Se oggi in Italia si parla di statistiche di genere, grande merito è di Linda Laura Sabbadini, Direttore del Dipartimento delle Statistiche Sociali e Ambientali dell’Istat, che già dagli anni ’90 ha promosso un processo di rinnovamento radicale e di sviluppo nel campo delle statistiche ufficiali sociali e di genere.
È grazie a questo tipo di studi se oggi si può avere un quadro generale della disparità di genere nel nostro Paese. A partire dalla situazione lavorativa, precaria, con una fortissima segmentazione professionale, che fa sì che, nota Sabbadini, “per spiegare il 50 per cento dell’occupazione occorrano 51 professioni per gli uomini e solo 18 per le donne.”
A questo panorama si aggiungono le quotidiane difficoltà di conciliazione, l’indebolimento progressivo del welfare familiare e il progressivo mutamento dei ruoli familiari a seguito della crisi economica.
Ed è in questo contesto che bisogna inserire le violenze contro le donne, a partire da quel femminicidio che, la stessa Sabbadini avverte, non è che “la punta dell’iceberg” del problema; un fenomeno che ha radici antiche e profonde e che “nonostante il forte calo degli omicidi nel nostro Paese, non diminuisce da tanto tempo, quasi a sottolineare la natura strutturale del fenomeno”.
Il focus sul “Mercato del lavoro” del Rapporto Annuale ISTAT 2012 ci fornisce un panorama di lavoratori anziani in aumento e giovani in diminuzione. La crisi ha colpito i giovani e non gli anziani?
Guardando i principali indicatori del mercato del lavoro è evidente che in questi anni per i giovani si sono ridotte in misura sensibile le opportunità di trovare o di mantenere un’occupazione, ma la crisi ha interessato molto anche le età centrali. Tra il 2008 e il 2012 gli occupati 15-29enni sono diminuiti di oltre 700 mila unità e il loro tasso di occupazione è sceso di circa 7 punti percentuali, attestandosi poco sopra il 30%. La riduzione per i 30-49enni è stata inferiore ma, comunque, significativa – 3,1 punti percentuali in meno portando il tasso per questa classe al 72,7%.
Al contrario, il tasso di occupazione per gli ultra cinquantenni è aumentato – di quasi 4 punti percentuali in media, di 6 per le donne – e questo è avvenuto anche per la maggiore permanenza a lavoro che è conseguita all’inasprimento dei requisiti per il pensionamento stabilito con le riforme pensionistiche.
E per quanto riguarda la qualità del lavoro, di che tipo di occupazione si tratta?
Per i lavoratori più giovani sta progressivamente peggiorando la qualità dell’occupazione. Non solo per loro è difficile trovare un lavoro ma quando lo trovano è sempre meno un impiego a tempo pieno e indeterminato e sempre più un’occupazione a tempo parziale e/o a tempo determinato o una collaborazione. Basta ricordare che dal 2008 per gli under 50 il part-time è aumentato di 425 mila unità, un aumento che si concentra tra i 15-29enni (+15,5 per cento) e che è tutto involontario; il tempo determinato e le collaborazioni, diminuite nella prima fase della crisi, sono cresciute di quasi 90 mila unità nel 2012.
Un lavoro che spesso richiede competenze inferiori a quelle che hanno accumulato attraverso il percorso di istruzione. Il rendimento dell’istruzione per i nostri giovani è dunque basso ma è da evidenziare che nella crisi l’aver conseguito una laurea sta proteggendo dagli eventi negativi del mercato del lavoro di più rispetto a titoli di studio inferiori.
Un’altra criticità che emerge riguarda l’occupazione femminile ferma al 47,1% contro una media Ue del 58,6 %. Al tempo stesso il numero delle donne lavoratrici è superiore al passato e si parla di “femminilizzazione del lavoro”: c’è una contraddizione?
