Perché il Concilio è una forza che può rigenerare la Chiesa

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“Verso le dieci o le undici di sera, gli uluuru e i kingilli arrivarono sul posto; si sedettero sul poggio e si misero a cantare. Erano tutti in uno stato di evidente sovreccitazione (every one was evidently very excited). Un po’ più tardi nella serata, gli uluuru condussero le loro donne e le abbandonarono ai kingilli, che si unirono a esse. Si introdussero allora giovani iniziati di recente ai quali venne spiegata in modo particolareggiato tutta la cerimonia e, fino alle tre del mattino, i canti proseguirono ininterrottamente. Allora ebbe luogo una scena di una frenesia veramente selvaggia (a scene of the wildest excitement). Mentre i fuochi, accesi da ogni parte, facevano risaltare violentemente la bianchezza degli alberi della gomma sullo sfondo delle tenebre che li circondavano, gli uluuru si inginocchiarono gli uni dietro gli altri presso il monticello, poi ne fecero il giro sollevandosi da terra, con un movimento d’insieme, con le due mani appoggiate sulle cosce, per inginocchiarsi di nuovo un po’ più innanzi, e così di seguito. Nel medesimo tempo, essi chinavano i loro corpi ora a destra, ora a sinistra, lanciando tutti insieme, a ogni movimento, un grido potente, un vero urlo, Yrrsh! Yrrsh! Yrrsh! Contemporaneamente, i kingilli, in stato di grande esaltazione, facevano risuonare i loro boomerangs e il loro capo era ancora più agitato dei suoi compagni” (E. Durkheim, Le forme elementari della vira religiosa, Meltemi, pp. 275-276).

L’accostamento tra la cerimonia dell’Intichiuma descritta da David Émile Durkheim ne Le forme elementari della vita religiosa e un concilio di Santa Romana Chiesa può apparire del tutto fuori luogo. Irriverente accostare i ‘selvaggi’ aborigeni australiani e i vescovi della Chiesa cattolica; sociologicamente del tutto improprio accostare un gruppo sociale per definizione privo di potere centrale a quella che Durkheim stesso, ancora con poca riverenza, definiva una ‘mostruosità sociologica’, in virtù della sua struttura gerarchica per molti aspetti pre-moderna. Eppure, a ben guardare, forse qualche ragione può esserci, a partire proprio dalle ragioni che spingevano il sociologo francese da una parte a ricondurre il cattolicesimo alle regole fondamentali di funzionamento di ogni altra religione e, dall’altra, a individuare specifici motivi di ammirazioni per il cattolicesimo in sé, che in diverse occasioni non celava.

Nel discorso tenuto mercoledì scorso ai parroci e ai sacerdoti della diocesi di Roma, Benedetto XVI ha usato parole autentiche ricordando il clima che circondava l’inizio del Concilio Vaticano II: “Allora, noi siamo andati al Concilio non solo con gioia, ma con entusiasmo. C’era un’aspettativa incredibile. Speravamo che tutto si rinnovasse, che venisse una nuova Pentecoste, una nuova era della Chiesa (…) Così, eravamo pieni di speranza, di entusiasmo, e anche di volontà di fare la nostra parte per questa cosa”. Ogni gruppo sociale, ogni organizzazione, per quanto complessa sia, ha bisogno di tanto in tanto di momenti di effervescenza collettiva per ritrovare le ragioni del proprio stare insieme; come anche per cambiare, rinnovarsi. Per Durkheim era una legge sociologica, universalmente valida, che si parlasse di aborigeni australiano o di ebraismo, cattolicesimo e Islam.

