l’affermarsi della nuova ecclesiologia di comunione nel concilio Vaticano II, non si è modificato il centralismo e la concentrazione dell’esercizio del primato nell’unica figura giuridica del pontefice romano come “vescovo della Chiesa universale” che ha caratterizzato nei secoli dell’età moderna l’esercizio del primato sia all’interno della Chiesa occidentale sia nel rapporto con le Chiese d’oriente [7]. Più in generale penso possano essere confermate anche a proposito del papato le profonde intuizioni dell’ultimo Dossetti su un concilio Vaticano II come ancora inglobato in un regime di “cristianità” che soltanto ora, dopo alcuni decenni, possiamo vedere come storicamente concluso [8].

Occorreva quindi aspettare la fine dello stesso potere temporale, il tramonto tragico della “persona” del pontefice come princeps saecularis, la maturazione delle idee liberali, perché il discorso potesse incamminarsi faticosamente, negli ultimi due secoli, sulla strada che ha portato alla riconciliazione con il mondo moderno, alla libertà di coscienza e ad un nuovo statuto del cristiano. Ma ora anche quest’epoca, questo ciclo storico della modernità sembra essersi concluso: la stessa espressione “libera Chiesa in libero Stato”, nodo così centrale per la vita religiosa e politica dei nostri padri, sembra appartenere a mondi lontani.
La sovranità degli Stati è in gran parte evaporata con la globalizzazione: per lo sviluppo delle nuove reti di comunicazione, delle nuove tecnologie, e soprattutto delle grandi potenze finanziarie – i fondi sovrani – che si identificano e si sovrappongono alle tradizionali grandi potenze territoriali, e sembrano non avere più alcun territorio (anche se le loro decisioni si ripercuotono in pochi istanti sul mondo intero). Così anche le antiche religioni monoteiste – soprattutto ebraismo, cristianesimo, islamismo – ad ogni generazione si distaccano sempre più celermente dalle antiche appartenenza etniche, politiche e culturali. Nessuna Chiesa può essere ai nostri giorni “libera in libero Stato”, come dimostrano tutte le discussioni senza sbocco (che ora non posiamo certo qui aprire) sul tema della laicità.

L’epoca che ora si apre impone una riconsiderazione del problema dell’esercizio del primato petrino in un contesto storico molto diverso e per certi versi opposto ai parametri che lo hanno caratterizzato durante i secoli dell’età moderna. L’universalità non deve essere ora più difesa nei confronti degli Stati, che hanno perso gran parte della loro sovranità (anche se naturalmente molti dei problemi del passato rimangono), bensì incarnata storicamente di nuovo nel panorama ancora incerto dell’età della globalizzazione. Le figure degli ultimi pontefici hanno bene illustrato il passaggio storico che abbiamo di fronte, anche se le risposte sono state sempre parziali negli ultimi decenni: Giovanni Paolo II ha illustrato con la sua attività apostolica e la sua personalità di grande comunicatore a livello planetario la tensione dell’attuale momento ecclesiale sui problemi ancora irrisolti che fanno davvero ritenere sorpassata le nostre visioni anche solo di quarant’anni fa; Benedetto XVI ha cercato di rifondare un nuovo quadro comune nella razionalità occidentale. Ora con papa Francesco si sta veramente affrontando il nucleo del problema, e siamo già, dopo tre anni del suo governo, in un movimento ormai inarrestabile nella sua tensione per adeguare ai nuovi tempi il governo della Chiesa universale.

In realtà vi sono mutamenti istituzionali che si sono già introdotti in modo quasi sotterraneo, e che – qualsiasi sia la valutazione che si dà sugli avvenimenti – sono destinati a mutare radicalmente il governo della Chiesa. L’attenzione su di essi è stata quasi nulla da parte di teologi o canonisti, ma non possono sfuggire all’attenzione dello storico. Pensiamo ad esempio alla creazione di diocesi non territoriali, di diocesi senza territorio (la “prelatura personale”): un’innovazione che modifica davvero la storia millenaria che noi eravamo abituati a studiare nel diverso rapporto (verticale e di collegialità) tra il papa e l’episcopato territoriale, un ordinamento riepilogato nella doppia persona del pontefice, vescovo di Roma e pastore della chiesa universale, da cui siamo partiti. Mai i grandi ordini religiosi, pur così importanti e potenti, erano riusciti nel passato ad ottenere uno statuto episcopale, cioè di costituirsi in diocesi senza territorio così come è avvenuto ora per l’Opus Dei e come può avvenire in futuro per altre comunità non legate ad un territorio.
Si è detto e scritto tante volte che questo è un papa che è venuto dalla fine del mondo (finis terrae), dalla periferia. Forse è proprio l’opposto: tutto si sta spostando e non vi è più un rapporto centro-perifera (secondo lo schema ereditato dall’impero romano) come fondamento del primato petrino per garantire l’unità della Chiesa: sta nascendo qualcosa di nuovo.

Articolo pubblicato sul numero 5/2016 di Mondoperaio

Note

[1] – Per un’ultima sintesi e bibliografia aggiornata v. G. CHITTOLINI, Papato, corte di Roma e stati italiani dal tramonto del movimento conciliarista agli inizi del Cinquecento, in Il Papato e l’Europa, a cura di G. De Rosa e G. Cracco, Rubbettino, 2001, pp.191-217.
[2] – P. PRODI, Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna, Bologna 1982 ( a quest’opera rinvio naturalmente per la bibliografia precedente).
[3] – Nell’immensa bibliografia il rinvio è soprattutto ai classici studi di W. Ullmann e di F. Oakley. Vedi ora E. CONTE, La bolla “Unam sanctam” e i fondamenti del potere papale fra diritto e teologia, in Mélanges de l’École française de Rome- MoyenÂge, 113 (2001), PP. 663-684. Sul papa Borgia: P. PRODI, Alessandro VI e la sovranità pontificia (in corso di stampa negli Atti del convegno “Alessandro VI e lo Stato della Chiesa”, Perugia, marzo 2000))
[4] – Il concilio di Trento e il moderno, a cura di P. Prodi e W. Reinhard, Bologna 1996 (introduzione).
[5] – P. GIUSTINIANI – V. QUIRINI, Libellus ad Leonem X, in Annales camaldulenses,IX, Venetiis 1773, coll.614-621.
[6] – P. PRODI, Potere politico e nomina dei vescovi: la “quarta piaga” della Chiesa, in Il “gran disegno” di Rosmini. Origine, fortuna e profezia delle “Cinque piaghe della Santa Chiesa”, a cura di M. Marcocchi e F. De Giorgi, Milano 1999, pp. 109-123.
[7] – H. POTTMEYER, Le rÔle de la papauté au troisième millénaire. Une relecture di Vatican I et de Vatican II, Paris 2001.
[8] – G. DOSSETTI, Conversazioni, Milano 1994, Cooperativa culturale Il Dialogo (,pp.21-22 ((da una conversazione tenuta al clero della diocesi di Pordenone il 17 marzo 1994).

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