Sono vere ambedue le cose e vediamo perché. Se partiamo dalla crisi del 1992/93 ci accorgiamo che la crisi ha colpito soprattutto gli uomini, nell’industria. Le donne hanno perso meno e già nel 1995 registrano un segno più all’occupazione. Da quel momento abbiamo assistito ad un processo ininterrotto di crescita dell’occupazione femminile che è durato fino al 2008, quando è iniziata una nuova crisi. L’incremento di occupazione è stato maggiore di quello registrato dagli uomini. Ciò ha fatto sì che aumentasse la percentuale di donne tra gli occupati e che si parlasse di femminilizzazione del mercato del lavoro, nonostante la situazione rimanga critica, visto che siamo in fondo alla graduatoria dei paesi europei per tasso di occupazione femminile. Con l’arrivo della crisi, anche le donne hanno perso occupazione soprattutto il primo anno, ma il saldo nel 2012 rispetto al 2008 è di 110 mila occupate in più. Anche in questo caso, gli effetti sono stati particolarmente rilevanti per gli uomini perché maggiormente impiegati nell’industria e nelle costruzioni, i settori che hanno sofferto di più. Il sommarsi di questi due fenomeni – tenuta dell’occupazione femminile e caduta di quella maschile – ha comportato che la percentuale di donne tra gli occupati crescesse, fino al 41,3 per cento nel 2012, e che quindi si accentuasse il processo di femminilizzazione che si spiegava nella fase pre-crisi con un maggiore ingresso di donne nel mercato del lavoro, nella crisi con una maggiore tenuta rispetto agli uomini.
Quanto è difficile, per le donne italiane, uscire dal recinto delle professioni tradizionalmente destinate alle donne?
La situazione è difficile, soprattutto in un periodo di crisi in cui sono cresciute le professioni a bassa qualifica e diminuite le altre. Dal 2008 l’occupazione femminile nelle professioni non qualificate è aumentata a ritmi più che doppi rispetto a quanto avvenuto per gli uomini (+24,9 per cento contro il +10,4 per cento) e più che tripli nelle professioni esecutive delle attività commerciali e dei servizi (rispettivamente +14,1 e +4,6 per cento). Per avere la dimensione della segmentazione professionale che caratterizza il nostro mercato del lavoro ricordo che per spiegare il 50 per cento dell’occupazione occorrono 51 professioni per gli uomini e solo 18 per le donne.
Quali sono le professioni più caratterizzanti e le fasce di popolazione più coinvolte dal fenomeno?
Commesse alla vendita al minuto, colf e segretarie sono le professioni che raccolgono il maggior numero di occupate: ben 1 milione 737 mila unità equivalente al 18 per cento del totale dell’occupazione femminile. In aggiunta, va notato che è crescente e più elevata rispetto agli uomini la quota di donne che possiede un titolo di studio superiore a quello richiesto per il lavoro che svolgono: nel 2012 l’incidenza delle sovraistruite è pari al 23,3 per cento, gli uomini nella stessa condizione sono il 20,6 per cento.
Le donne straniere risentono in modo particolare di questi fenomeni e il processo di concentrazione su poche, pochissime, professioni per loro si è progressivamente accentuato – più della metà delle occupate straniere sono impegnate in appena due (assistenti domiciliari e collaboratrici domestiche) professioni nel 2012, erano cinque nel 2008 perché inserite anche come cameriere, commesse o operaie addette ai sevizi delle pulizie. D’altra parte nel solo 2012 in oltre otto casi su dieci l’aumento dell’occupazione straniera è da ricondurre ai servizi alle famiglie – 73 mila unità in più quasi esclusivamente donne.
La scarsa presenza delle donne italiane alla guida delle imprese è una delle costanti del mondo del lavoro italiano. Quali sono gli ostacoli principali? C’è anche un problema di elaborazione di modelli di leadership femminile?