Ma di nuovo, dove stanno le ragioni dell’accostamento? Sulla stampa e sui media in generale imperversano i toto-Papa. Sulla stampa progressista si tifa per un Papa nero (per forza progressista?), per un ritorno al Vaticano II, per l’apertura del sacerdozio alle donne, per un diverso atteggiamento della Chiesa di Roma verso tutti i temi sensibili del rapporto con la modernità, per un diverso e più equilibrato rapporto tra il centro e le periferie della Chiesa stessa. Se ci dividiamo in tifoserie, ognuno fa le proprie scelte e sa da che parte stare. Ma se si chiede a se stessi uno sforzo in più, allora le cose si complicano.

Da un punto di vista liberale, viene naturale e semplice lodare la scelta di Benedetto XVI come coraggiosa apertura alla modernità, perfino come riconoscimento della vittoria del relativismo e della fine della tutela dell’autorità sacrale su un mondo ormai maggiorenne. Alcuni hanno letto il gesto dell’abdicazione come rinuncia all’infallibilità papale e a una pre-moderna idea di autorità, altri come coerenza estrema con l’idea cristiana di un sacro che si fa mondo, incarnazione, senso della finitezza e contingenza.

Da un punto di vista liberale, è stato facile in passato criticare il tradizionalismo di Benedetto XVI e chiedere alla Chiesa di dare spazio alle sue componenti più aperte nei confronti della modernità; meno facile, alle volte, è riconoscere a questo Pontefice di essere stato tra i pochissimi negli ultimi anni – prima che l’universale soggezione al liberismo venisse messa anche solo un poco in questione – a pronunciare parole di critica chiara al capitalismo; e di essere stato tra i pochissimi a criticare apertamente l’erosione della solidarietà e lo sfaldarsi di riferimenti normativi condivisi in una società sempre più anomica. Questi lati del cattolicesimo, che Durkheim riconosceva come sociologicamente preziosi, Benedetto XVI li ha interpretati al meglio. Una Chiesa aperta al mondo, troppo aperta al mondo, rischia in altri termini di perdere quella forza di opposizione al mondo stesso e alla modernità di cui pure, al contrario, continua ad esserci bisogno.

E allora, cosa dobbiamo sperare?

La ‘mossa’ di Benedetto XVI mi sembra una risposta creatrice ad una situazione di evidente debolezza. Al di là dell’uomo, cui si augura di godere dei suoi libri e della sua musica nascosto al mondo, è puerile addurre ragioni di salute e di stanchezza per spiegarne il gesto. A fronte delle tensioni che lacerano la Chiesa e rischiano di deflagrare in modo scomposto, Benedetto XVI ha scelto la soluzione – qui sì, con coraggio – di rimettere il futuro della Chiesa al potere costituente del gruppo riunito. Il Conclave, e magari in un futuro non troppo lontano un concilio come Franco Cardini argomentava su Il Manifesto giorni fa, sono i luoghi in cui il potere conciliare può rigenerare il gruppo.

È questo il punto: se noi facciamo il tifo per uno spostamento di equilibri a vantaggio del potere conciliare vs. il potere monarchico papale, non è perché il primo garantisca automaticamente un più alto tasso di ‘progressismo’ della Chiesa, ma semplicemente perché corrisponde ad una legge sociologica universale. Quel che può uscire da una situazione liminale prodotta dall’effervescenza del gruppo riunito non possiamo saperlo, e sta ai membri del gruppo stesso determinarlo; ma il gruppo riunito ha, in sé, una forza produttrice di speranza ed entusiasmo, un potere generatore e rigeneratore senza il quale nessun consorzio umano può sopravvivere; il gruppo riunito ha in sé, anche in una istituzione modello insuperato di organizzazione e disciplina, un momento di apertura e di immaginazione creative.

  1. Articolo interessante. Mi chiedo però se non sia troppo poco e troppo tardi passare da una monarchia a una repubblica, una repubblica fatta comunque di soli uomini (perdi-più anziani) che pretendono di decidere anche a nome delle donne. E’ recentissima la notizia del permesso accordato da parte dei vescovi tedeschi all’assunzione della pillola del giorno dopo in caso di stupro. E questo è visto come un segno di progresso da parte della chiesa!!!!

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