Proibire il velo
significa discriminare

Da Reset settembre-ottobre 2010

Ai primi di luglio, in Spagna, il parlamento catalanoha respinto per pochissimi voti una proposta di legge che avrebbe vietato il burqa musulmano in tutti gli spazi pubblici, capovolgendo l’esito del voto espresso una settimana prima dal Senato a favore del divieto. Proposte analoghe potrebbero diventare presto legge in Francia e in Belgio. Perfino il foulard è spesso fonte di problemi. In Francia, le ragazze non possono indossarlo a scuola. In Germania (così come in alcune zone del Belgio e dell’Olanda) in diverse regioni alle insegnanti di scuola pubblica è proibito portarlo in classe, malgrado a preti e suore sia consentito insegnare con l’abito talare. Cosa può dirci la filosofia politica rispetto a questi sviluppi? Ponendosi questa domanda, si scopre l’esistenza di una lunga tradizione filosofica e di diritto che ha riflettuto su questi argomenti.

 

Partiamo da una considerazione ampiamente condivisa: tutti gli esseri umani sono uguali e hanno la medesima dignità. Pressoché ovunque si concorderà sul fatto che i governi devono rapportarsi a tale dignità con immutato rispetto. Ma cosa vuol dire trattare la gente con lo stesso rispetto in ambiti che hanno a che fare con le credenze e l’osservanza religiosa?

Aggiungiamoci allora un’ulteriore premessa: la facoltà attraverso cui l’uomo ricerca il significato ultimo dell’esistenza – facoltà comunemente denominata «coscienza» – è una componente fondamentale della persona, strettamente legata alla sua dignità. E a questo punto possiamo puntualizzare con un’altra premessa ancora, che potremmo chiamare la «premessa della vulnerabilità»: tale facoltà, infatti, può essere gravemente compromessa da condizioni ambientali globali ostili. È possibile che le venga impedito di attivarsi, o addirittura che essa venga violata o danneggiata dall’interno (il primo tipo di ostacolo, che il filosofo americano del XVII secolo Roger Williams assimilava alla prigionia, è quello che subentra quando a delle persone viene impedito di rispettare le osservanze imposte dal loro credo. Il secondo, per il quale Williams coniò la formula «stupro dell’anima», si verifica quando gli individui vengono costretti ad affermare convinzioni non proprie o ad aderire a ortodossie che non sostengono).

 

La premessa della vulnerabilità dimostra che per garantire pari rispetto alle coscienze è necessario strutturare il contesto mondiale in modo da tutelare sia la libertà di credo che quella di espressione e pratica. Per questo motivo i padri della Costituzione americana conclusero che per difendere la parità di diritti tra le coscienze ci fosse bisogno di un «libero esercizio» di tutti sulla base dell’uguaglianza. Cosa vuol dire questo realmente, e quali limiti bisognerebbe ragionevolmente porre all’attività religiosa in una società pluralistica? I filosofi fondatori della nostra tradizione legale affermerebbero con facilità che quando sono a rischio la pace e la sicurezza o la parità di diritti altrui, è plausibile imporre alcuni limiti ragionevoli a ciò che la gente fa in nome della religione. Ma poi si trovano in disaccordo su un più approfondito e circostanziato ragionamento a proposito di tali limiti e tutele.

 

A questo punto la tradizione filosofica si spacca. Una prima corrente, afferente a un altro filosofo del XVII secolo, l’inglese John Locke, sostiene che per difendere la pari libertà delle coscienze siano necessari solo due presupposti: leggi che non penalizzino il credo religioso e leggi non discriminatorie sulle pratiche, da applicare in tutti i casi che riguardano le attività religiose. Un esempio di legge discriminatoria, precisava Locke, sarebbe per esempio il rendere illegale l’uso del latino in Chiesa senza proibirlo nelle scuole, perché l’intento dichiarato di una norma del genere sarebbe quello di colpire il cattolicesimo romano. Se una legge non è così persecutoria, invece, può sussistere, anche se dovesse incidentalmente gravare su alcune pratiche religiose più che su altre. Se l’individuo trova che la propria coscienza gli impedisca di obbedire a una certa legge (relativa per esempio al servizio militare, o ai giorni lavorativi), secondo Locke farà bene a seguire la propria coscienza, ma dovrà essere pronto a pagarne le conseguenze legali. Una moderna materializzazione della tesi di Locke potrebbe essere esemplificata da una decisione della Corte Suprema statunitense del 1993, relativa a un’ordinanza approvata dalla città di Hialeah, in Florida, che proibiva il «sacrificio animale rituale», ma continuava a consentire l’uccisione di animali per uso alimentare. La Corte invalidò la legge, ritenendo che rappresentasse una deliberata forma di persecuzione contro i praticanti della Santeria.