Molte difficoltà derivano dai problemi di conciliazione dei tempi di vita in un contesto in cui l’organizzazione del lavoro rimane particolarmente rigida e l’offerta di servizi carente. A questi si aggiungono ostacoli culturali, a volte psicologici, che limitano per le donne le possibilità di carriera fino ai vertici. Tuttavia va anche detto che la presenza femminile in professioni qualificate e dirigenziali sta crescendo – sono ad esempio circa il 40 per cento dei ricercatori nell’istruzione superiore e negli enti di ricerca pubblici e il 38 per cento dei dirigenti della pubblica amministrazione. Più bassa, ma comunque in crescita, la quota di imprese individuali guidate da una donna, pari nel 2010 al 27,4%. Questa percentuale è più alta per i giovani sotto i 40 anni – oltre il 30 per cento contro il 21 per cento registrato per gli over 60. La presenza femminile, tra l’altro, sembra garantire maggiori probabilità di successo: per le imprese nate tra il 2007 e il 2010 sopravvivono di più quelle miste e a seguire quelle totalmente femminili.
C’è poi il tema delle politiche di conciliazione. Sappiamo che molte donne sono costrette a lasciare il lavoro dopo la maternità e che ci sono ancora fenomeni di dimissioni in bianco. Quali sono le dimensioni del fenomeno?
Il fenomeno delle interruzioni del lavoro per motivi familiari è antico e ha riguardato numerose generazioni di donne. Lo abbiamo rilevato da anni. Ha riguardato le generazioni degli anni ’30, ‘40, ‘50, ‘60, ‘70. Insomma è un fenomeno diventato strutturale nel nostro Paese. 800 mila donne nel 2009 ci hanno detto di aver lasciato il lavoro in seguito a maternità nel corso della vita, pur non avendolo scelto perché messe in condizione di farlo dal datore di lavoro.
La diffusione delle forme atipiche di lavoro che le donne sperimentano più degli uomini non facilitano. Perché è evidente, ad esempio, che in presenza di gravidanza, difficilmente l’impresa sceglie di rinnovare un contratto in scadenza. Ogni giorno assistiamo alle rinunce, alla carriera e al lavoro da parte di donne sovraccariche che con difficoltà conciliano i propri tempi di vita. Se si somma al lavoro retribuito quello domestico e di cura, le donne occupate con figli lavorano un’ora in più dei loro compagni e questo vale per le donne di tutte le classi sociali. La differenza è più ampia se la madre è operaia (1 ora e 26 minuti in più), se lavora in proprio, è socia di cooperativa, coadiuvante o Cococo (1 ora e 22 minuti), ma rimane alta – 1 ora e 10 minuti – anche per le donne che svolgono un’attività dirigenziale o sono libere professioniste e imprenditrici.
Si torna quindi alla questione del welfare familiare e della ripartizione delle attività di cura e assistenza in contesti familiari.
Sì, l’indice che misura l’asimmetria all’interno della coppia nella distribuzione delle ore per le responsabilità familiari è molto alto indipendentemente dal tipo di occupazione. Si va dal 77.7 per cento per lavoratrici in proprio, socie di cooperativa, coadiuvanti e Cococo al 72,5 per cento se la donna è direttivo, quadro, insegnante o impiegata. Il lavoro domestico e di cura pesa prevalentemente sulle donne e i carichi da sostenere tendono ad aumentare. Passando da una generazione all’altra, infatti, ogni donna adulta ha intorno a sé sempre meno persone con cui condividere la cura (anche per effetto del calo della fecondità) ed è sempre più sovraccarica perché maggiormente inserita nel mercato del lavoro ed è quindi costretta a tagliare sul numero di ore per il lavoro familiare. Al contempo le risorse pubbliche destinate all’erogazione di servizi sono sempre più scarse. Le nonne, un vero pilastro del nostro welfare, sono ‘schiacciate’ dal peso dei genitori anziani non autosufficienti e da quello dei nipoti da accudire. Via via però esse dovranno rimanere più a lungo al lavoro, per effetto delle riforme pensionistiche, e riusciranno sempre meno ad aiutare le figlie che lavorano o cercano un’occupazione, mettendo in crisi la catena di solidarietà femminile che ha caratterizzato il nostro Paese.
