Da fiore all’occhiello a direttore forte

Quando Irving Howe venne improvvisamente a mancare, nel maggio del 1993, nessuno sapeva se Dissent avrebbe avuto un futuro. I giornalisti e i collaboratori più giovani della rivista volevano continuare a farla uscire, ma tutti avevamo l’impressione che il progetto sarebbe andato in porto solo se Michael Walzer avesse preso il posto di Irving. E nessuno aveva idea di quali fossero le sue intenzioni.

Con la sua riservatezza, il suo carattere introverso e il suo raffinato distacco, Michael era un personaggio abbastanza misterioso agli occhi dei redattori più giovani. Era la Greta Garbo di Dissent. Occupava la poltrona di condirettore e partecipava a tutte le riunioni di redazione, ma era poco presente nella vita quotidiana della rivista. A una riunione, dopo che Irving aveva esortato i colleghi a partecipare più attivamente al dibattito, Michael disse che la direzione allargata non era una strategia vincente, e che le riviste migliori rispecchiavano la personalità e gli interessi di un direttore forte. Quella risposta spiegava come mai Michael avesse assunto una posizione così defilata, ma non forniva indizi sufficienti per capire se, all’occorrenza, sarebbe stato disposto a diventare un “direttore forte”.

Durante la direzione di Irving, durata quasi quarant’anni, Dissent non aveva mai mancato l’appuntamento in edicola, neppure per un’uscita in ritardo. Un’impresa del genere è più ardua di quanto possa sembrare, soprattutto per una piccola redazione con un budget risicato. Anche nel caso in cui Michael fosse stato disposto a dirigere la rivista, restava da vedere se avrebbe retto ai suoi ritmi di lavoro.

Era un uomo abituato a ponderare bene ogni decisione. Da quasi quindici anni le sue giornate erano assorbite dal lavoro all’Institute for Advanced Study di Princeton (secondo fonti affidabili, i suoi colleghi spesso si concedevano qualche minuto di chiacchiere o pettegolezzi nei corridoi, mentre lui se ne stava sempre rintanato nel suo ufficio a leggere, scrivere e pensare). Qualche volta gli avevo telefonato dalla redazione per sentire il suo parere riguardo a questa o quella scelta editoriale, e mi era sembrato che stesse parlando da una remota oasi di meditazione, alla quale era impaziente di tornare.

Restammo tutti sorpresi, dunque, quando Michael decise seduta stante di assumersi la responsabilità del futuro di Dissent. Assieme a Mitchell Cohen, il politologo nominato condirettore nel 1991, Michael riuscì a tenere in piedi la rivista. Veniva in redazione una volta alla settimana e si tratteneva tutto il giorno; il resto del lavoro lo svolgeva da Princeton. Non ho mai conosciuto Michael abbastanza bene da capire se quella nuova avventura fosse per lui un piacere, un peso o un po’ entrambe le cose, ma sono sicuro che l’abbia vissuta come un cambiamento radicale.

Negli anni successivi ebbi la fortuna di scoprire il suo carattere e i suoi valori. Rimasi colpito soprattutto da quattro cose.

La prima era la sua passione per l’arte del ragionamento. Da direttore, voleva che gli articoli di Dissent esponessero tesi chiare e convincenti; voleva, per citare una delle sue frasi più ricorrenti, che “non facessero una piega”.

In una particolare occasione, uno storico collaboratore della rivista scrisse un articolo sul Medio Oriente, e qualche giorno dopo arrivò una lettera di protesta al direttore. Michael voleva pubblicarla, e chiese al collaboratore di preparare una risposta. Quest’ultimo disse che non era necessaria, perché l’autore della lettera rappresentava una posizione “marginale” di estrema sinistra. Michael – e quella fu probabilmente l’unica volta in cui ho avvertito una nota di insofferenza nella sua voce – replicò che la posizione marginale o meno dell’autore non importava un bel niente; il punto era che aveva sostenuto una tesi ragionevole, la quale esigeva una risposta altrettanto ragionevole.

Vale la pena di sottolineare che Michael era politicamente molto più vicino all’autore dell’articolo incriminato che non al lettore arrabbiato.

Il secondo elemento significativo dell’approccio di Michael al suo lavoro è la filosofia dell’autocritica. Dava l’impressione di essere convinto che l’onestà intellettuale di un politologo si misurasse con la sua disponibilità a sottoporre le proprie convinzioni a frequenti e approfonditi riesami. Non credo che Michael intendesse applicare questo principio a ogni articolo pubblicato su Dissent – al momento opportuno non disdegnava il colpo ad effetto –, ma l’idea che fosse eticamente importante interrogarsi sulle proprie posizioni è stata in tutti questi anni al cuore della rivista.