 

Un’altra corrente, afferente a Roger Williams, fondatore della colonia di Rhode Island e autore di numerosi scritti sulla libertà religiosa, sostiene invece che la tutela della coscienza dovrebbe andare ben oltre tutto ciò. Secondo tale corrente, le leggi di una democrazia vengono sempre stabilite dalla maggioranza e pertanto è naturale che incarnino le idee che più le convengono. Anche se una legge non è persecutoria nell’intento, può rivelarsi assolutamente ingiusta nei confronti delle minoranze. Quindi nei casi in cui una legge limiti la libertà di coscienza – per esempio chiedendo a una persona di testimoniare in tribunale nel suo giorno da santificare, o di prestare servizio militare quando la sua religione glielo proibisce, o di astenersi dall’uso di sostanze utilizzate nei riti sacri – secondo tale corrente ai praticanti delle minoranze dovrebbe essere garantito uno speciale esonero, una sorta di «conciliazione».

 

Nel complesso, quest’ultima posizione ha prevalso nel diritto e nella cultura pubblica statunitensi da quando George Washington scrisse la famosa lettera ai quaccheri in cui spiegava che non avrebbe chiesto loro di prestare servizio militare perché gli «scrupoli di coscienza di qualsiasi uomo» meritano di essere trattati con la massima «delicatezza e tatto». Per diverso tempo, il moderno diritto costituzionale americano ha rispettato gli standard accomodazionisti, presupponendo che il governo non potesse imporre «oneri sostanziali» al «libero esercizio della religione» da parte dell’individuo in assenza di «interessi di Stato inoppugnabili» (pace e sicurezza ne sono i due esempi più immediati, ma non gli unici). Il caso di svolta in cui è stato ratificato tale principio è stato quello di una donna, Adell Sherbert, avventista del settimo giorno il cui datore di lavoro aveva introdotto come sesto giorno lavorativo il sabato. Licenziata per essersi rifiutata di lavorare quel giorno, la donna ha chiesto un’indennità di disoccupazione allo Stato della Carolina del Sud e se l’è vista rifiutare con la motivazione di essersi resa non disponibile a un «lavoro congruo». La Corte Suprema statunitense ha deliberato invece in suo favore, sostenendo che negarle l’indennità avrebbe significato penalizzare la signora Sherbert per le sue pratiche non standard: ciò quindi corrispondeva al negarle pari libertà di venerare Dio a suo modo. Non c’è niente di sbagliato, in linea di principio, nello scegliere la domenica come giorno festivo, ma sicuramente è ingiusto non riconoscere a qualcuno esigenze religiose particolari.

 

Personalmente, ritengo la tesi accomodazionista più corretta di quella di Locke perché riesce a individuare forme di discriminazione più sottile che risultano pervasive della vita democratica maggioritaria. Ma anche tale teoria presenta i suoi inconvenienti. Il primo (sottolineato da Justice Scalia quando nel 1990 ha iniziato a piegare la giurisprudenza costituzionale agli standard di Locke) è che in questo modo diventa molto più difficile per i giudici amministrare la giustizia. Creare continue eccezioni caso per caso a leggi generali sembra a Scalia un modo di procedere troppo caotico, che va oltre le competenze della magistratura. L’altro problema consiste nel fatto che tipicamente la tesi accomodazionista favorisce la religione a scapito di altre motivazioni che un individuo potrebbe avere per cercare di farsi esonerare dall’osservanza di una data legge. È una questione spinosa che richiederebbe di essere discussa a lungo, ma in questa sede non c’è lo spazio. Non che ce ne sia bisogno del resto, perché i casi verificatisi di recente in Europa riguardano tutti leggi discriminatorie che non supererebbero nemmeno il più blando test di Locke. Concentriamoci sul burqa, e le considerazioni che faremo potranno essere applicate anche ad altri casi.

 

Generalmente a favore delle proposte di legge che presuppongono il divieto vengono sostenute cinque argomentazioni. Vediamo se esse trattano tutti i cittadini con uguale rispetto. La prima riguarda il fatto che per esigenze di sicurezza gli individui devono mostrare il volto quando frequentano luoghi pubblici. La seconda, strettamente correlata alla prima, sostiene che la trasparenza e reciprocità proprie dei rapporti tra concittadini verrebbe minata dall’abitudine di coprirsi parte della faccia.

