La rivoluzione tunisina continua dietro la maschera del “successo”

Due settimane fa le forze di sicurezza tunisine hanno cercato di fermare brutalmente una manifestazione pacifica a El Kamour Tataouine, uccidendo un manifestante. A sei anni dalla rivolta del 2010-2011, i tunisini si chiedono che cosa rimane della loro rivoluzione.

Insignita del Premio Nobel per la Pace nel 2015, il successo che la Tunisia ha avuto dal 2011 viene spesso attributo al carattere consensuale della sua transizione, con un governo di coalizione che include il partito islamista Ennahdha.

Ciononostante, la bella favola dei laici e degli islamisti che vanno d’accordo e raggiungono compromessi, mediati dalle due patriarcali figure del Presidente Beji Caid Essebsi e del leader di Ennahdha Rachid Ghannouchi, non corrisponde alla realtà effettiva.

Infatti in Tunisia anche dopo la rivoluzione continuano ad esserci insurrezioni e proteste regolari. Negli ultimi due anni ci sono state continue manifestazioni in risposta alla preoccupante ossessione del Presidente Essebsi di approvare una legge di amnistia che perdonerebbe all’élite finanziaria che ha accumulato la propria ricchezza in modo fraudolento sotto la dittatura di Zine el-Abidine Ben Ali. Le proteste però non si limitano solo a questo caso.

L’estrazione di risorse naturali nel sud del paese, un lascito del colonialismo, ha dato nuove energie all’attivismo della popolazione.

Decenni di marginalizzazione

Due mesi fa a Tataouine le proteste sono aumentate, fino ad arrivare all’annuncio dello uno sciopero generale che ha portato alla morte del manifestante sopracitato. Al confine con l’Algeria e la Libia, è la regione più a sud della Tunisia ed è un vasto territorio arido sfruttato per le sue risorse naturali.

Il territorio di Tataouine è stato colpito pesantemente dalla disoccupazione, che nel 2016 raggiungeva il 32%, mentre la media nazionale era al 15,5%. La popolazione ha vissuto decenni di marginalizzazione e, nonostante la rivoluzione del 2011, le loro vite non sono migliorate.

Grazie alle garanzie ottenute con la nuova costituzione del 2014, i Tataouiniani hanno ritrovato la propria voce. Stesa con l’obiettivo di ristabilire l’uguaglianza nelle regioni interne marginalizzate, incubatrici della rivoluzione, la nuova costituzione sottolinea l’importanza di creare un ponte tra la costa e la periferia, chiedendo al governo di destinare il guadagno proveniente dalle estrazioni di risorse naturali alle regioni in cui vengono fatte.

Traendo legittimità dai propri diritti costituzionali, la popolazione locale ha denunciato l’estrazione delle risorse naturali da cui guadagnavano nulla eccetto danni ambientali e scarsità d’acqua.

Nonostante le ripetute proteste, i leader politici si rifiutano di assecondare le richieste della popolazione per una maggior trasparenza e un’amministrazione migliore. Campagne come “Winou el petrol” (Dov’è il petrolio?), che un anno fa chiedeva trasparenza nell’industria petrolifera, sono cadute nel vuoto, ignorate sia dal Presidente Essebsi, sia da Ghannouchi.

Il Primo Ministro Youssef Chahed ha appoggiato l’approvazione di emendamenti urgenti che hanno permesso al governo di evitare un esame parlamentare sui contratti per l’uso delle risorse naturali, minando in tal modo la trasparenza del settore petrolifero. I media di parte, sostenitori del vecchio regime accusano regolarmente i contestatori di proteggere i contrabbandieri del mercato nero che agiscono al confine con la Libia.

L’élite e i marginalizzati

In un contesto di discriminazione, le classi medie e benestanti tunisine, soprattutto quelle delle regioni costiere, accusano gli attivisti di essere antipatriottici e di bloccare l’economia. Ma di quale economia si parla? Un’economia basata su estrazioni e trivellazioni che distruggono l’ambiente nell’interesse del capitale nazionale e internazionale?

La Tunisia è polarizzata. Ma la vera ragione non ha niente a che vedere con la presunta divisione tra tunisini laici e tunisini islamisti.

Da una parte c’è l’élite del centro che difende lo status quo e preferisce perdonare i corrotti per mantenere il proprio potere e status attuale.

Dall’altra la popolazione marginalizzata delle periferie che non accetta il mantra neo-liberale delle élite e dei gruppi di esperti internazionali e vuole ritrovare la propria dignità. La polarizzazione è evidente nello slogan rivoluzionario tunisino “hogra”, un’espressione di sprezzo per le periferie da parte del centro dominante, che è tornato ad essere usato in Tataouine e in altre zone marginalizzate del centro e del sud della Tunisia.

La tragedia della famiglia Soltani, i cui due figli sono stati decapitati dai militanti nell’arco di un anno e mezzo, con totale indifferenza da parte del governo, è un perfetto esempio della presenza puramente estrattiva e repressiva dello Stato nella regione.

La risposta ai movimenti sociali deve andare oltre la creazione di nuovi posti di lavoro, l’interruzione di misure di austerity e dare la caccia ai corrotti. È necessario tradurre gli obiettivi della rivoluzione in una nuova relazione tra stato, territorio e popolazione.

La Tunisia deve liberarsi dalla logica capitalista basata sulla supremazia della crescita e, piuttosto, migliorare le condizioni di vita in loco.

Verso la direzione sbagliata

Ciononostante, i partiti al potere (i “laici” Nidaa Tounes e gli “islamisti” Ennahda), con l’accordo a porte chiuse tra i due leader che secondo alcuni è fondamentale per la stabilità della Tunisia, sembrano andare nella direzione opposta.

In un discorso del 10 maggio il Presidente Essebsi ha dichiarato che manderà le forze dell’ordine a proteggere il settore delle estrazioni. L’impiego della forza per reprimere gli appelli della popolazione manda in frantumi la versione della storia per cui la Tunisia sarebbe il caso di successo tra le rivoluzioni Arabe e conferma la predisposizione contro-rivoluzionaria del governo attuale.

Chahed, messo alle strette dalle rivelazioni del nipote di Ben Ali durante l’udienza alla Commissione per la Verità e la Dignità e dalle continue proteste del movimento Manich Msemah, ha in tutta fretta mandato in prigione, scegliendoli con cura, alcuni uomini d’affari corrotti.

Eppure, per molti, questo gesto non è sufficiente, arriva troppo tardi e, al massimo, è il riflesso di un pareggiamento dei conti all’interno dell’élite piuttosto che di una vera battaglia alla corruzione.

Le risorse naturali sono diventate la questione su cui convergono le liti sugli obiettivi della rivoluzione e questo è il motivo per cui la natura ciclica dei movimenti sociali in Tunisia non può essere spiegata soltanto come una risposta alla mancanza di posti di lavoro o alle misure di austerity.

Questi continui movimenti sociali in Tunisia sono derivazione e continuazione della rivoluzione, una richiesta continua per la cessazione di tutte le forme di dominazione: il neoliberalismo basato sui soldi facili dell’estrazione delle risorse, il patriarcato di Stato, l’eredità del colonialismo e del razzismo.

Mabrouka M’Barek è stata membro eletto dell’Assemblea Costituente Nazionale della Tunisia (2011-2014). È ricercatrice non residente del Middle East Institute.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale del Middle East Eye.

Traduzione di Laura Signori

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