Il terzo elemento era l’amore per la chiarezza. La scrittura di Michael si distingue per la sua lucidità, una lucidità che poggia su un presupposto morale oltre che estetico. Come lui stesso ebbe a dire a proposito dello stile di Irving Howe, l’obiettivo è quello di “raggiungere un pubblico di lettori potenzialmente esteso quanto la democrazia stessa”. Da giornalista, Michael ha difeso con tutte le sue forze il principio della chiarezza d’espressione. Un giorno arrivò in redazione un articolo di teoria politica infarcito di termini tecnici: un giornalista chiese all’autore di rivederlo in modo da rendere il contenuto più chiaro, ma questi replicò che strava discutendo idee complesse e non poteva usare il linguaggio di tutti i giorni. Ricordo ancora l’espressione vagamente divertita con cui Michael prese atto della sua giustificazione quando ne fu informato. Quell’articolo non fu mai pubblicato (almeno su Dissent).

E il quarto era la sua umiltà. Passava le prime bozze dei suoi articoli ai colleghi più esperti e agli ultimi arrivati, mostrando lo stesso interesse per le loro considerazioni. Nel corso degli anni l’ho visto a molte riunioni e pochissime feste, e mai che si guardasse intorno in cerca di persone importanti con cui attaccare bottone; gli assistenti di redazione e gli ospiti d’onore erano meritevoli, ai suoi occhi, di uguale attenzione.

Michael è una persona estremamente riservata e poco avvezza alle conversazioni spicciole. Ma ciò non significa che abbia un carattere freddo; al contrario, la sua presenza trasmette calma, serenità e calore umano. Di fronte a una persona taciturna, tuttavia, spesso si sente il bisogno di riempire il silenzio; per questo mi è capitato ripetutamente di parlare a vanvera in sua compagnia. Un giorno uscimmo insieme dalla redazione e ci incamminammo nella stessa direzione. Promisi a me stesso che non avrei preso la parola. Se non avesse detto nulla, sarei semplicemente rimasto zitto.

Camminammo in silenzio per un paio di isolati, poi ci salutammo.

Le uniche occasioni in cui tutti si possono fare una chiara idea della vita interiore di Michael sono quelle in cui è presente la sua famiglia. Quando è circondato da moglie, figlie, generi e nipoti, la sua contentezza è indescrivibile!

Nei primi anni dell’amministrazione Clinton, il presidente organizzò numerosi incontri con i più autorevoli politologi statunitensi. Robert Putnam, Stephen Carter, Theda Skocpol, per citarne solo alcuni, si confrontarono con le autorità di governo nel corso di dibattiti o lunghe cene alla Casa Bianca. Un giorno venimmo a sapere che Michael era stato invitato a uno di quegli incontri e gli chiedemmo se fosse emozionato. Rispose che non ci sarebbe andato. Il motivo? Si era già impegnato a tenere i nipotini durante il weekend.

Immagino che non sarebbe stato difficile trovare una babysitter che lo sostituisse. E se Michael pensava che l’incontro con il presidente potesse avere una qualche utilità politica, probabilmente ci avrebbe ripensato. Invece disse con un mezzo sorriso che quella sera sarebbe andato a casa della figlia.

Forse nel suo sorriso c’era un’ombra di imbarazzo o, al contrario, una punta di malizia. Ma sembrava soprattutto il ghigno bonario di chi conosce il valore reale delle cose e delle persone.

Mentre scrivo queste righe mi viene in mente che se l’avessi conosciuto meglio, non mi sarei stupito della prontezza con cui ha deciso di impegnarsi in prima persona per il futuro di Dissent. Forse la cosa più importante che ho imparato su di lui in tanti anni è che sa quali sono i valori più importanti e crede che le passioni vadano coltivate con tutta l’intelligenza, la pazienza e l’amore di cui si è capaci; che si tratti di una creatura adorabile, come un nipotino, di un’idea astratta, come il principio del ragionamento logico, o ancora di un’autorevole ma fragile istituzione, come una piccola rivista che fa del suo meglio, decennio dopo decennio e sfida e dopo sfida, per tener vivo l’ideale del socialismo democratico.

(Traduzione di Enrico Del Sero)

Brian Morton è l’autore di Starting Out in the Evening e altri romanzi. Dal 1983 al 2000 ha fatto parte della redazione di Dissent.

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