 

Il motivo per cui entrambe queste argomentazioni sono sbagliate è che vengono applicate in maniera incoerente. A Chicago, per esempio, come in molte zone dell’Europa, l’inverno fa molto freddo. Per la strada, la gente cammina con il cappello calcato sugli occhi e sulle orecchie e si copre bene naso e bocca con la sciarpa. Eppure non è mai stata avanzata nessuna obiezione di trasparenza o sicurezza, e nessuno ci impedisce di entrare in un edificio pubblico così imbacuccati. Inoltre, molti apprezzati e stimati professionisti passano tutto l’anno con il volto coperto: chirurghi, dentisti, giocatori di football americani, sciatori e pattinatori. È chiaro che a incutere timore e sfiducia in Europa non è il coprirsi di per sé, ma il coprirsi alla maniera musulmana.

 

Una richiesta ragionevole potrebbe essere che le donne musulmane abbiano una foto a volto scoperto sulla patente o sul passaporto. Con le dovute accortezze per non offenderne la sensibilità durante la sessione fotografica, potrebbe essere plausibile esigere una foto del genere. Tuttavia, è ormai risaputo che il volto è un fattore di identificazione assolutamente fallace. Ai checkpoint per l’immigrazione, il riconoscimento ottico e le impronte digitali hanno da tempo sostituito la foto. Quando queste tecnologie avanzate si saranno diffuse anche alle pattuglie di polizia e negli aeroporti, potremo tranquillamente fare a meno della foto, e quindi anche di quel che rimane della prima e seconda argomentazione.

 

Il terzo punto, di gran rilievo attualmente, è che il burqa sia un simbolo di dominazione maschile che rappresenta l’oggettivazione della donna (vista non più come persona, ma come mero oggetto). Un legislatore catalano di recente l’ha definito una «prigione degradante». La prima cosa da dire riguardo a tale tesi è che coloro che generalmente la sostengono non sanno molto dell’islam e sicuramente non sono in grado di affermare cosa simboleggi cosa in tale religione. Ma la pecca più lampante consiste nel fatto che la nostra società è piena di simboli della supremazia maschile che trattano la donna come un oggetto. Riviste erotiche, foto di nudo, jeans attillati: tutti questi prodotti possono essere tacciati di ridurre la donna a un oggetto, così come la stessa accusa può essere rivolta a molteplici aspetti della nostra cultura mediatica. Che dire della «degradante prigione» della chirurgia plastica? Ogni volta che mi cambio nello spogliatoio della palestra, vedo donne con cicatrici da liposuzione, cancellazione delle smagliature, protesi al seno. Molto di questo non viene forse fatto per uniformarsi a un ideale maschile di bellezza femminile che riduce la donna a semplice oggetto sessuale? Chi propone il divieto del burqa non propone certo di vietare tutte queste pratiche. Al contrario, spesso vi partecipa. E vietare tutte le attività del genere sulla base dell’equità sarebbe un’invasione intollerabile della libertà personale. Ancora una volta, i denigratori del burqa sono profondamente incoerenti, e tradiscono una paura del diverso da sé che appare discriminatoria e indegna di una democrazia liberale. La lotta al sessismo, in questo caso come in tutti gli altri, passa per la persuasione e il dare l’esempio, non certo per la castrazione della libertà.

 

Ancora una volta è possibile fare una puntualizzazione ragionevole. Quando molto tempo fa in Turchia venne proibito il velo, nel contesto specifico c’era una valida motivazione: le donne che non lo indossavano, infatti, erano soggette a molestie e atti di violenza. Il divieto tutelava la libertà di scegliere di non andare in giro velate, ed è rimasto legittimo finché alle donne non è stata data tale libertà di scelta. Potremmo definirla una «imposizione sostanziale» giustificata (temporaneamente) da un «interesse inconfutabile». Nell’Europa attuale però le donne possono vestirsi più o meno come vogliono: non c’è ragione di limitare la libertà religiosa come implicherebbe il divieto.

 

Una quarta argomentazione è quella secondo cui le donne indosserebbero il burqa solo perché costrette. È una tesi abbastanza non plausibile da generalizzare, e tipicamente è avanzata da gente che non ha la minima idea delle condizioni specifiche di questa o quella donna. Si potrebbe replicare che naturalmente tutte le forme di violenza e coercizione fisica sono già illegali, e che le leggi contro la violenza e gli abusi domestici andrebbero fatte rispettare molto più rigidamente. Ma queste persone credono davvero che la violenza domestica sia un problema esclusivo dei musulmani? Se così fosse, avrebbero assolutamente torto. Stando alle statistiche del Dipartimento di Giustizia statunitense, la violenza da parte del partner rappresenta il 20% dei crimini non fatali subiti dalle donne nel 2001. Secondo il National Violence Against Women Survey, citato sul sito del Dipartimento, il 52% delle donne che hanno partecipato al sondaggio sostiene di essere stata molestata da piccola da un adulto che se ne prendeva cura e/o da grande da molteplici tipologie di molestatore. Non c’è nessuna prova che nelle famiglie musulmane ci sia una maggiore incidenza di questo genere di violenza. Piuttosto, data la forte correlazione tra violenza domestica e abuso di alcool, sembra quantomeno plausibile che nelle famiglie di musulmani osservanti se ne verifichino meno casi.

