Da Reset-Dialogues on Civilizations 

Parata di ministri e alti dignitari ad Algeri in occasione del 15esimo Forum internazionale dell’energia (26-27-28 settembre), in coda al quale si è aperto un atteso consesso dei rappresentanti dei Paesi esportatori di petrolio (Opec).
Il quadro energetico globale è dei più precari, con il prezzo del barile di nuovo sotto i 46 dollari e sauditi e iraniani impegnati in un faticoso duello per la riduzione contingentata della produzione di oro nero. Il contesto conferma ai Paesi “oil-addicted” quanto sia indispensabile emancipare la propria economia dall’industria energetica fossile. Eppure, l’ospite di casa, Algeri, non riesce a imboccare la strada della diversificazione, generando inquietudine nel panorama internazionale.

L’Unione europea è in allerta per i conti algerini che non tornano e il parallelo deteriorarsi dei diritti umani.
Gli Stati uniti mettono in relazione il rischio terrorismo al peggioramento delle condizioni socio-economiche nel Paese.
Il Fondo monetario internazionale invia con frequenza crescente missioni di osservazione e si avvale della consulenza di istituti di ricerca indipendenti dal Governo di Abdelmalek Sellal per vederci chiaro.

Ad Algeri si chiede un piano ambizioso e lungimirante sul genere di quelli varati nell’ultimo anno da Riyadh e Dubai: piattaforme economiche denominate “Vision” perché prevedono il restauro totale degli assetti produttivi nazionali. 
Il quadro algerino, tuttavia, parte da condizioni di salute più fragili rispetto a quelle dei sultanati del Vicino Oriente e, soprattutto, risente dell’instabilità politica di Libia e Paesi del Sahel.
La stampa nazionale, tendenzialmente “morbida” nei confronti dell’Esecutivo per questioni di quieto vivere, mitiga critiche e polemiche, ma non nasconde l’incertezza del tessuto economico.
Eccone alcuni dati critici: il bilancio dello Stato si è ridotto nel 2015 del 50%, del 70% se prendiamo in considerazione gli ultimi due anni.
Partendo dall’assunto che gli idrocarburi rappresentano il 60% dell’export algerino (ormai diretto in prevalenza verso l’Unione europea) e constatando la flessione progressiva e impietosa dei prezzi del petrolio nel biennio 2014-2016, due terzi delle entrate dello Stato hanno preso il largo. È vero che nessun impianto di estrazione è stato chiuso – alcuni anzi sono in via di riapertura -, ma altrettanto vero è che le prospettive per i prossimi mesi non sono incoraggianti: in pratica, le casse algerine tornerebbero in salute se il prezzo del greggio salisse di nuovo oltre i 100 dollari al barile. Un miraggio, ora come ora. E poi, narrano le cronache finanziarie, le riserve valutarie sono in costante diminuzione: il premier Sellal ha dichiarato che scenderanno a 116 miliardi di dollari a fine 2016. Attenzione: erano 194 miliardi nel 2013, 179 nel 2014 e 143 miliardi a fine dicembre 2015.
Il dinaro non è mai stato così debole nei confronti del dollaro, il deficit di bilancio cresce, quello commerciale anche.
In proposito, all’inizio del mese di agosto la stessa Opec ha diffuso dati inquietanti: ammonta a 10,83 miliardi di dollari il deficit commerciale algerino relativo al primo semestre 2016, vale a dire +27% rispetto al medesimo periodo del 2015.
Un paradosso dell’economia algerina, infatti, è che alla fase estrattiva di petrolio e gas non seguono raffinazione e lavorazione in loco, perché nel tempo sono mancati adeguati investimenti sull’industria petrolchimica.
Insomma, Algeri è costretta a comprare carburante all’estero.

L’Fmi si è detta contenta delle “riforme forti” del Governo di Algeri – cioè qualche taglio al budget pubblico effettuato nell’ultimo anno – suggerendo tuttavia l’adozione di provvedimenti urgenti per aggiustare la spesa operando un taglio dal 10 al 15% del Pil. Come sarà possibile ridurre così tanto le spese per sanità, scuola, pubblico impiego, servizi senza generare terribili tensioni sociali, con il rischio di un nuovo conflitto civile, è un dubbio che si pongono in molti. Oltretutto, l’infiltrazione jihadista è dietro l’angolo in questo Paese storicamente predisposto a derive radicali. C’è attesa dunque per la nuova legge finanziaria in lavorazione. Un mix equilibrato di sforbiciate e investimenti mirati darebbe un segnale di forza politica e lucidità amministrativa agli osservatori interni ed esterni. Secondo le prime indiscrezioni, tuttavia, l’orientamento sarà diverso: addirittura, i rubinetti dello Stato saranno per così dire “sigillati” nel biennio 2018-2019 e l’industria estrattiva del petrolio sferzata come un cavallo al galoppo per superare qualsiasi record produttivo. 
In barba agli oracoli della diversificazione, che puntano il dito sulle potenzialità di agricoltura, agroalimentare, farmaceutico, industria pesante, sanitario: i settori in cui rinnovamento tecnologico e partnership straniere sono gli strumenti praticabili per uscire dalla crisi.
Di finanziatori europei e asiatici se ne sono fatti avanti svariati, di cui numerosi attratti dall’espansione del porto industriale di Tangeri; altri, invece, hanno già da anni un piede in Algeria e attendono che la regola del 51% sia, come promesso più volte, cancellata (per ogni azienda straniera, è d’obbligo un socio di maggioranza algerino).

Ma altri ancora, soprattutto anglosassoni, aspettano due momenti “clou”, previsti per la prima quindicina del mese di ottobre: la pubblicazione di un rapporto sul potenziale e le prospettive economiche in Algeria sul sito web del Washington post (il giornale ha incaricato l’agenzia True Media di svolgere il lavoro di raccolta dati sul campo); i summit annuali del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, dal 7 al 9 ottobre nella capitale statunitense.
Il Governo Sellal è consapevole di avere gli occhi del mondo addosso e tenta di porre rimedio alla disaffezione economica americana (l’attuale interscambio commerciale fra Algeria e States non arriva a 4 miliardi di euro, mentre nel 2008, anno boom, sfondò gli 11 miliardi) in modo rapido e, a detta di alcuni analisti, improvvisato.
Come invertire la rotta? Con un’ampia operazione di marketing internazionale sul genere di quelle avviate nel Regno del Marocco e in quello di Giordania con i sovrani Mohammed VI e Abdallah, già “clienti” del Washington post alcuni anni fa. Ora è probabile che il dossier di True media, peraltro agenzia di riferimento del Forum degli imprenditori algerini, sarà spulciato anche dai tecnici dell’Fmi o della Wb. E che anche a Pechino e Bruxelles non passerà inosservato. Ma la sostanza non cambia: più che di prestiti e nuove trivelle, ad Algeri la bianca occorre una “Vision”, coraggiosa e innovativa, capace di portare 40 milioni di cittadini verso uno sviluppo sostenibile, indifferente alle fluttuazioni fatali del “barile”.  L’ennesimo Esecutivo plasmato dal presidente Abdel Aziz Bouteflika non pare avere lo spessore necessario per la svolta e prosegue imperterrito su una strada già segnata. Fino a quando la terra sotto i piedi mancherà e il cambiamento sarà inevitabile. Già entro il 2020, sentenziano gli aruspici.

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