La crisi ha costretto le famiglie italiane a una revisione forzata dei ruoli familiari e delle stesse dinamiche interne di potere. Il fenomeno delle donne “breadwinner”, in costante ascesa, fornisce uno dei dati più significativi. Che sta succedendo?
E’ la strategia messa in atto dalle famiglie italiane per contrastare la perdita di lavoro di capifamiglia e giovani figli. Inizialmente hanno usato i risparmi, ma la straordinaria intensità e durata della crisi ha spinto molte donne a cercare lavoro e, in un numero non esiguo e crescente di casi sono ora le uniche in famiglia ad avere una retribuzione perché già avevano un’occupazione o l’hanno trovata. I numeri: rispetto al 2008 sono aumentate di quasi il 40% le donne in cerca di occupazione che vivono in coppia con figli, sono di più le coppie con figli in cui solo la donna lavora, passate da 224 mila a 381 mila nel 2012 – l’8,4 per cento del totale delle coppie con figli. In particolare, è cresciuto il numero di occupate che vivono in coppie in cui l’uomo è in cerca di occupazione o disponibile a lavorare o è cassaintegrato – oltre 70 mila unità in più solo tra il 2011 e il 2012.
Crede che esista una relazione tra questa crescente autonomia delle donne e la violenza che subiscono da parte maschile?
La crescita della libertà femminile e dell’autonomia è sotto gli occhi di tutti ed è evidente. Certamente dietro la violenza contro le donne c’è anche un fenomeno di questo tipo. La violenza contro le donne ha una radice antica, la volontà di possesso, dominio, controllo da parte maschile e riguarda trasversalmente le differenti classi sociali. La punta dell’iceberg della violenza è rappresentata dal femminicidio che nonostante il forte calo degli omicidi nel nostro Paese non diminuisce da tanto tempo, quasi a sottolineare la natura strutturale del fenomeno. Purtroppo la violenza contro le donne da parte del proprio partner si riproduce nel momento stesso in cui accade. Il 60% dei figli assiste alla violenza sulla propria madre e ciò aumenta di molto la probabilità che se sono maschi diventino a loro volta autori di violenza e se femmine vittime. Per questo la violenza contro le donne è insostenibile, perché nel momento stesso in cui avviene crea le condizioni perché continui anche in futuro. Solo questo dovrebbe indurre a porla tra le priorità delle politiche di un Paese.
Ancora a proposito di femminicidio. Secondo l’ultima indagine Istat del 2006 ben dieci milioni di donne italiane hanno dichiarato di aver subìto violenza fisica, psicologica o sessuale (spesso in ambito familiare). Ci sono classi sociali più investite dal fenomeno?
No, è un fenomeno assolutamente trasversale tra classi sociali. Invece, pur con le cautele dovute alla possibilità di una diversa propensione e disponibilità delle donne a riconoscere e a parlare della violenza subita, differenze sono emerse a livello territoriale e per dimensione del comune di residenza. I rischi più alti si hanno per le donne che vivono nelle regioni del Centro Italia e del Nord e per quelle che risiedono nelle aree metropolitane.
Stavo conducendo una ricerca sulla condizione lavorativa della donna negli anni 1930/1940, per conto di mia figlia, e non riuscivo a trovare nessun documento, poi mi sono imbattuto in questo, ed ho capito, che come immaginavo, era difficile trovare qualcosa perchè in quegli anni, era difficile trovare donne al lavoro. Quindi meno che mai documentazioni, in particolare mi serviva il racconto di una giornata lavorativa tipica. se qualcuno mi suggerisce qualcosa.