 

Supponiamo che invece esistessero delle prove di un forte legame, a livello statistico, tra il burqa e la violenza sulle donne. Su tali basi un governo potrebbe imporne legittimamente il divieto? La Corte Suprema americana ha stabilito che gli spogliarelli potrebbero essere vietati sulla base della loro contingente correlazione con i crimini, compresi quelli sulle donne, ma non è chiaro se tale posizione sia corretta. Le confraternite dei college hanno un legame fortissimo con la violenza sulle donne, e come conseguenza di ciò in molte università alcune – quando non tutte – le confraternite sono state vietate. Le istituzioni private però sono autorizzate a imporre regolamentazioni del genere, mentre un divieto governativo generalizzato sui bar (o su altri posti e occasioni in cui ci si può ubriacare, per esempio le partite di calcio) rappresenterebbe di certo una bizzarra restrizione della libertà di associazione. Ma quel che è più importante è che chiunque proponga il divieto del burqa dovrebbe considerarlo insieme a tutte le altre concause, soppesare le prove, e accettarne le conseguenze anche sui propri passatempi più amati.

 

Le società hanno certamente il diritto di insistere perché le donne abbiano istruzione e opportunità di lavoro adeguate che garantiscano loro una via d’uscita da situazioni familiari sfavorevoli. Se si crede che le donne indossino il burqa solo per via di pressioni coercitive, allora è necessario dare loro più ampie possibilità, rafforzare le leggi rendendo obbligatoria l’istruzione di primo e secondo grado, per poi vedere che cosa effettivamente queste donne sceglieranno di fare.

 

In ultimo, ho sentito anche l’argomentazione secondo cui il burqa sarebbe di per sé non salutare, perché caldo e scomodo (non sorprende che tale tesi sia stata avanzata in Spagna). Mi sembra forse la più stupida di tutte. Abiti che coprono le diverse parti del corpo possono essere comodi o scomodi, a seconda della fattura. Quando sono in India generalmente porto sempre un salwaar kameez di cotone, perché lo trovo assolutamente comodo, e il fatto di essere completamente coperti tiene la polvere lontana da braccia e gambe e riduce il rischio di tumore della pelle. Non sono affatto sicura che il quantitativo di pelle lasciata scoperta dall’abito tipico femminile spagnolo incontrerebbe l’approvazione di un dermatologo. Ma al di là di questo, chi sostiene tale tesi se la sentirebbe davvero di vietare tutti gli abiti scomodi e possibilmente non salutari? Non dovremmo forse iniziare dai tacchi alti, per quanto adorabili? Ma no, i tacchi alti sono in linea con la maggioranza (e sono una delle maggiori fonti di esportazione spagnola), quindi non destano alcuna preoccupazione.

Tutte e cinque le argomentazioni che ho riassunto sono discriminatorie. Non dobbiamo neanche scomodarci a toccare la delicata questione del compromesso su basi religiose per renderci conto che sono profondamente inaccettabili in una società dedita alla libertà e all’uguaglianza. Il pari rispetto di tutte le coscienze ci impone di rifiutarle.

(Traduzione di Chiara Rizzo)

 

  1. Credo che il punto sia che una volta che si identificano alcune pratiche del mondo non occidentale come illiberali, antidemocratiche, discrminatorie, vada al tempo stesso riconosciuto che nel civile occidente sono in atto pratiche speculari che rappresentano il contrario ma non l’opposto di quelle. E le discriminazioni si combattono a partire da quelle che viviamo e pratichiamo in prima persona.

  2. Questa estate ha attirato la mia attenzione molte coppie musulmane: lui vestito con pantaloncini corti e maglietta, lei coperta dalla testa ai piedi con un vestito scuro. Sono un uomo, ma mi sono sentito umiliato come uomo vedendo un altro uomo che fa camminare la sua donna a 40 gradi di caldo. E non era quei vestiti di cotone leggero che cita Martha Nussbaum. Sentivo che c’era qualcosa di brutale in questo comportamento, anche se non mi viene in mente di pensare che questi uomini trattassero brutalmente le loro donne, è un altro tipo di brutalità e di soberbia, quella che ti concede il tuo ruolo sacralizzato di uomo. Questi uomini mi sembravano capi della camorra o della mafia, esibendo il loro potere.

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